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~ Interviste illuminanti

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Archivi tag: Marvel

Professione reporter, ne parla Mark Ruffalo

22 lunedì Feb 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Senza categoria

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Boston Globe, Cristiana Allievi, Foxcatcher, Hulk, I ragazzi stanno bene, Il caso Spotlight, Mark Ruffalo, Marvel, Michael Rezendes, Premio Pulitzer

«Io e Mike abbiamo passato molto tempo insieme. Ho cercato di capire soprattutto cosa l’ha spinto a fare ciò che ha fatto, quale fosse il motore. Era un fatto personale con la Chiesa? Era una vendetta? Avevo questo tipo di domande in testa, all’inizio. Ma poi il viaggio ti porta in luoghi inaspettati, e come sempre scopri che le persone sono davvero complesse. Ti sorprendi da solo di dove ti trovi, in certi momenti…». Mark Ruffalo parla di Mike Rezendes, il giornalista del Boston Globe che interpreta in Il caso Spotlight, di Tom McCarthy, nelle sale dal 18 febbraio. Un film che restituisce l’orgoglio, anche visivo, a una professione martoriata come quella del cronista, e per cui Ruffalo è candidato ai Golden Globes. Con il grande giornalismo d’inchiesta l’America ha sempre dato il meglio di sé, in questo caso nel 2002 ha smascherato la copertura sistematica da parte della Chiesa Cattolica degli abusi sessuali commessi su minori da oltre 70 sacerdoti locali, aprendo poi la strada ad analoghe rivelazioni in oltre 200 città del mondo. 48 anni, cresciuto nel Wisconsin con mamma hair dresser e padre pittore edile con origini napoletane (ma non parla una parola di italiano), Mark Ruffalo è il cronista di punta del team di giornalisti investigativi del Globe, chiamato appunto Spotlight. Ma è fuori dal coro anche nella vita reale. Sopravvissuto a un tumore al cervello, alla perdita del fratello in circostanze non chiare e alla fagocitante macchina di Hollywood, è orgogliosamente padre di tre figli, avuti dall’attrice Sunrise Coigney. Oggi vive la vita che ha scelto ed è uno degli attori di maggiore qualità del cinema mondiale.

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Mark Ruffalo, attore, 48 anni. La sua ultima interpretazione è quella del giornalista Michael Rezendes in Il caso Spotlight (courtesy of geekynews.com)

Ha mai avuto un interesse particolare per il giornalismo? «Non ho mai avuto un amore speciale per la professione, ma oggi ne comprendo più a fondo la disciplina, la capacità di discernere, la metodologia. Casi isolati di abusi sessuali da parte di sacerdoti cattolici erano già stati denunciati prima dell’inchiesta del team Spotlight, ma le rivelazioni meticolosamente documentate dai cronisti del Globe, di una precisione senza precedenti, hanno rivelato la portata impensabile dei crimini. Mi hanno colpito la forza della passione, il fiuto, il coraggio e la determinazione a far emergere la verità fino in fondo».

Anche un certo sangue freddo. «Trovo che la forza del film sia la sua capacità di condurre lo spettatore attraverso una storia sordida in quel modo critico e freddo necessario per non far attivare nè le difese nè i credo personali dello spettatore. Credo sia l’approccio migliore per il momento in cui ci troviamo».

Come ha reagito Mike Rezendes sapendo che lei lo avrebbe interpretato? Le ha dato dei consigli o le ha dato dei divieti? «(ride, ndr) L’interpretazione di un evento reale crea sempre imbarazzo. Pochi si fidano di Hollywood, quindi noi attori dobbiamo combattere contro preconcetti e garantire che saremo onesti e sinceri. E poi la gente in genere è terrorizzata all’idea di vedere la propria vita spiattellata in pubblico, lo sarei anch’io. Ma quando ha visto il film, Mike mi ha detto di essere rimasto molto colpito».

 All’epoca delle inchieste del Globe il giornalista era la fonte di informazione, influenzava l’opinione pubblica. Oggi un flusso impressionante di notizie sembra alla portata di tutti, in realtà sta emergendo il problema che quelle notizie vanno decodificate e collocate in un contesto, e per questo occorre un mestiere. Da cittadino lei cosa ne pansa? «Stiamo assistendo alla decentralizzazione e alla disintermediazione di tutto, informazione inclusa, ed è necessario, altrimenti si crea un mondo monolitico e continuiamo a ripetere gli stessi errori. Il cambiamento ci spaventa perché scopriamo più verità su chi siamo. Ma allo stesso tempo ho molta fiducia, quando abbiamo più scelta facciamo cose migliori, collettivamente».

Ha provato conflitti morali girando Il caso Spotlight? «Sono stato cresciuto come cattolico e ho radici italiane, ma non sono religioso. Atroce, nel film, non è solo vedere le vittime, ma anche la gente che ha perso la propria fede vedendo come si comporta un certo clero. Credo che la Chiesa abbia la grande opportunità di riparare ai danni fatti , di scusarsi e di risarcire anche economicamente le persone. Va fatta qualsiasi cosa, per guarire le ferite».

 Lei potrebbe diventare un buon cronista investigativo? «Sono troppo appassionato, temo… Ma come le dicevo mi piace l’idea di assorbire un po’ della disciplina della professione giornalistica».

Non occorre disciplina anche nel suo lavoro, per diventare ogni volta un’altra persona? Oltre a quest’ultima interpretazione, viene in mente quella del lottatore olimpico Dave Schultz che le è valsa una nomination agli Oscar, l’anno scorso, per Foxcatcher. «Più che affidarmi sull’espediente di prendere e perdere peso, per i miei personaggi mi baso su un cambiamento interiore. Studio le persone: se guardo al modo in cui è seduta sulla sedia trovo che dica moltissimo di lei. Non ci rendiamo conto di quante informazioni trasferiamo mentre sembra che non stiamo facendo nulla. Sono diventato consapevole di questo aspetto molto tempo fa, e ha iniziato a catturare la mia attenzione, volevo capire fino a che punto si può estendere questa osservazione».

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Il cast de Il caso Spotlight, di Tom McCarthy. Da sinistra: Michael Keaton, Liev Schreiber, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, John Slattery e Brian D’Arcy James (courtesy of Freneek.it)

 Fino a che punto? «Credo che nessuno di noi sia bloccato in un’identità, al contrario di quello che pensiamo siamo noi a decidere chi siamo, in larga parte. Possiamo cambiare a quante volte vogliamo».

A giudizio dei critici e del pubblico più attento, a un certo punto lei ha cambiato radicalmente marcia. Cosa le è successo con I ragazzi stanno bene, film che le è valso l’altra nomination agli Oscar? «Mi sono detto “è l’ultimo film, poi smetto di recitare”. Ho licenziato tutti, il mio agente, il manager, dentro di me, nel mio cuore, avevo chiuso, e questo ha stravolto le carte in tavola. Ho smesso di preoccuparmi, di voler essere amato e apprezzato e tutto è diventato divertente, ero finalmente libero. E poi I ragazzi stanno bene voleva essere un omaggio a mio fratello Scott (hair dresser trovato morto a Berverly Hills nel 2008, ancora oggi non si sa se sia stato un omicidio o un suicidio, ndr). È stato il mio modo di onorarlo, dirgli addio e usare il potere che il cinema può avere, a volte».

Nel 2002, mentre sua moglie era incinta del primo figlio, lei è stato gravemente malato in modo severo: c’è anche questo all’origine del suo cambiamento? «Quando mi hanno diagnosticato un tumore al cervello ero sicuro che sarei morto. In quei mesi ho capito che non stavo facendo cose che mi rendevano felice. Mi sono accorto che avevo sempre amato la recitazione, e avrei potuto non avere più la chance di viverla. Il dolore, la disillusione e anche il peso della strategia del business: direi che tutto questo mi ha cambiato. Oggi i miei figli e la mia famiglia vengono al primo posto».

Di cosa parla con i suoi bambini, in questo momento? «Mi chiedono di tutto, ma direi che questo è il momento di “mio fratello mi ama quanto lo amo io?”. Sono diversi da quando ero bambino io, trovo sia importante rassicurarli e cercare di sostenerli nelle loro diversità. La piccola, Odette, ha otto anni ed è molto dolce. Le faccio immaginare di essere una leonessa, la sprono a essere grintosa e a non avere paura. In qualche modo sento che deve essere riconosciuta, è l’ultima e voglio farla sentire potente. Poi c’è l’intermedia, Bella Noche, che è una forza della natura, mi parla già di giustizia sociale. Ma devo spiegarle che non si può sentirsi responsabili di tutto il mondo, non può sistemare le cose per tutti, deve lasciare che le persone trovino il loro modo di farlo».

Col figlio maschio come va? «Keen ha 14 anni, lui non mi parla del tutto (ride, ndr). Non è più come quando era piccolo, quando andavamo a comprare insieme le ultime novità sugli Avengers… Ora vuole il suo spazio, e lo capisco».

È stato difficile per un tipo come lei godersi il mondo della Marvel e vestire i panni di Hulk? «Al contrario, insegna che anche nel posto più triste del mondo si può ancora ridere. Ho sei film in tutto da girare con loro, sono ancora vivo e loro non si curano del fatto che Hulk abbia qualche capello grigio, mi sembra perfetto. Mi pagano anche bene, in un mercato che è diventato parecchio caotico, quindi finché sono felici, li uso per esprimere gioia».

Cosa intende dire? «Ho imparato dal mio lavoro che devi essere felice, altrimenti la tua vita diventa insignificante. C’è una frase di Nietzsche che dice “quando fissi un abisso, l’abisso farà altrettanto con te”. Nel mondo non c’è solo fango, ma anche gioia, dunque ben vengano i film della Marvel, c’è una morale dentro i fumetti a cui la gente è interessata».

Da circa un secolo, tra giornalisti e attori c’è un senso di mutuo sospetto: sotto sotto ognuno pensa che il suo lavoro sia un po’ più difficile, o più importante, dell’altro… «Ho scoperto invece un’affinità, lavorando a questo film, ed è che in entrambe i casi interessa la verità: che si tratti di una scena o di un caso di cronaca, è quello che cerchiamo. Certo, i cronisti sono stati dei muri, all’inizio, non volevano rispondere alle nostre domande. Ma anche in questo senso Il caso Spotlight è stato perfetto: ha schierato dei veterani da entrambe le parti, che hanno potuto finalmente contemplarsi e arrivare persino a stimarsi». 

 

Articolo pubblicato su GQ Febbraio 2016

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«Supereroe come noi», Claudio Santamaria

20 sabato Feb 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Senza categoria

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Brutti e cattivi, Claudio Santamaria, Cosimo Gomez, Cristiana Allievi, Enzo Ceccotti, Gabriele Mainetti, L'uomo Ragno, Lo chiamavano Jeeg Robot, Marvel

«I supereroi mi affascinano da quando sono un bambino. Tifavo per L’uomo Ragno perché l’ho sempre visto come un tipo alla mano, come potrei essere io.  Superman invece mi era antipatico. “Ma guarda questo, vola, vede attraverso i muri, va alla velocità della luce e con tutti questi super poteri non fa niente per salvarci, e questo solo perché il padre gli ha detto che non deve immischiarsi negli affari del mondo. Se li avessi io, i super poteri,  prenderei tutti i corrotti e gli indagati e li porterei su un isolotto a zappare la terra. Al loro posto chiamerei a Montecitorio persone oneste, gente che prende decisioni per la collettività». 

Per adesso l’attore romano, 41 anni, già in carriera con super registi come Bertolucci, Avati e Soldini (ma ha avuto una parte anche in Casino Royale) ed esperto di eroi  (ha prestato la voce a Christian Bale in tutti i suoi Batman), si deve accontentare di fare giustizia sul grande schermo nei panni di Enzo Ceccotti in Lo chiamavano Jeeg Robot, applauditissimo all’ultima Festa del cinema di Roma e nelle nostre sale dal 25 febbraio. Una vera novità per il cinema italiano: opera prima di Gabriele Mainetti, attore, regista e produttore che si era cimentato con i corti (l’ultimo, Tiger Boy del 2012, ha ottenuto diversi riconoscimenti in Italia e all’estero), è anche il primo film italiano ispirato al “genere Marvel” non imita il prodotto made in Usa e che può dirsi riuscito.

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Claudio Santamaria, 41 anni, veste i panni del primo supereroe  tutto italiano, nonostante il suo nome sia Jeeg Robot (courtesy of Comingsoon.it)

Un racconto originale che punta sul sentimento comune secondo cui tutti, sotto sotto, vorremmo credere che qualcuno veglia su di noi e ci protegge dai cattivi. «Un supereroe in effetti è una specie di divinità, incarna il bisogno che abbiamo di contatto col sovrumano. Ma quello che sospende l’incredulità dello spettatore è la storia d’amore, in cui i super poteri sono marginali. Il mio personaggio è come un uomo che vince alla lotteria e invece di pensare “adesso mi compro tutto”, decide di aiutare gli altri: ed è lì che diventa un super eroe». A cambiare la vita di Enzo, per cui Santamaria ha raggiunto 100 chili di peso e ha lavorato per ottenere una voce bassissima, «da periferia», è Alessia, fragile figlia di un boss della mala interpretata dell’attrice esordiente Ilenia Pastorelli. Al contrario di quanto succede in Spiderman, in cui il supereroe dice di aver troppo da fare per impegnarsi in un rapporto sentimentale, qui la protagonista femminile  sprona “Jeeg” a usare i suoi poteri per aiutare l’umanità. Sul fatto che si tratti di una novità per l’Italia, l’attore de l’Ultimo bacio, che ad aprile sarà sul set di Brutti e cattivi, opera prima dello scenografo Cosimo Gomez, non ha dubbi. «Il film parla di supereroi, e non avevamo questo tipo di cinematografia, da noi. Attingere all’immaginario Marvel e riempirlo di poesia è nelle nostre corde, per questo la gente ci si riconosce. Sono sicuro che ci sarà un prima e un dopo questo film…».

Articolo uscito su D La repubblica del 13 febbraio 2016

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Kenneth Branagh, «Amleto è un leader, oltre che un gentleman»

21 martedì Apr 2015

Posted by cristianaallievi in cinema

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Amleto, Camelot, Cenerentola, Chris Hemsworth, Christian Bale, Cristiana Allievi, De Niro, Disney, Enrico V, Kenneth Branagh, Kentucky Derby, Marvel, Shakespeare, Thor, Tom Clancy, Wallande, Wasp

Kenneth Branagh, l’enfant prodige di Hollywood,  ha mixato con uno stile unico cinema e serie televisive, Shakespeare e supereroi della Marvel. Uscito indenne dalla campagna mondiale di Cenerentola, a Icon racconta di quando era bambino e della figura di suo padre. Ma anche di due debolezze: per il puritanesimo e i clan. E poi c’è quel rimorso segreto… 

Non c’è modo di sfilarsi dall’argomento. Ha appena ordinato un caffè e vuole sapere perché non ne voglio uno anch’io. Scoperto che ho abbandonato l’abitudine, vuole sapere quando e perché. Il tutto mentre mi prepara un tè verde con le sue mani, nella suite di un hotel a cinque stelle nel cuore di Berlino. Dettagli da cui si intuisce quanto un uomo sia interessato al cuore e alla mente degli esseri umani. Il suo, di cuore, batte per domande esistenziali. Ma non disdegna le serie tv (vedi alla voce Wallander, in cui nei panni di un ispettore di polizia si è aggiudicato una pioggia di nominations) né le produzioni hollywoodiane ed europee (passa da Thor alla nuova Cenerentola della Disney, un successo nelle sale, lo scorso marzo). Insomma Ken- per colleghi e amici- è anche uomo da record terreni. Con Orson Welles, Laurence Olivier, Woody Allen, Warren Betty e Roberto Benigni è uno dei sei uomini ad essere stati nominati agli Academy Awards come miglior attore e miglior regista per lo stesso film. Ma già a 23 anni era il più giovane attore della Royal Shakespeare Company ad aver mai interpretato il protagonista dell’Enrico V. Il record più peculiare, però, risale all’età di 28 anni, e non ne va affatto fiero, come racconta ad Icon. In giacca blu spigata, camicia bianca e sciarpa di seta color ghiaccio, sembra di ottimo umore.

Attore e regista, 55 anni, Branagh è nato a Belfast (courtesy of http://www.listal.com)

Dagli eroi di Shakespeare a quelli della Marvel, passando per Jack Ryan, celebre personaggio dei romanzi di Tom Clancy, lei ha raccontato tipi di uomini molto diversi tra loro. Cosa li accomuna? «Il farsi delle domande. Vicktor Frankl, psichiatra e filosofo austriaco, diceva che l’uomo cerca un senso. E anche quando si manifesta come sete di potere, non si limita a questo. Il personaggio a cui sono più legato, dai miei esordi in teatro, è Amleto, un uomo rinascimentale che ama lo sport, la letteratura e la musica, un leader oltre che un gentlemen. Ma è pieno di dubbi, pian piano diventa schiavo del suo intelletto, quindi infelice. Questo si traduce nel farsi domande su ciò che conta nella vita: è questa la costante, per ripsonderle».

Cosa invece cambia, nel maschio di epoche diverse? «Il senso di sicurezza in se stesso, il ruolo rispetto alle donne, almeno nel mondo occidentale. Lo vedo in difficoltà nell’adattarsi alla sfocatura dei ruoli tradizionali, era più felice una volta, quando le cose erano più semplici, “tu stai a casa e tiri su i figli, io vado nel mondo a cacciare e a portarti la preda. Non mi vedrai per un po’ e mentre sarò fuori vedrò altre donne, perché ho bisogno di spargere il mio seme…”. Qual è il posto dell’uomo, oggi? Io so che il mio compito, adesso, è essere un uomo nuovo».

Come lo descriverebbe? «Un tipo sensibile, capace di ascoltare, di controllare il testosterone e di non essere troppo competitivo. Sembra un cliché, ma significa essere capaci di abbracciare il proprio lato femminile. Un cambiamento tutt’ora in atto, facile da accettare per alcuni, meno per altri. C’è anche chi si sente evirato».

Come vede il maschio americano, da europeo? «Credo nell’uomo americano bianco. In lui c’è un forte residuo di puritanesimo, una certa spinta e agitazione. Non è sempre a proprio agio con se stesso, specialmente lontano da casa. I miei amici americani hanno bisogno del loro grande paese, non sopportano di stare al chiuso, vogliono spazi selvaggi, in cui fare i pionieri e portare avanti il progresso».

Apprezza il loro stile lavorativo? «C’è un’etica fenomenale, una visione puritana e fanatica, in un certo tipo di uomo americano wasp. Ammiro enormemente lo spirito “I can do” nel suo senso migliore, ma portato all’estremo diventa eccesso d’azione, e mancanza di gioia».

Spesso la scambiano per un inglese, mentre lei è irlandese. «Pensano tutti che venga da Oxford o da Cambridge e che sia anche molto intelligente (ride, ndr). Ma io so come stanno le cose!».

Che interpreti un detective, come in Wallander, o diriga una straordinaria versione di Cenerentola, l’elemento umano resta il centro della sua arte. Da dove viene, questo interesse? «Come recita un celebre motto, “datemi un bambino nei primi sette anni di vita e vi mostrerò l’uomo”. In quegli anni ho vissuto in visita continua ai molti cugini, zii e zie. I miei genitori lavoravano, io ero sempre a pranzo dai nonni, con cui ho avuto una relazione molto forte fino alla loro morte. Questo ha significato essere sempre in mezzo a dinamiche familiari, conoscere i dettagli della natura umana in azione».

E ascoltare tante storie… «Infinite, ricordo tante emozioni, si rideva e piangeva molto insieme. C’è anche un altro aspetto, sono stato incoraggiato all’indipendenza sin da molto piccolo, a sette anni prendevo già i pullman da solo. Finchè ho vissuto a Belfast mi sentivo molto sicuro…».

Cosa intende dire? «Che sapevo letteralmente dove mi trovavo. Non potevo perdermi, c’era sempre un altro Branagh a raccattarmi, da qualche parte. Quando ci siamo trasferiti in Inghilterra è stato un shock: siamo diventati un nucleo familiare più piccolo, non avevo più una rete di protezione e mi trovavo in un luogo molto più grande. Ho perso il senso di chi ero, una sconnessione che si è fatta sentire per molti anni, e forse il mio lavoro è stato una reazione a tutto questo».

Deve essersi anche ritrovato, per dirigere tante superstar… Partiamo da De Niro. «Un gran timido, un uomo intenso, ritualistico, molto meticoloso. Il processo per conquistare la sua fiducia è stato lunghissimo, ma una volta avutala, siamo diventati fratelli di sangue».

Chris Hemsworth, l'attore australiano a cui Branagh ha regalato la fama mondiale grazie a Thor (courtesy www.movieinsider.com).

Chris Hemsworth, l’attore australiano a cui Branagh ha regalato la fama mondiale grazie a Thor (courtesy http://www.movieinsider.com).

Ha diretto Christian Bale che aveva 15 anni, molto più recentemente ha cambiato la vita a Chris Hemsworth, con Thor. «Il primo incontro è stato difficile. Non stava bene, era scontroso, e noi non avevamo nemmeno la sceneggiatura, lo abbiamo abbandonato. Ma cercando quell’inusuale mix di atleticità e sensibilità, ci siamo rincontrati dopo un lunghissimo casting. Ero a un punto della vita in cui avevo molta esperienza e un forte interesse a passarla ad altri, la relazione è diventata un po’ quella tra padre e figlio. Sapevo che la vita di Chris sarebbe cambiata e che ci sarebbero stati ostacoli da affrontare, come i photocall con migliaia di fotografi… Ho cercato di rendergli le cose più facili, lui ha saputo ascoltarmi e imparare».

Chi era il suo ero, da bambino? «Mio padre. Lo adoravo, credevo fosse l’uomo migliore del mondo. Aveva un dono speciale per il legno, poteva costruire qualsiasi cosa. Con gli anni si è spostato verso il lavoro manageriale, ma fino alla morte è andato fiero del suo percorso, iniziato da una working class senza prospettive, dopo aver abbandonato la scuola a 14 anni».

Il vostro miglior momento insieme? «Quando l’ho portato al Kentucky Derby, nel 1994, con mio fratello. Andava pazzo per le corse dei cavalli, e quello era un evento dalle proporzioni mitiche, una specie di Camelot. Ha visto il Bluegrass del Kentucky, credo abbia sofferto molto quando ce ne siamo andati, apprezzava quegli uomini e i loro solidi valori».

Ultima domanda: perché ha scritto la sua biografia a 30 anni? «Ne avevo 28 (ride, ndr), e l’ho fatto per soldi. Non ho molti rimorsi, nella vita, ma questo è uno di quelli. Avevo diretto il primo film e a 27 anni avevo già scritto un libro, ero quel qualcosa di diverso che stavano cercando. Oggi provo compassione per quel giovane me stesso, e direi a chiunque di non imitarmi, nemmeno sotto tortura».

 © RIPRODUZIONE RISERVATA

Articolo pubblicato su Icon del 20 aprile 2015

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