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~ Interviste illuminanti

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Viggo il Vagabondo

08 sabato Ott 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Festival di Cannes

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Tag

Ben Cash, Captain Fantastic, cristianaallievi, David Cronenberg, Dlarepubblica, Exena Cervenka, Guns N’ Roses, History of violence, Indian Runner, Jauja, The Road, Viggo Mortensen

NEL SUO ULTIMO FILM NON DEVE NEMMENO RECITARE. GLI BASTA ESSERE SE STESSO. MR. MORTENSEN È PROPRIO COME CAPTAIN FANTASTIC: IDEALISTA, ERRANTE, UN PO’ SELVAGGIO (E, PER LA GIOIA DELLE FANS, STAVOLTA È ANCHE NUDO)

captain-fantastic-viggo-mortensen.jpg

Viggo Mortensen, 56 anni, in Captain Fantastic, nelle sale dal prossimo dicembre.

Gli hanno affittato una stanza d’albergo, ma lui non ci ha nemmeno messo piede. Sapevano tutti che era nella foresta, da qualche parte. Matt Ross gli aveva mandato una grossa scatola con alcune letture raccomandate, testi del rinomato naturalista Tom Brown e volumi del linguista e filosofo Noam Chomsky. Insieme a questi c’erano anche saggi del Premio Pulitzer Jared Diamond, tutti testi che avrebbe dovuto assorbire, secondo il regista, per diventare Ben. Ma non serviva: li aveva già letti tutti. Nessuno, meglio di Viggo Mortensen, potrebbe incarnare il personaggio che sta al centro di Captain Fantastic, meravigliosa storia molto applaudita all’ultimo festival di Cannes e al cinema dal 15 dicembre (passando a metà ottobre dalla Festa del cinema di Roma in coproduzione con la sezione autonoma e parallela Alice nella città). Il film scritto e diretto da Matt Ross sovrappone due tratti distintivi della personalità dell’attore, poeta, musicista e fotografo nato a Manhattan 58 anni fa: quella di padre e quella di viaggiatore-filosofo. Viggo è Ben Cash, un idealista che vive per dieci anni con i suoi figli in una foresta del Pacifico. Ha tirato su i sei ragazzi con la moglie, in una specie di paradiso fuori dal mondo, facendo da mentore e impartendo rigorosi insegnamenti fisici e intellettuali. Ma una tragedia costringerà il clan a uscire dalla zona di comfort per entrare nel mondo, dove ad attenderli c’è un confronto col prezzo da pagare per vivere una specie di sogno.

Viggo in simbiosi con la foresta, in camicia da boscaiolo e con tanto di nudo integrale frontale -per la gioia delle fans- è una specie di quadratura del cerchio, se si torna al lontano 1991, quando lo aveva scelto Sean Penn per il suo primo lavoro da regista, Lupo solitario, con sigaretta in bocca, petto nudo e aria da Richard Gere prima maniera. La giacca grigia che indossa oggi con camicia bianca non smorza il fascino ruvido dato dall’incrocio tra una madre americana e un padre danese, ma soprattutto da una vita famigliare vagabonda tra l’Argentina, gli Stati Uniti e la Danimarca. «Non ho dovuto fare molte ricerche su come vivere nella foresta ed essere a mio agio nella natura», racconta Montersen. «Ho vissuto nel nord dell’Idaho in un posto che non è molto diverso da dove incontriamo la famiglia Cash. Mio padre è cresciuto in campagna, suo padre gli aveva detto di pescare e di cacciare, cosa che lui ha insegnato a me. Io e i miei due fratelli minori siamo cresciuti come i ragazzi di questo film, ma le somiglianze non finiscono qui. Mio padre e tutta la sua famiglia appartengono al genere “non mollare mai, finchè non hai portato a termine qualcosa…”. Il mio personaggio, Ben, è identico: puoi ferirlo ma lui va avanti, è un guerriero dell’amore. Non è matto, non sempre è corretto, ma ha una devozione assoluta verso il benessere dei suoi figli. E quando dai tutto, come lui, e scopri che forse eri sulla strada sbagliata, è dura». Racconta con molta attenzione, e mentre lo fa ti passano davanti agli occhi le immagni di Indian Runner, The road, History of violence, con tutte le facce che Viggo ha regalato al grande schermo.

È un tipo d’uomo che fa scelte coraggiose, Viggo, come rifiutare  il ruolo propostogli in The Hateful Eight da Tarantino preferendogli un film indipendente come Jauja, dell’amico Lisandro Alonso (ancora inedito in Italia), in cui cammina per giorni e giorni tra le rocce della Patagonia, praticamente da solo con il suono dei suoi stivali. Questo la dice lunga su quanto poco gli interessi alimentare la fama che lo accompagna come un’ombra da Il signore degli anelli in poi. Sembra un maschio d’altri tempi, e se glielo fai notare ti dice che il suo danese assomiglia a quello di suo nonno, un contadino, ed è il motivo per cui sotto sotto lui è un uomo vintage. «Prima di accettare un progetto mi faccio solo una domanda: ho voglia di dedicare tutto me stesso a questo film, di girarlo e di passare l’anno successivo a promuoverlo? Accetto solo se la risposta è sì su tutti i fronti». Ad attrarre Viggo, che da bambino leggeva racconti di Vichinghi ed esploratori e da adulto parla sette lingue, è una certa area dell’animo umano”. «Adoro i film che suscitano domande nello spettatore. Quando pensi di aver sbagliato ti deprimi, arrivi in un punto doloroso e credi che non ci sia più niente da fare. Ma non è mai così, nella vita. A volte si tratta di fare piccoli cambiamenti, di trovare un nuovo equilibrio». Come succede, secondo lui? «Devi mollare un po’ il colpo, essere meno dogmatico, aspettare che le cose si assestino dentro di te. E soprattutto essere generoso, ammettere che è ok se non sai tutto…». Tra un ragionamento acuto e l’altro, quando meno te lo aspetti, l’attore feticcio di Cronenberg ti spiazza con la sua ironia nordica. Come quando mi racconta come ha dovuto parlare con la CocaCola per poter girare, come secondo lui meritava di essere girata, una scena iconica di The road, tratto da La Strada di Cormac McCarthy. «È la fine del mondo, l’uomo trova un distributore automatico, lo prende a pugni finché non scende una lattina di CocaCola, ed esclama, “mio Dio è fantastico!”. Il bambino che viaggia con lui non ha mai visto uan CocaCola, perché è nato dopo la fine del mondo, quello in cui gliela fa assaggiare è un momento molto bello nel libro. Il produttore del film mi ha detto che dovevamo cambiare bibita perchè l’azienda non aveva mai accettato di apparire in una produzione indipendente, io non ho mollato, “dev’essere la CocaCola, fammi parlare con l’azienda”. Ho telefonato lasciando un messaggio sulla segreteria, mi hanno richiamato. “Sono solo un attore, non il produttore del film, lei ha mai letto La strada? E ha dei figli piccoli?”. Dall’altra parte della cornetta arrivano come risposta, in ordine, un no e un sì. “Mi permetta di raccontarle brevemente la trama”, proseguo io, e quando arrivo al punto in questione la persona mi dice: «Wow, ma perché è importante la CocaCola?”. E io “non hanno altro da mangiare o da bere, è come dire che una lattina di Coca Cola può salvarti la vita…” (ride, ndr)». Progetto dopo progetto, l’approccio di Viggo non cambia, anzi. Sul set di Captain Fantastic è arrivato settimane prima delle riprese, ha aiutato a disegnare i giardini e a piantare le piante necessarie. E nelle inquadrature lo spettatore vedrà anche la sua canoa, alcune delle sue biciclette, oggetti che appartengono alla sua cucina così come le camicie a scacchi da boscaiolo. E come in altri precedenti film, anche in questo ha aggiunto la sua musica alla colonna sonora, lui che in passato ha scritto brani sperimentali con Buckethead, ex chitarrista dei Guns N’ Roses. «Ci sono molti modi di vedersi come attore, io mi percepisco come parte di un team che racconta storie. Mi piace ancora recitare, ma a un certo punto mi metterò dietro la macchina da presa. So che è molto impegnativo, specie se vuoi che le cose siano fatte bene. So che per essere un bravo regista a volte devi fare anche lavori noiosissimi, e a un certo punto devi rilassarti e mollare il colpo (ride, ndr). Tutto questo processo mi interessa, sono stato anche produttore, e David Cronenberg sul set mi ha chiesto spesso il mio parere. È un’evoluzione, sento di essere diverso da come ero dieci anni fa, l’uomo che ho interpretato è qualcosa di diverso dai maschi a cui ho dato vita in passato». Suo figlio Henry Blake, 28 anni, nato dalla relazione con la ex moglie, la cantante Exena Cervenka, sta seguendo le sue orme e spesso lo raggiunge sul set. «Henry è la persona che stimo di più al mondo, è venuto a trovarmi quando giravamo in New Mexico. Ha lavorato come assistenza alla regia, ma in questo caso ha preferito stare alla larga e girare un documentario tutto suo. È bene ispirarsi al proprio padre, stando sulle proprie gambe…».

Articolo pubblicato su D La Repubblica dell’8 ottobre 2016

© Riproduzione riservata 

 

 

 

 

 

Viggo Mortensen: «Viaggio nella vita come nei miei film»

14 martedì Apr 2015

Posted by cristianaallievi in cinema

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Tag

Aragorn, Argentina, Buckethead, Captain Fantastic, Guns N’ Roses, Henry Blake Mortensen, Hole in the sun, Jauja, Loin des Hommes, Quentin Tarantino, San Lorenzo de Almagro, Viggo Mortensen

Cerca luoghi estremi, intensi e isolati, che lo facciano star bene. Proprio come Aragorn, l’alter ego che lo ha reso famoso. Proprio come Viggo, esploratore di esperienze, affamato di vita: fotografa, dipinge, scrive poesie e recita. Tutto insieme, «perché la vita è breve e questo limita l’esperienza. Io cerco di fané il più possibile», ha dichiarato. Per spiegare che tra le arti non ci sono distinzioni. Come nel mondo non ci dovrebbero essere frontiere. 

Viggo Mortensen, 57 anni, attore, fotografo, musicista e poeta.

Viggo Mortensen, 57 anni, attore, fotografo, musicista e poeta.

Se hai una madre americana e padre danese, e i due si incontrano sciando in Norvegia, nelle vene ti scorre già un destino. E nel caso di Viggo, nato a Manhattan 55 anni fa, maggiore di tre fratelli, si sdoppia tra realtà e schermo. Si ritrova a frequentare le elementari in Argentina, ma studierà all’Università negli Stati Uniti e poi farà il poeta-operaio di fonderia in Danimarca. Un pezzo più in là, naturalmente, eccolo attore a Los Angeles. Anche sullo schermo, quello del viaggiare è un marchio di fabbrica. La carriera inizia a metà anni Ottanta, appena terminato il college, e nel 1991 inizia ad attirare l’attenzione: sigaretta in bocca, petto nudo e aria da Richard Gere, Sean Penn lo sceglie per il suo esordio alla regia in Lupo solitario. Ma la svolta planetaria è con quel Viggo-Aragorn che inizia a viaggiare in Il signore degli anelli e non si fermerà più. L’attore feticcio di Cronenberg si presenta all’intervista di Icon con un look da rocciatore, camicia a quadretti sdrucida e un paio di pantaloni cargo che lo sono altrettanto, con tanto di sacchetto della spesa in mano. Ma guai a credere al suo look shabby: Mortensen sa che l’immagine è una lama a doppio taglio su cui scorre in modo molto prudente, da sempre, ma sa anche molto bene di potersi fidare del proprio fascino ruvido. E poi ha una predilezione per i film d’autore, sfoggia un film più sofisticato dell’altro, e questo parla per lui. Gli ultimi arrivati (ancora inediti in Italia, speriamo per poco) sono Jauja, di Lisandro Alonso, in cui guarda il caso cammina per giorni e giorni tra le rocce della Patagonia, praticamente da solo. Il secondo è Loin des Hommes di David Oelhoffen, di cui è anche produttore, e in cui fa il maestro di scuola di sangue misto, in Algeria, nel 1954. Anche nell’ultimo lavoro, di cui ha da poco terminato le riprese, Capitan Fantastic, fonde due tratti importanti della sua personalità: quella di padre e quella di viaggiatore-filosofo. Guai a togliergli Socrate, la parte che è più rintracciabile nel sito della sua casa editrice, la Perceval Press. Ma non provateci nemmeno con Martin Cauteruccio, attaccante della squadra argentina San Lorenzo de Almagro, la squadra a cui dedica un intero blog (www.sobrevueloscuervos.com).

1991, mostra le sue qualità in Lupo solitario, il debutto alla regia di Sean Penn. 2015, finite le riprese di Captain Fantastic, in cui è ancora una specie di lupo solitario, ma con sei figli. «È la seconda volta che lavoro con Matt Ross, e in effetti interpreto un padre idealista che vive con i suoi ragazzi in una foresta del Pacifico dell’Ovest, per dieci anni. Ma a un certo punto devo tornare nella civiltà, diciamo così (sorride, ndr)».

Anche lei è noto per preferire la natura allo star system… «Anche prima di diventare attore ho sempre gli animali, i cavalli, stare all’aria aperta, fare amicizia con i cani per strada, sono sempre stato così in realtà. Ma è vero, questo mondo ha peggiorato le cose, mi ha fatto venire voglia di starne sempre più alla larga (ride, ndr)».

L’ufficiale danese che vaga per le lande desolate della Patagonia del bellissimo Jauja (per girare il quale ha rifiutato un ruolo in The Hateful Eight di Tarantino) ricorda per molti aspetti Aragorn, il re avventuriero de Il signore degli anelli. Passano gli anni, lei è sempre in viaggio. «(ride, ndr) Da bambino ero molto preso da romanzi d’avventura, racconti di Vichinghi ed esploratori, vivere con un coltello nella cintura era il mio sogno. Ho anche vissuto nei boschi, e in generale in molti luoghi selvaggi, mi fa stare bene e ogni tanto lo faccio tutt’ora. So cacciare e pescare, quando mi hanno presentato Aragorn come un cacciatore della terra di mezzo ho detto “perché gli volete far uccidere i cervi con la spada?”. Sono stato io a chiedere un arco e un coltello… In pratica le sto confessando che Aragorn ero io (ride, ndr)».

Le terre di Jauja le sono familiari. Era piccolo, quando suo padre ha trasferito la famiglia in Sud America e in Argentina, cosa ricorda di quel mondo? «La fattoria in cui mio padre coltivava prodotti agricoli ed allevava bestiame. In quei luoghi ho imparato ad andare a cavallo, gli odori, il clima, il tempo, tutto mi è molto famigliare, ho ricordi fortissimi. Se vuole, la sfida è stata proprio interpretare un personaggio che vuole scappare da quella terra, per tornare in Danimarca».

La cosa più strana che ricorda dell’Argentina? «L’ironia delle persone. I danesi e gli argentini hanno qualcosa in comune, se per esempio qualcuno esce di casa e piove, urla “paese di m…” (ride, ndr), anche se si tratta solo di due gocce… All’estero tutti ridono di questa follia».

Lei parla sette idiomi, e ormai recita in qualsiasi lingua originale. «A parte inglese, italiano, francese, norvegese e svedese, parlo lo spagnolo come lo parla mio padre, bene ma con un certo accento. Invece il mio danese assomiglia a quello di mio nonno. Era un contadino, è il motivo per cui io sono un uomo vintage (sorride, ndr)».

I suoi viaggi sullo schermo sono spesso anche viaggi interiori. Come l’ha cambiata, il continuo peregrinare? «Credo siano molti gli attori che hanno avuto un’infanzia movimentata, nel senso letterale del termine. A livello inconscio facciamo questo mestiere per continuare a vivere così, vedendo cose diverse, culture distanti da loro. Un aspetto che ha anche a che fare con il non saper stare fermi, indubbiamente».

Più si viaggia, più si diventa? «Flessibili, ed è una buona cosa. I passaporti, le bandiere, le divisioni sono idee stupide, occorre una mente più aperta».

In che modo si sente diverso, quando viaggia? «Sono più attento, osservo di più. Anche se, paradossalmente, torno spesso in luoghi già visti, noto che cambiano. Come fotografo dico sempre che tutto è già stato immortalato, entri in libreria e c’è già tutto, dai paesaggi minimalisti ai fotoritocchi più spinti. Lo stesso si potrebbe dire dei film, del sesso, dei dipinti, delle emozioni, ma è il punto di vista che cambia le cose. Ho fotografato centinaia di volte una piscina, negli anni Novanta, ho finito col pubblicarci un libro, tante erano le cose diverse che sono riuscito a rintracciare (Hole in the sun, ndr)».

 Che tipo di luce preferisce, da fotografo? «Dipende da quello che voglio fare, anche essere artificiali e carichi, come i western degli anni Cinquanta, può avere un valore aggiunto… Il modo in cui guardi le cose e la tua sensibilità dipendono molto da dove sei cresciuto. Ci sono zone del mondo in cui non userebbero mai luci “dure”, né certe inquadrature».

Ad esempio? «Solo nel nord Europa cercano una logica nell’uso della luce, e anche del tempo lineare. Vedi tutte le cose in ordine, con una spiegazione dall’inizio alla fine… Alla mia età ho capito che non serve a niente cercare di capire tutto, le cose vanno bene anche quando non si capiscono (ride, ndr)».

I luoghi cosa sono? «Posti reali o anche di più, incarnazioni di un’idea, evocazioni di soddisfazione, di un certo feeling, di una contentezza, di tranquillità…».

In passato ha scritto musiche sperimentali con Buckethead, ex chitarrista dei Guns N’ Roses. Di Jauia firma addirittura la colonna sonora, e propone una musica minimalista e incisiva… «Ho mandato delle idee a Lisandro, mi ha chiamato subito chiedendomi se poteva usarle. Erano cose mie, libere da diritti, non potevo che esserne lieto. Il suono in generale è jazz, ho usato quell’atmosfera per raccontare il mio personaggio, che vaga in un paesaggio sconfinato. Mi piace l’idea di spingere lo spettatore in un altro spazio, in un’altra dimensione, con delle note».

All’improvviso si sentono una chitarra elettrica, un organo… «E anche qualche nota di pianoforte (ride, ndr). In una creazione l’importante è che tutto venga da uno spazio organico e sincero, in cui non senti che qualcuno – di solito il regista – ti sta dicendo “Guarda quanto sono bravo…”. Odio le cose pretenziose, e anche la musica è un modo per far sentire come la si pensa».

Pittura, fotografa, recita, scrive poesie: cosa sceglierebbe, se obbligato? «Non distinguo, per me sono la stessa cosa. La vita è breve e questo limita l’esperienza, io cerco di farne il più possibile e ho la sensazione che il mio lavoro migliori, con questa modalità. Oggi sovrappongo meno le cose di quanto non facessi un tempo, perché ho meno energie: faccio una cosa alla volta e non con il senso di urgenza di una volta».

Un dipinto di Mortensen (courtesy of www.angelfire.com)

Un dipinto di Mortensen (courtesy of http://www.angelfire.com)

Cos’è lo stile? «Saper ascoltare gli altri è parte delle buone maniere. Spesso le persone sembrano ascoltare, ma non è vero. Mi capita di vedere uomini che aprono la porta a una donna, ma lo fanno per l’immagine, non gliene frega niente di lei, è un gesto senza nessuna sostanza».

La mancanza di stile? «È molte cose, in una relazione per esempio, che sia fisica, emozionale o entrambe le cose, è quanto sei interessato solo a te stesso e alla tua esperienza».

Ha definito più volte suo figlio Henry Blake, nato dalla sua ex moglie Exena Cervenka, come la persona che stima più al mondo. La vostra avventura più memorabile, insieme? «Ho girato un film con un attore giapponese che mi ha regalato un grande Godzilla di plastica. Henry è diventato matto, era ossessionato al punto da voler imparare il giapponese. Era pasqua, siamo partiti insieme, volando fino a Sapporo. Nessuno parlava una parola d’inglese, dopo una lunga e complicata negoziazione mi hanno dato una macchina a noleggio. Ma anche la cartina era in giapponese, si immagina?».

Come siete sopravvissuti? «Abbiamo trovato l’autostrada e anche il modo di pagare (ride, ndr), ma confondevamo un posto con l’altro, siamo finiti in mezzo alla neve, nel nulla, sulle montagne, a fine stagione, senza nessuno! In tutto questo Henry mi guarda e mi dice, seccatissimo: “ti sei perso, papà…”. E io, “No caro, ci siamo persi!”. Nonostante questo lui è rimasto molto leale a quella gente e a quella civiltà, mentre io inventavo tremende barzellette su di loro (ride, ndr). Siamo stati due pazzi, ma ci siamo divertiti moltissimo…».

pubblicato su Icon, Aprile 2015

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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