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A VENEZIA LO AVEVANO PREMIATO PER LA SCENEGGIATURA. IN SALA VINCERANNO I DIALOGHI. E NEL FRATTEMPO IL REGISTA E SCENEGGIATORE IRLANDESE SI AGGIUDICA QUATTRO GOLDEN GLOBES

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Martin McDonagh, regista e sceneggiatore (courtesy The Hollywood reporter).

Secondo il New York Times è uno dei più grandi commediografi irlandesi viventi. Martin McDonagh, anche sceneggiatore e regista, ha vinto ben tre Laurence Oliver Awards per il teatro e un Oscar al cinema per il corto Six Shooter, e i suoi lavori teatrali sono stati messi in scena in oltre quaranta paesi. E sono tutti ambientati in Irlanda, nonostante sia un britannico di origini irlandesi, con doppia cittadinanza. All’ultima Mostra di Venezia ha presentato il suo terzo lungometraggio, Tre manifesti EbbingMissouri, nelle sale dall’11 gennaio, che ha scritto e diretto e che ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura. Come lo descrive Frances McDormand, la sua attrice protagonista, lo stile, di McDonagh è “una forma di realismo magico che si fonde con il gotico americano e si basa sull’idea che la gente di provincia non è prosaica ma poetica”. Perfetto, per un mago della parola che viene dalla working class. La storia del film, ambientata nella provincia americana è quella di Mildred, una donna esasperata dall’omicidio insoluto di sua figlia che porta scompiglio nelle dinamiche relazionali della cittadina. E solleva un bel polverone nei confronti dei poliziotti locali, gli ottimi Woody Harrelson e Sam Rockwell.

La sua commedia dark regala articolati dialoghi fra i personaggi, dove ha imparato questo uso della parola? «Ho sempre ascoltato quello che si dicevano le persone, sui pullman, nei caffè. Cercavo di farlo senza giudizio, anche se mi risultava difficile restare neutrale verso le classi sociali più alte. Ma ho sempre saputo che il mio lavoro è vedere l’umanità delle persone, al di là delle idee politiche».

E una certa raffinatezza, da dove viene? «Dal background teatrale, credo anche se il mio primo amore è stato il cinema e agli inizi odiavo il teatro: quello che andavo a vedere in Inghilterra era terribilmente politico e non aveva storia, non succedeva niente per tre ore! È stata la mia fortuna, la spinta a fare qualcosa di diverso».

I primi passi? «Leggendo libri di sceneggiature in biblioteca. Poi a 14 anni ho visto Al Pacino in American Buffalo, e quel linguaggio così forte mi ha colpito molto. Era il 1984 , ho pensato, “allora non è obbligatorio scrivere schifezze…”».

Il suo metodo? «Scrivo tre ore al giorno, e siccome lo faccio a mano, mi regolo sul portare a termine almeno tre pagine».

 Prossimi lavori? «Ho scritto A very, very, very dark matter. Viaggia in profondità negli abissi dell’immaginazione, andrà in scena a Londra nel 2018».

(… continua)

Intervista pubblicata su GQ Italia, dicembre 2017

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