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Marcello Fonte in Dogman, il film per cui ha vinto il premio come miglior attore protagonista all’ultimo festival di Cannes. 

Un lavoro classico e potente, che finisce dritto nella rosa dei potenziali vincitori della Palma D’Oro

Anticipato da un tappeto rosso che ha visto sfilare anche Nicoletta Braschi e Roberto Benigni, e concluso con una standing ovation di 10 minuti (ripetutasi all’ingresso del regista e del cast in sala stampa), il film apre con un primo piano sui denti di un cane feroce che viene placato e lavato dal mite protagonista. Una scena che racchiude l’essenza della storia che vedremo, quella di un uomo che deve sopravvivere in una periferia popolata da belve, che non sono, però, gli animali di cui si occupa per professione e a cui allude il titolo, ma i consimili che lo circondano.

Marcello è un uomo di piccola statura che porta avanti un salone di toelettature per cani, faticosamente messo in piedi in una periferia malfamata, un luogo che sembra un po’ un asfissiante e che il regista ha trovato (di nuovo) in un angolo disabitato di Castelvolturno. La vita del protagonista è semplice e scandita dalla passione con cui cura e pulisce gli animali – cuccioli e cani adulti dalle razze e dalle taglie più svariate che arrivano nel suo negozio -, l’amore profondo che lo lega a sua figlia Alida e la vita squallida del luogo in cui domina la personalità violenta e terrorizzante di Simone, un ex pugile che tiene in pugno la zona. Gli altri abitanti del luogo, stufi dei soprusi, iniziano a mormorare che bisogna liberarsi di Simone, ma Marcello sembra non sposare la loro idea e rimanere fedele a quel piccolo mostro che gli è famigliare da sempre.

«Come è capitato spesso nei miei film, anche all’origine di Dogman c’è una suggestione visiva, un’immagine, un ribaltamento di prospettiva: quella di alcuni cani, chiusi in gabbia, che assistono come testimoni all’esplodere della bestialità umana. Un’immagine che risale a 13 anni fa, quando per la prima volta ho pensato di girare questo film», racconta il regista romano, classe ’68, amatissimo a Cannes.
Era stato sulla Croisette nel 2002 con L’imbalsamatore, nella sezione Quinzaine, poi per la prima volta in Concorso con Gomorra, nel 2008, con cui vinse il Gran Prix, e di nuovo nel 2012 e nel 2015, con Reality e Il racconto dei Racconti.

«La storia è cambiata molto negli anni, insieme a noi, e siamo arrivati a fare questo film e a raccontare Marcello, ampliando molto la storia e dandole un senso più profondo e umano. Il protagonista resta incastrato dentro meccanismi di violenza, dentro un incubo, e riesce fino alla fine, al suo meglio, a non trasformarsi in un mostro ma a rimanere in qualche modo una vittima della macchina. È molto naif, innocente, e la sua umanità è la forza del film».

Dogman non è soltanto un film di vendetta, insiste Garrone, a cui in piena conferenza stampa squilla il cellulare («non sono fortissimo con la tecnologia, pensavo di aver messo la modalità aerea»), anche se la vendetta gioca un ruolo importante, così come non è soltanto una variazione sul tema (eterno) della lotta tra il debole e il forte. «È invece un film che, seppure attraverso una storia estrema, ci mette di fronte a qualcosa che ci riguarda tutti: le conseguenze delle scelte che facciamo quotidianamente per sopravvivere».

Gli attori sono di una bravura straordinaria. Il protagonista, Marcello Fonte, ha «il volto antico che sembra arrivare da un’Italia che sta scomparendo», dice Garrone, che si sta preparando a girare Pinocchio con Toni Servillo. «Mi ha sempre ricollegato molto a uno dei miei grandi miti del passato, Baxter Keaton, è riuscito a portare al film, soprattutto nella prima parte, momenti di comicità. Quindi un personaggio che abbiamo completamente reinventato rispetto al fatto di cronaca, che è stato molto cruento, soprattutto per quanto riguarda la tortura».

Le vicende del film sono liberamente ispirate ai fatti del 16 febbraio 1988, quando Pietro De Negri, il “Canaro della Magliana”, uccise brutalmente l’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci, dopo averlo rinchiuso in una gabbia per cani. Ma come sempre accade, Garrone allarga lo sguardo rispetto all’ispirazione da cui parte e la trasforma in una metafora universale, in questo caso della perdita dell’innocenza.
Edoardo Pesce è quasi irriconoscibile, trasfigurato dalla cattiveria. E accanto a lui Marcello diventa ancora più significativo, con il suo incarnare una forma di innocenza in grado di “reggere” la brutalità dell’antagonista. Finché non accade qualcosa che va oltre il sopportabile: a quel punto Marcello avrà un’idea che lo spettatore (che non conosce i fatti di cronaca) non si aspetterebbe.
A questa storia che, alla fine, mostra un mondo gelido che rimane sempre uguale, addirittura quasi indifferente, danno un tocco straordinario le luci e la fotografia a cui ha lavorato il danese Nicolaj Bruel.

Articolo pubblicato su GQ.it

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