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FA CINEMA PER SODDISFARE IL SUO ANIMO DA VOYEUR. PERCHE’ OSSERVARE IL MONDO E’ DA SEMPRE LA SUA PASSIONE. CHE SI TRATTI DI SCRUTARE IL SUO PUBBLICO O GLI INVITATI AL SUO DESCO. TRA PIACERE E CRUDELTA’

Il regista e produttore Luca Guadagnino fotografato da Alessandro Furchino Capria per Icon.
«Ho sempre pensato che se ti organizzi bene fai tutto. In tredici anni Fassbinder ha girato quaranta film e serie tv lunghe anche venti episodi». Siamo seduti sul divano del soggiorno della splendida dimora del diciassettesimo secolo che possiede a Crema, una proprietà che è stata disabitata per quarant’anni prima che lavorasse personalmente alla ristrutturazione durata sei mesi. Di questo luogo ha curato ogni dettaglio, dai tessuti che ricoprono divani e sedie, alle tende, alle tinte delle pareti. Nel soggiorno, a cui si accede attraversando la lunga loggia tutta vetrate con una collezione di piante tropicali, i soffitti sono affrescati, le sedie e i divani di Piero Castellini virano fra il porpora e il ciliegia, mentre le pareti sono pervinca scuro e aiutano i pavimenti di cotto rosso a spiccare. La bellezza è nell’aria, e perdercisi è un rischio reale. Del resto le dimore per Luca Guadagnino sono un tratto distintivo, e nei suoi film hanno la stessa sensualità degli attori. L’ultima è stata la Seicentesca Villa Albergoni che ospita le vicende di Chiamami col tuo nome, e che irretisce lo spettatore tanto quanto i favolosi Armie Hammer e Timothée Chalamet. Tornando a Fassbinder, me lo cita quando gli faccio notare che l’ultimo è stato un anno vissuto davvero pericolosamente. Tra il Sundance, Berlino, Toronto e altri festival nel mondo si è parlato solo del suo film, con lui e il cast sempre presenti. In quegli stessi mesi ha terminato le riprese di Suspiria -attualmente in fase di montaggio- e si prepara a girare il film in costume con Jennifer Lawrence, Burial rites, tratto da una storia vera, e il thriller Rio con Jake Gyllenhaal e Benedict Cumberbatch. Non bastasse, mentre segue i progetti della sua casa di produzione, la Frenesy, ha iniziato una nuova vita professionale. «Ho avuto la brillante idea di aprire uno studio di interior design, ho un team di architetti che lavorano con me e al momento stiamo seguendo un cliente in Italia e uno in Germania. Sto chiedendo parecchio al mio corpo, ma c’è molta adrenalina in circolo che mi permette di farlo».
A guardare quello che ti sta succedendo, e gli attori coinvolti nei prossimi progetti, non c’è da meravigliarsi: è sotto i riflettori come mai prima d’ora. «Ho sempre lavorato con quel tipo di attori, non è cambiato nulla. In A bigger splash c’erano Ralph Fiennes, una delle leggende viventi del cinema anglosassone, Matthias Schoenaerts e Dakota Johnson, una delle giovani più in ascesa a Hollywood. In Suspiria ci sono Chloe Grace Moretz, Mia Goth e ancora Dakota e Tilda. E sono almeno cinque anni che io e Jake Ghyllenhal cerchiamo di fare un film insieme».
Quindi non si sente cambiato, nonostante il suo nome ormai sia noto a tutti? «Arrogarsi il diritto di percepirsi cambiati come persone, in base a fenomeni esteriori, è una totale stupidaggine. Io sono l’amore è stato candidato ai Golden Globes e ai Bafta, e avrei potuto prendere la nomination agli Oscar per il film ma ce l’hanno data per i costumi. Quello che conta, per me, è che ho ricevuto lettere straordinarie da colleghi importanti, ho stretto amicizie con registi straordinari».
Come si sentirebbe con un Oscar in mano? «È una domanda che non posso nemmeno ascoltare. Un premio può far parte della tua storia professionale, quando fai il mio mestiere e partecipi a un processo professionale che hai deciso di affrontare a un certo livello, se hai un gruppo di collaboratori straordinario e la fortuna di scegliere la storia giusta al momento giusto. Un premio va affrontato per quello che è, come un riconoscimento del lavoro di un gruppo di persone ma anche qualcosa di transeunte, il risultato di una casualità e di una costanza».
Insomma, per lei la statuetta non farebbe la differenza? «Assolutamente no, ci sono cineasti immensi che non hanno mai vinto un Oscar e altri di una mediocrità sconfortante che hanno ricevuto parecchi premi. Mi sono laureato in Storia del cinema con il professor Spagnoletti, a Roma, e prima ho insegnato per lui come ricercatore, poi ho fatto il critico per molti anni. Voglio dire che non posso non essere consapevole del fatto che si sta parlando di variabili».
Il momento più doloroso, fino a qui? «Melissa P., un lavoro che non rispecchia la mia visione. Ma ho imparato la lezione, e non posso lamentarmi. Dal 1995, quando ho iniziato a fare il regista in modo professionale, ho sempre fatto quello che ho voluto. In 25 anni incontri, scoperte ed errori fatti mi stanno bene. Dal allora mi muovo a piccoli passi che mi portano dove voglio essere, che non è necessariamente il luogo del successo».
Che luogo è? «È il luogo in cui ho la possibilità di fare ciò in cui credo. Mi piace lavorare con strumenti che mi fanno sentire tranquillo rispetto alla resa di ciò che voglio fare».
Come definisce il successo? «È qualcosa determinato da variabili che non hanno niente a che vedere con la realtà identitaria del soggetto che ne viene coinvolto».
(…continua)
L’intervista integrale è pubblicata su ICON Panorama di Marzo, anno 2018
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