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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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Loveless, connessi senza amore

19 venerdì Mag 2017

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Festival di Cannes, Personaggi

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Alexey Rozin, Cannes2017, Concorso, cristianaallievi, Festival di Cannes, Loveless, Maryana Spivak

Nel nuovo film del regista russo di Leviathan, genitori così occupati con se stessi da dimenticare di avere un figlio. Lei attaccata al cellulare, come in trance. E il bambino? Che fine ha fatto il bambino?

Una coppia sta divorziando nel peggiore dei modi: litiga in modo feroce e convive sotto lo stesso tetto, in attesa di vendere la propria casa. È il figlio dodicenne a farne le spese, si nasconde dietro la porta della cucina e ascolta – non visto – le cose più terribili che si dicono i suoi genitori, e che fanno male soprattutto a lui.

A pochi minuti dall’inizio, e con una scena molto potente che mostra proprio la sua disperazione, il quadro è completo: il titolo del film, Loveless, “senza amore” (Nelyubov quello originale) si riferisce a tutti i protagonisti del nuovo film del regista russo di Leviathan, Andrey Zvyaginstev, che a Cannes corre di nuovo per la Palma d’Oro.

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Il regista di Loveless Andrey Zvyaginstev a Cannes con i protagonisti, Alexey Rozin e Maryana Spivak.

«Con i miei produttori parlavamo di che film girare, avevamo molte sceneggiature pronte», racconta. «Poi ho sentito questa storia di una coppia che stava divorziando e il cui bambino è sparito all’improvviso, e non abbiamo avuto dubbi sul trasformarlo subito in una sceneggiatura».

Alexey Rozin e Maryana Spivak incarnano due genitori così occupati con se stessi da dimenticare di avere un figlio. Zhenya è attaccata al cellulare, ed è molto impegnata a postare, chattare, fare selfie. È come in trance, e racconta molto bene un universo di persone che non sono più in contatto con quello che hanno davanti agli occhi. «È difficile dire se sono una madre che ama o meno il figlio, perché non è detto che si pensi davvero ciò che si dice, le cose sono più sottili e complesse di come sembrano», commenta la Spivak.

Per Rozin questo è il terzo film col regista, «però prima si era trattato di una serie: è diverso dall’affrontare un film. Stavolta ho sentito di più la forza direttoriale di Andrey, è un uomo educato che sa esattamente dove portarti».

La storia è ambientata in Russia ma i dialoghi – quelli che raccontano “terrificanti” verità sono per lo più in bocca alla madre – trascendono i confini geografici. Ogni tanto qualche elemento del film riporta al paese d’origine, come i luoghi.

Il produttore Alexander Rodnyansky ha lavorato a tutti gli aspetti pratici più delicati, facendo costruire esattamente i tre appartamenti che Zvyaginstev aveva in mente per raccontare la sua storia. Il primo è quello della ex coppia, gli altri sono le dimore delle nuove relazioni che i due protagonisti hanno già in corso.

Poi ci sono i monumentali e fatiscenti edifici abbandonati in mezzo alla natura. «Volevo posti in cui ci fossero ancora alberi vivi intorno, hanno trovato un teatro e una sala da banchetti in cui c’erano ancora i resti di un matrimonio del 2007».

Poi ci sono le immagini di frammenti di notiziari che scorrono in tv, che raccontano lo stesso fenomeno distruttivo che stanno vivendo i protagonisti. «Quelle immagini ci servono a combinare la vita in Russia con quella dei protagonisti. Ma è tutto un po’ metafisico, la perdita di qualcosa di fondamentale nella nostra vita resta il tema centrale del film», dice Zvyagintsev.

Anche l’associazione di volontari che aiuta i genitori nella ricerca del figlio scomparso è un elemento autoctono, oltre a un contraltare al tema della mancanza d’amore di cui sono vittime i protagonisti. «Per rendere tutto credibile abbiamo lavorato davvero con un’associazione molto nota in Russia, i cui volontari dedicano molto del loro tempo per ritrovare bambini scomparsi. Hanno molto successo nel paese, risolvono otto casi su dieci».

Col procedere del film lo spettatore è sempre meno interessato al futuro delle due nuove coppie e sempre più apprensivo verso il ritrovamento del bambino. Il bellissimo finale riporta alle immagini con cui apre il film, e sorprende per l’ultimo dettaglio mostrato.

Loveless sarà distribuito in Italia il prossimo autunno da Academy Two.

Articolo pubblicato da GQItalia.it

© Riproduzione riservata 

Louis Garrel, «Non fatemi ridere»

29 mercoledì Mar 2017

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Festival di Cannes, Personaggi

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amore, attori, cinema, cristianaallievi, figlidarte, Laetitia Casta, Louis Garrel, Mal di pietre, Planetarium, Redoutable

«Non ho mai ucciso nessuno in vita mia. Le sembra che stia scherzando, ma è difficile capire un personaggio distante da come si è davvero. Questo uomo che uccide e ordina ad altre persone di fare altrettanto era uno sconosciuto, mi sono chiesto se ero in grado di interpretarlo. Io non so nemmeno fare a pugni, e non sono per niente coraggioso…». Tra una parola e l’altra Louis Garrel prende grandi boccate dalla sua sigaretta elettronica. Giacca blu, camicia bianca alla coreana e pantaloni scuri, per la prima volta da quando lo conosco non tiene il broncio per tutta la conversazione, fa battute e mi alzerò dal tavolo a cui siamo seduti senza la sensazione che mi sfugga qualcosa. Fatto non scontato, con un francese che è anche il rampollo di una famiglia di cineasti molto impegnati. Figlio del regista Philippe e dell’attrice e regista Brigitte Sy, Luois è anche nipote del due volte premio César Maurice Garrel. Non è un caso se Michel Hazanavicius lo ha voluto nei panni di Jean Luc Godard, cineasta simbolo della Nouvelle Vague. Con Redoutable ci dimenticheremo del conturbante Theo di The dreamers e del dandy di Saint Laurent (ma anche dei cartelloni della fragranza uomo di Valentino): Garrel avrà un’incipiente calvizie e pesanti occhiali neri. Ma molto prima, dal 13 aprile, sarà un leggero teatrante in Planetarium di Rebecca Zlotowski, pellicola ambientata nell’Europa degli anni Trenta, e ufficiale in Male di pietre, che dopo essere stato presentato allo scorso Festival di Cannes ha ottenuto otto candidature ai Cesar. La nostra conversazione inizia parlando proprio del film di Nicole Garcia, in cui interpreta un uomo che ha combattuto in Indocina ed è ricoverato in una clinica svizzera dove incontrerà Gabrielle- un’ottima Marion Cotillard- in cura per i calcoli renali. Tra i due sarà amore, per molti versi folle. A questo proposito va detto che nonostante il fascino, Louis non è un uomo sentimentalmente spericolato. Per anni è stato legato all’attrice e regista Valeria Bruni Tedeschi (con cui ha adottato una bambina), finchè non si è innamorato di Golshifteh Farahani, attrice iraniana conosciuta sul set del suo cortometraggio da regista, La règle de trois. E oggi, tra alti e bassi- presunti o reali- sembra resistere anche la sua relazione con l’attrice e modella Letitia Casta.

Poco fa raccontava della difficoltà di trasformarsi in un personaggio molto distante da lei. Nel caso di questo ufficiale come ha fatto? «Per diventare un uomo molto vicino alla morte mi sono chiesto cosa mi mette a tappeto, da che tipo di guerra potrei tornare nella mia vita…».

Si è risposto? «Mi capita spesso di sentirmi depresso, combatto tutto il tempo con l’ansia e quando non lo faccio sono appunto depresso (pausa, ndr). Però il mio personaggio usa l’oppio, e la depressione in quel caso diventa una cosa diversa: non senti più la sofferenza ma la stanchezza (ride, ndr). Per calarmi nei panni dell’uomo idealizzato di cui si innamora Marion ho cercato di essere anche neutrale, come un oggetto su cui si possono proiettare molte cose».

Un po’ come facciamo tutti con le star del cinema come lei? «Esattamente. Non rido mai nelle foto, e questo lascia spazio alle fantasie di chi mi osserva. Però da quando ho scoperto che i blogger ci costruiscono sopra delle leggende, ho cambiato attitudine. Adesso sorrido a metà, anche sui red carpet, perché ho un naso grosso e se esagero la mia faccia diventa disastrosa».

Ricorda il momento in cui ha deciso che sarebbe diventato un attore? «Difficile dirlo, la prima volta che ho recitato è stato in un film di mio padre, Les Baisers de Secours. Avevo sei anni, sul set c’erano anche mia madre, mio nonno, la ex di mio padre (la cantante Nico, che ha recitato in molti dei suoi film, ndr), non so è stata una scelta. Però ricordo il momento in cui ho detto “vorrei i miei soldi, quelli che avete messo in banca!”, perché quando si recita da bambini i tuoi guadagni vengono depositati su un conto».

Sua padre, che l’ha “uccisa” in due delle quattro pellicole in cui l’ha diretta, cos’ha avuto il coraggio di risponderle? «Che li aveva usati per comprarmi i vestiti e il cibo! Forse ho fatto l’attore per riavere indietro quello che mi spettava».

Di altri motivi ne rintraccia? «Quando sono tra le persone mi sento responsabile dell’atmosfera, nei momenti in cui sembra che tutti si annoino sento di dover intrattenere. È così da quando avevo 13 anni».

Cos’è lo stile per lei? «Non è una parola che uso spesso, ma in francese c’è un’espressione che dice “smetti di fingere”, quello è stile».

Come va l’amore? «Come in Indiana Jones, è pieno di pericoli, gioie e speranza, perché una storia contiene proprio tutto. Sono stato da solo un anno, nella mia vita, e non ero certo felice: senza la presenza di una donna che amo la vita è più difficile».

Sempre più uomini lo ammettono… «Essere in due rilassa qualcosa e aiuta a vivere, ci si sente meno in pericolo, ci si aiuta».

Posso dire di non averla mai vista così felice? «Davvero? Sarà perché ho iniziato a fumare un liquido per sigarette elettroniche che si chiama “London gin”, mi fa sentire come la regina Elisabetta…».

Articolo pubblicato su Io Donna il 18 marzo 2017

© Riproduzione riservata 

Staley Tucci racconta l’artista Alberto Giacometti

16 giovedì Feb 2017

Posted by Cristiana Allievi in Berlinale, cinema, Cultura

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Alberto Giacometti, Armie Hammer, Clemence Poesy, cristianaallievi, Final Portrait, Geoffrey Rush, GQitalia, Stanley Tucci

Geoffrey Rush interpreta il geniale scultore svizzero in un film che, lontano dal classico biopic, sa essere folle e rock quanto il suo soggetto

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Armie Hammer e Geoffrey Rush in Final Portrait, di Stanley Tucci, in competizione alla 67 Berlinale (© Parisa Taghizadeh)

Ci sono lunghi minuti in cui il volto di Armie Hammer viene scrutato, scavato, quasi vivisezionato. A posarsi su di lui con una focalizzazzione assoluta è l’occhio di un artista che sembra vedere il mondo in modo diverso da come lo vediamo tutti noi. È questo il cuore di Final portrait, il quindo film che vede Stanley Tucci di nuovo dietro la macchina da presa, a 21 anni da Big Night. Nella pellicola, in concorso alla Berlinale, il regista e attore si focalizza sugli ultimi due anni di vita di Alberto Giacometti, scultore e pittore svizzero interpretato da un pirotecnico Geoffrey Rush, e ancor più precisamente sul suo incontro con l’amico scrittore e amante dell’arte James Lord, interpretato da un affascinante Armie Hammer (che a è presente al festival anche in Call me by your name di Luca Guadagnino, nella sezione Panorama). Non si tratta quindi di un classico biopic, ma della cronaca di un incontro tra due amici scandito in 18 giornate: tante ce ne sono volute perché James Lord potesse finalmente portare a casa un ritratto che Giacometti aveva promesso di eseguire in pochi giorni.

La storia è stata scritta da Tucci stesso, ispirandosi a un libro che aveva letto molti anni prima, ed è ambientata nella Parigi del 1964, quando Giacometti ha 64 anni e il suo amico Lord ne ha appena compiuti 40. Quest’ultimo si trova di passaggio nella città durante un viaggio, quando il pittore e scultore di fama mondiale gli chiede di posare per un ritratto, e lui accetta. James è un osservatore, ed è quindi un tipo più passivo. Vuole scrivere si Giacometti, farsi fare un ritratto da lui ma più di tutto è un amico che vuole passare tempo assieme, per conoscersi meglio. Quello di cui parlano in questi 18 giorni finirà nella biogarfia del pittore. Lo spettatore godrà delle nuanche di una particolarissima amicizia, ma soprattutto riceverà molte informazioni sulla frustrazione, la profondità e il chaos del processo creativo dell’artista.

«Il lavoro di Giacometti mi piace moltissimo, è antico e moderno insieme, e soprattutto è vero», racconta Tucci, che ha fatto riprodurre le sculture e i dipinti che si sarebbero trovati nello studio del maestro da un team di quattro artisti. «Una delle cose che amo di lui è lo spazio che crea, intorno alle figure, nel caso delle sculture, dentro la tela se si tratta di quadri. La posizione in cui le persone si collocano nello spazio dice moltissimo delle loro relazioni, del loro comportamento». Le immagini sono splendide, la saturazione del colore varia durante il film. «Lo avrei girato in bianco e nero, ma sarebbe stato più difficile da distribuire, così ho optato per una palette vicina ai colori dei lavori di Giacometti. Siccome è un film ambientato negli anni Sessanta, non volevo che Parigi diventasse troppo romantica e nostalgica, volevo fosse reale. Con Danny Cohen, direttore della fotografia, abbiamo girato con due macchine da presa in simultanea, per questo il tono del film è molto naturalistico». E, per dirla con le parole della sua protagonista femminile, Clemence Poesy, «è molto più rock and roll dei film d’epoca».

Tucci ha pensato a Geoffrey Rush molto prima di iniziare a lavorare al film, perché il suo volto è molto vicino a quello di Giacometti. Ma ha dovuto accorciarne e rafforzarne l’esile figura attraverso un accorto uso dei costumi. Mentre per affiancarlo ha avuto gioco facile con il californiano Armie Hammer, perfetto per calarsi nei panni dell’americano affabile e lievemente stiff. Unico dubbio, che fosse troppo bello per il ruolo. «Com’è stato lavorare con Geoffry? A parte il suo senso dell’umorismo, che non ha smesso di colpirmi ogni giorno, è stato come giocare una partita di tennis con qualcuno che è talmente più bravo di te da elevare il tuo stessogioco. Tutto quello che dovevo fare era sedermi e veder recitare uno dei miei idoli, niente male direi, ricomincerei subito (risata, ndr)».

Il padre di Armie è stato un collezionista d’arte, c’è da chiedersi se la cosa lo abbia influenzato. «Mi piace considerarmi un artista, la mia relazione con l’arte forse è più diretta».  Il finale di Final portrait ha un ritmo veloce. Dopo aver cambiato per tre volte la data del suo rientro, James Lord decide di dare una scadenza definitiva a Giacometti per tornare negli States. «Il ritratto finale è un compromesso, i due amici non si sono mai più rivisti», conclude Tucci. «Ma questo non conta. La sensazione che volevo lasciare nello spettatore – in un’epoca in cui grazie ai social pensiamo di dover mostrare sempre tutto per avere successo – è che Giacometti avrebbe rifatto tutto daccapo, era il suo modo di lavorare. E nonostante non fosse mai soddisfatto del proprio lavoro, questo ritratto “incompiuto” l’anno scorso è stato venduto per 20 milioni di dollari. Non male, direi»

Pubblicato su GQ.it

© Riproduzione riservata 

Viggo il Vagabondo

08 sabato Ott 2016

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Festival di Cannes

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Ben Cash, Captain Fantastic, cristianaallievi, David Cronenberg, Dlarepubblica, Exena Cervenka, Guns N’ Roses, History of violence, Indian Runner, Jauja, The Road, Viggo Mortensen

NEL SUO ULTIMO FILM NON DEVE NEMMENO RECITARE. GLI BASTA ESSERE SE STESSO. MR. MORTENSEN È PROPRIO COME CAPTAIN FANTASTIC: IDEALISTA, ERRANTE, UN PO’ SELVAGGIO (E, PER LA GIOIA DELLE FANS, STAVOLTA È ANCHE NUDO)

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Viggo Mortensen, 56 anni, in Captain Fantastic, nelle sale dal prossimo dicembre.

Gli hanno affittato una stanza d’albergo, ma lui non ci ha nemmeno messo piede. Sapevano tutti che era nella foresta, da qualche parte. Matt Ross gli aveva mandato una grossa scatola con alcune letture raccomandate, testi del rinomato naturalista Tom Brown e volumi del linguista e filosofo Noam Chomsky. Insieme a questi c’erano anche saggi del Premio Pulitzer Jared Diamond, tutti testi che avrebbe dovuto assorbire, secondo il regista, per diventare Ben. Ma non serviva: li aveva già letti tutti. Nessuno, meglio di Viggo Mortensen, potrebbe incarnare il personaggio che sta al centro di Captain Fantastic, meravigliosa storia molto applaudita all’ultimo festival di Cannes e al cinema dal 15 dicembre (passando a metà ottobre dalla Festa del cinema di Roma in coproduzione con la sezione autonoma e parallela Alice nella città). Il film scritto e diretto da Matt Ross sovrappone due tratti distintivi della personalità dell’attore, poeta, musicista e fotografo nato a Manhattan 58 anni fa: quella di padre e quella di viaggiatore-filosofo. Viggo è Ben Cash, un idealista che vive per dieci anni con i suoi figli in una foresta del Pacifico. Ha tirato su i sei ragazzi con la moglie, in una specie di paradiso fuori dal mondo, facendo da mentore e impartendo rigorosi insegnamenti fisici e intellettuali. Ma una tragedia costringerà il clan a uscire dalla zona di comfort per entrare nel mondo, dove ad attenderli c’è un confronto col prezzo da pagare per vivere una specie di sogno.

Viggo in simbiosi con la foresta, in camicia da boscaiolo e con tanto di nudo integrale frontale -per la gioia delle fans- è una specie di quadratura del cerchio, se si torna al lontano 1991, quando lo aveva scelto Sean Penn per il suo primo lavoro da regista, Lupo solitario, con sigaretta in bocca, petto nudo e aria da Richard Gere prima maniera. La giacca grigia che indossa oggi con camicia bianca non smorza il fascino ruvido dato dall’incrocio tra una madre americana e un padre danese, ma soprattutto da una vita famigliare vagabonda tra l’Argentina, gli Stati Uniti e la Danimarca. «Non ho dovuto fare molte ricerche su come vivere nella foresta ed essere a mio agio nella natura», racconta Montersen. «Ho vissuto nel nord dell’Idaho in un posto che non è molto diverso da dove incontriamo la famiglia Cash. Mio padre è cresciuto in campagna, suo padre gli aveva detto di pescare e di cacciare, cosa che lui ha insegnato a me. Io e i miei due fratelli minori siamo cresciuti come i ragazzi di questo film, ma le somiglianze non finiscono qui. Mio padre e tutta la sua famiglia appartengono al genere “non mollare mai, finchè non hai portato a termine qualcosa…”. Il mio personaggio, Ben, è identico: puoi ferirlo ma lui va avanti, è un guerriero dell’amore. Non è matto, non sempre è corretto, ma ha una devozione assoluta verso il benessere dei suoi figli. E quando dai tutto, come lui, e scopri che forse eri sulla strada sbagliata, è dura». Racconta con molta attenzione, e mentre lo fa ti passano davanti agli occhi le immagni di Indian Runner, The road, History of violence, con tutte le facce che Viggo ha regalato al grande schermo.

È un tipo d’uomo che fa scelte coraggiose, Viggo, come rifiutare  il ruolo propostogli in The Hateful Eight da Tarantino preferendogli un film indipendente come Jauja, dell’amico Lisandro Alonso (ancora inedito in Italia), in cui cammina per giorni e giorni tra le rocce della Patagonia, praticamente da solo con il suono dei suoi stivali. Questo la dice lunga su quanto poco gli interessi alimentare la fama che lo accompagna come un’ombra da Il signore degli anelli in poi. Sembra un maschio d’altri tempi, e se glielo fai notare ti dice che il suo danese assomiglia a quello di suo nonno, un contadino, ed è il motivo per cui sotto sotto lui è un uomo vintage. «Prima di accettare un progetto mi faccio solo una domanda: ho voglia di dedicare tutto me stesso a questo film, di girarlo e di passare l’anno successivo a promuoverlo? Accetto solo se la risposta è sì su tutti i fronti». Ad attrarre Viggo, che da bambino leggeva racconti di Vichinghi ed esploratori e da adulto parla sette lingue, è una certa area dell’animo umano”. «Adoro i film che suscitano domande nello spettatore. Quando pensi di aver sbagliato ti deprimi, arrivi in un punto doloroso e credi che non ci sia più niente da fare. Ma non è mai così, nella vita. A volte si tratta di fare piccoli cambiamenti, di trovare un nuovo equilibrio». Come succede, secondo lui? «Devi mollare un po’ il colpo, essere meno dogmatico, aspettare che le cose si assestino dentro di te. E soprattutto essere generoso, ammettere che è ok se non sai tutto…». Tra un ragionamento acuto e l’altro, quando meno te lo aspetti, l’attore feticcio di Cronenberg ti spiazza con la sua ironia nordica. Come quando mi racconta come ha dovuto parlare con la CocaCola per poter girare, come secondo lui meritava di essere girata, una scena iconica di The road, tratto da La Strada di Cormac McCarthy. «È la fine del mondo, l’uomo trova un distributore automatico, lo prende a pugni finché non scende una lattina di CocaCola, ed esclama, “mio Dio è fantastico!”. Il bambino che viaggia con lui non ha mai visto uan CocaCola, perché è nato dopo la fine del mondo, quello in cui gliela fa assaggiare è un momento molto bello nel libro. Il produttore del film mi ha detto che dovevamo cambiare bibita perchè l’azienda non aveva mai accettato di apparire in una produzione indipendente, io non ho mollato, “dev’essere la CocaCola, fammi parlare con l’azienda”. Ho telefonato lasciando un messaggio sulla segreteria, mi hanno richiamato. “Sono solo un attore, non il produttore del film, lei ha mai letto La strada? E ha dei figli piccoli?”. Dall’altra parte della cornetta arrivano come risposta, in ordine, un no e un sì. “Mi permetta di raccontarle brevemente la trama”, proseguo io, e quando arrivo al punto in questione la persona mi dice: «Wow, ma perché è importante la CocaCola?”. E io “non hanno altro da mangiare o da bere, è come dire che una lattina di Coca Cola può salvarti la vita…” (ride, ndr)». Progetto dopo progetto, l’approccio di Viggo non cambia, anzi. Sul set di Captain Fantastic è arrivato settimane prima delle riprese, ha aiutato a disegnare i giardini e a piantare le piante necessarie. E nelle inquadrature lo spettatore vedrà anche la sua canoa, alcune delle sue biciclette, oggetti che appartengono alla sua cucina così come le camicie a scacchi da boscaiolo. E come in altri precedenti film, anche in questo ha aggiunto la sua musica alla colonna sonora, lui che in passato ha scritto brani sperimentali con Buckethead, ex chitarrista dei Guns N’ Roses. «Ci sono molti modi di vedersi come attore, io mi percepisco come parte di un team che racconta storie. Mi piace ancora recitare, ma a un certo punto mi metterò dietro la macchina da presa. So che è molto impegnativo, specie se vuoi che le cose siano fatte bene. So che per essere un bravo regista a volte devi fare anche lavori noiosissimi, e a un certo punto devi rilassarti e mollare il colpo (ride, ndr). Tutto questo processo mi interessa, sono stato anche produttore, e David Cronenberg sul set mi ha chiesto spesso il mio parere. È un’evoluzione, sento di essere diverso da come ero dieci anni fa, l’uomo che ho interpretato è qualcosa di diverso dai maschi a cui ho dato vita in passato». Suo figlio Henry Blake, 28 anni, nato dalla relazione con la ex moglie, la cantante Exena Cervenka, sta seguendo le sue orme e spesso lo raggiunge sul set. «Henry è la persona che stimo di più al mondo, è venuto a trovarmi quando giravamo in New Mexico. Ha lavorato come assistenza alla regia, ma in questo caso ha preferito stare alla larga e girare un documentario tutto suo. È bene ispirarsi al proprio padre, stando sulle proprie gambe…».

Articolo pubblicato su D La Repubblica dell’8 ottobre 2016

© Riproduzione riservata 

 

 

 

 

 

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