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«Io e Mike abbiamo passato molto tempo insieme. Ho cercato di capire soprattutto cosa l’ha spinto a fare ciò che ha fatto, quale fosse il motore. Era un fatto personale con la Chiesa? Era una vendetta? Avevo questo tipo di domande in testa, all’inizio. Ma poi il viaggio ti porta in luoghi inaspettati, e come sempre scopri che le persone sono davvero complesse. Ti sorprendi da solo di dove ti trovi, in certi momenti…». Mark Ruffalo parla di Mike Rezendes, il giornalista del Boston Globe che interpreta in Il caso Spotlight, di Tom McCarthy, nelle sale dal 18 febbraio. Un film che restituisce l’orgoglio, anche visivo, a una professione martoriata come quella del cronista, e per cui Ruffalo è candidato ai Golden Globes. Con il grande giornalismo d’inchiesta l’America ha sempre dato il meglio di sé, in questo caso nel 2002 ha smascherato la copertura sistematica da parte della Chiesa Cattolica degli abusi sessuali commessi su minori da oltre 70 sacerdoti locali, aprendo poi la strada ad analoghe rivelazioni in oltre 200 città del mondo. 48 anni, cresciuto nel Wisconsin con mamma hair dresser e padre pittore edile con origini napoletane (ma non parla una parola di italiano), Mark Ruffalo è il cronista di punta del team di giornalisti investigativi del Globe, chiamato appunto Spotlight. Ma è fuori dal coro anche nella vita reale. Sopravvissuto a un tumore al cervello, alla perdita del fratello in circostanze non chiare e alla fagocitante macchina di Hollywood, è orgogliosamente padre di tre figli, avuti dall’attrice Sunrise Coigney. Oggi vive la vita che ha scelto ed è uno degli attori di maggiore qualità del cinema mondiale.

Mark Ruffalo, attore, 48 anni. La sua ultima interpretazione è quella del giornalista Michael Rezendes in Il caso Spotlight (courtesy of geekynews.com)
Ha mai avuto un interesse particolare per il giornalismo? «Non ho mai avuto un amore speciale per la professione, ma oggi ne comprendo più a fondo la disciplina, la capacità di discernere, la metodologia. Casi isolati di abusi sessuali da parte di sacerdoti cattolici erano già stati denunciati prima dell’inchiesta del team Spotlight, ma le rivelazioni meticolosamente documentate dai cronisti del Globe, di una precisione senza precedenti, hanno rivelato la portata impensabile dei crimini. Mi hanno colpito la forza della passione, il fiuto, il coraggio e la determinazione a far emergere la verità fino in fondo».
Anche un certo sangue freddo. «Trovo che la forza del film sia la sua capacità di condurre lo spettatore attraverso una storia sordida in quel modo critico e freddo necessario per non far attivare nè le difese nè i credo personali dello spettatore. Credo sia l’approccio migliore per il momento in cui ci troviamo».
Come ha reagito Mike Rezendes sapendo che lei lo avrebbe interpretato? Le ha dato dei consigli o le ha dato dei divieti? «(ride, ndr) L’interpretazione di un evento reale crea sempre imbarazzo. Pochi si fidano di Hollywood, quindi noi attori dobbiamo combattere contro preconcetti e garantire che saremo onesti e sinceri. E poi la gente in genere è terrorizzata all’idea di vedere la propria vita spiattellata in pubblico, lo sarei anch’io. Ma quando ha visto il film, Mike mi ha detto di essere rimasto molto colpito».
All’epoca delle inchieste del Globe il giornalista era la fonte di informazione, influenzava l’opinione pubblica. Oggi un flusso impressionante di notizie sembra alla portata di tutti, in realtà sta emergendo il problema che quelle notizie vanno decodificate e collocate in un contesto, e per questo occorre un mestiere. Da cittadino lei cosa ne pansa? «Stiamo assistendo alla decentralizzazione e alla disintermediazione di tutto, informazione inclusa, ed è necessario, altrimenti si crea un mondo monolitico e continuiamo a ripetere gli stessi errori. Il cambiamento ci spaventa perché scopriamo più verità su chi siamo. Ma allo stesso tempo ho molta fiducia, quando abbiamo più scelta facciamo cose migliori, collettivamente».
Ha provato conflitti morali girando Il caso Spotlight? «Sono stato cresciuto come cattolico e ho radici italiane, ma non sono religioso. Atroce, nel film, non è solo vedere le vittime, ma anche la gente che ha perso la propria fede vedendo come si comporta un certo clero. Credo che la Chiesa abbia la grande opportunità di riparare ai danni fatti , di scusarsi e di risarcire anche economicamente le persone. Va fatta qualsiasi cosa, per guarire le ferite».
Lei potrebbe diventare un buon cronista investigativo? «Sono troppo appassionato, temo… Ma come le dicevo mi piace l’idea di assorbire un po’ della disciplina della professione giornalistica».
Non occorre disciplina anche nel suo lavoro, per diventare ogni volta un’altra persona? Oltre a quest’ultima interpretazione, viene in mente quella del lottatore olimpico Dave Schultz che le è valsa una nomination agli Oscar, l’anno scorso, per Foxcatcher. «Più che affidarmi sull’espediente di prendere e perdere peso, per i miei personaggi mi baso su un cambiamento interiore. Studio le persone: se guardo al modo in cui è seduta sulla sedia trovo che dica moltissimo di lei. Non ci rendiamo conto di quante informazioni trasferiamo mentre sembra che non stiamo facendo nulla. Sono diventato consapevole di questo aspetto molto tempo fa, e ha iniziato a catturare la mia attenzione, volevo capire fino a che punto si può estendere questa osservazione».

Il cast de Il caso Spotlight, di Tom McCarthy. Da sinistra: Michael Keaton, Liev Schreiber, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, John Slattery e Brian D’Arcy James (courtesy of Freneek.it)
Fino a che punto? «Credo che nessuno di noi sia bloccato in un’identità, al contrario di quello che pensiamo siamo noi a decidere chi siamo, in larga parte. Possiamo cambiare a quante volte vogliamo».
A giudizio dei critici e del pubblico più attento, a un certo punto lei ha cambiato radicalmente marcia. Cosa le è successo con I ragazzi stanno bene, film che le è valso l’altra nomination agli Oscar? «Mi sono detto “è l’ultimo film, poi smetto di recitare”. Ho licenziato tutti, il mio agente, il manager, dentro di me, nel mio cuore, avevo chiuso, e questo ha stravolto le carte in tavola. Ho smesso di preoccuparmi, di voler essere amato e apprezzato e tutto è diventato divertente, ero finalmente libero. E poi I ragazzi stanno bene voleva essere un omaggio a mio fratello Scott (hair dresser trovato morto a Berverly Hills nel 2008, ancora oggi non si sa se sia stato un omicidio o un suicidio, ndr). È stato il mio modo di onorarlo, dirgli addio e usare il potere che il cinema può avere, a volte».
Nel 2002, mentre sua moglie era incinta del primo figlio, lei è stato gravemente malato in modo severo: c’è anche questo all’origine del suo cambiamento? «Quando mi hanno diagnosticato un tumore al cervello ero sicuro che sarei morto. In quei mesi ho capito che non stavo facendo cose che mi rendevano felice. Mi sono accorto che avevo sempre amato la recitazione, e avrei potuto non avere più la chance di viverla. Il dolore, la disillusione e anche il peso della strategia del business: direi che tutto questo mi ha cambiato. Oggi i miei figli e la mia famiglia vengono al primo posto».
Di cosa parla con i suoi bambini, in questo momento? «Mi chiedono di tutto, ma direi che questo è il momento di “mio fratello mi ama quanto lo amo io?”. Sono diversi da quando ero bambino io, trovo sia importante rassicurarli e cercare di sostenerli nelle loro diversità. La piccola, Odette, ha otto anni ed è molto dolce. Le faccio immaginare di essere una leonessa, la sprono a essere grintosa e a non avere paura. In qualche modo sento che deve essere riconosciuta, è l’ultima e voglio farla sentire potente. Poi c’è l’intermedia, Bella Noche, che è una forza della natura, mi parla già di giustizia sociale. Ma devo spiegarle che non si può sentirsi responsabili di tutto il mondo, non può sistemare le cose per tutti, deve lasciare che le persone trovino il loro modo di farlo».
Col figlio maschio come va? «Keen ha 14 anni, lui non mi parla del tutto (ride, ndr). Non è più come quando era piccolo, quando andavamo a comprare insieme le ultime novità sugli Avengers… Ora vuole il suo spazio, e lo capisco».
È stato difficile per un tipo come lei godersi il mondo della Marvel e vestire i panni di Hulk? «Al contrario, insegna che anche nel posto più triste del mondo si può ancora ridere. Ho sei film in tutto da girare con loro, sono ancora vivo e loro non si curano del fatto che Hulk abbia qualche capello grigio, mi sembra perfetto. Mi pagano anche bene, in un mercato che è diventato parecchio caotico, quindi finché sono felici, li uso per esprimere gioia».
Cosa intende dire? «Ho imparato dal mio lavoro che devi essere felice, altrimenti la tua vita diventa insignificante. C’è una frase di Nietzsche che dice “quando fissi un abisso, l’abisso farà altrettanto con te”. Nel mondo non c’è solo fango, ma anche gioia, dunque ben vengano i film della Marvel, c’è una morale dentro i fumetti a cui la gente è interessata».
Da circa un secolo, tra giornalisti e attori c’è un senso di mutuo sospetto: sotto sotto ognuno pensa che il suo lavoro sia un po’ più difficile, o più importante, dell’altro… «Ho scoperto invece un’affinità, lavorando a questo film, ed è che in entrambe i casi interessa la verità: che si tratti di una scena o di un caso di cronaca, è quello che cerchiamo. Certo, i cronisti sono stati dei muri, all’inizio, non volevano rispondere alle nostre domande. Ma anche in questo senso Il caso Spotlight è stato perfetto: ha schierato dei veterani da entrambe le parti, che hanno potuto finalmente contemplarsi e arrivare persino a stimarsi».
Articolo pubblicato su GQ Febbraio 2016
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