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Olivia Wilde, «Da mamma mi sento rock»

06 domenica Dic 2015

Posted by cristianaallievi in cinema, Senza categoria

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Chris Hemsworth, Cristiana Allievi, Jason Sudeikis, Martin Scorsese, Natale all'improvviso, Olivia Wilde, Ron Howard, Rush, Tao Ruspoli, Vynil

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L’attrice newyorkese olivia Wilde, 31 anni (courtesy lifestyle.com)

Non gira intorno alle cose, quando le fai una domanda. Ma pensi a un’altra cosa quando la incontri:  “È bellissima”. Ha prodotto lo stesso effetto su milioni di spettatori nel film che l’ha resa famosa, Rush, dove era la moglie del pilota di Formula Uno James Hunt. Sarà che assomiglia parecchio alla Jolie (è una versione di Angelina lievemente più maschile nei lineamenti), fatto sta che per una legge di equilibri pensi che non è necessario che Olivia Wilde sia anche una donna interessante: quelle gambe lunghe, i grandi occhi verdi, la pelle e i denti perfetti potrebbero bastare. Ma quando inizia a raccontarti di suo figlio Otis, del compagno, l’attore Jason Sudeikis, l’uomo che è venuto dopo il divorzio dal regista e principe italiano Tao Ruspoli, e della sua visione delle relazioni, scopri di avere davanti una donna con dei numeri. La scusa per cui parlo con la figlia di Andrew e Leslie Cockburn- appartenenti al gotha del giornalismo internazionale- è che il 26 novembre sarà nelle sale con Natale all’improvviso, di Jessie Nelson, insieme a Diane Keaton, John Goodman, Amanda Seyfried e Marisa Tomei. La storia non potrebbe essere più adatta al periodo dell’anno: racconta come il Natale, e ai raduni di famiglia in genere, possano diventare un inferno, nonostante le migliori intenzioni di tutti. Nel film Olivia è Eleanor, una sceneggiatrice che pur di non dover dire ai genitori e ai fratelli che è di nuovo single, porta a casa un perfetto sconosciuto per le feste. L’anno prossimo la vedremo invece nei panni della moglie del proprietario di un’etichetta discografica, grazie a Vynil, l’attesissima serie della Hbo diretta da Martin Scorsese.

Il suo nuovo film mostra chiaramente quanto il Natale possa tirar fuori la follia di ciascuno di noi: perché secondo lei si scatenano tanti conflitti, sommersi e non? «È un tipo di festa che raduna molte persone che di solito non si incontrano per il resto dell’anno. C’è la pressione dei regali, di quanto devono costare, e poi la preoccupazione peggiore, che ti facciano la domanda “allora cos’è successo durante quest’anno?”. Se si aggiunge l’assurda aspettativa di essere felici a tutti i costi, come fa ad essere un bel giorno con simili premesse? (ride, ndr). È naturale che si scateni l’ansia da prestazione, tutti vogliono dare una versione idealizzata di sé».

Lei è Eleanor, e porta a casa un perfetto sconosciuto incontrato all’aeroporto con questa frase: “So che non mi conosci e non sai neanche se ti piaccio, ma diventa il mio fidanzato…solo per stanotte!”. «Eleanor è una donna molto complessa in cui non mi ritrovo per niente. Incasinata, emozionale, è una specie di bambina caotica. È quella che non si è sposata, non ha raggiunto il successo, sotto molti aspetti è ancora la figlia di papà che lotta con la madre…».

Difficile simpatizzare con una donna così… «Mi ci sono immersa proprio perché non è una persona che piace, ed è una sfida recitare qualcuno con cui non sei d’accordo, di cui non condividi le scelte. Ma mi sono relazionata con la donna che ha fatto errori e ha imparato da questi: diventerà finalmente onesta con se stessa, sul suo passato e la sua famiglia».

Cos’è per lei la famiglia? «Paradossalmente è il luogo in cui puoi essere completamente te stessa, e in cui gli altri ti devono accettare come sei. La grande differenze tra la famiglia e gli amici è che con la prima non hai margini d’azione, devi averci a che fare così com’è. È buffo, perché in qualche modo sei simile ai membri del tuo clan, e non lo vorresti ammettere, loro ti conoscono da sempre, hanno seguito il processo della tua evoluzione come essere umano».

Gli amici no? «Li scegli, e possono anche diventare una seconda famiglia, certo. Ma la dinamica sarà sempre diversa».

Ho sentito dire che sul set siete diventati praticamente una famiglia. «Ho trovato irresistibile fare la figlia di Diane Keaton e John Goodman, è stato una specie di desiderio che si è avverato, non perché intendessi sostituire i miei genitori, ma averne due in più! Siamo stati tutti insieme a Pittsburgh per molto tempo, guardavamo persino insieme il Super Bowl, si è creata una situazione per cui raccontare quella storia è stato facile».

Imparare a tollerare la propria famiglia, e a perdonare anche i torti, è possibile secondo lei? « Tutti dobbiamo attraversare perdite ed esperienze dolorose, e da come ne usciamo dipende il resto della nostra vita. Ci sono situazioni in cui abbiamo il diritto di essere arrabbiati, ma possiamo anche scegliere. Vogliamo esserlo? Le cose andranno in un certo modo. Se invece lasciamo andare la rabbia e abbracciamo l’amore, andremo verso la felicità. I conflitti si possono superare, e porselo come obiettivo per Natale non è una brutta idea».

Cosa fa durante le sue vacanze? «Per me da sempre sono sinonimo di famiglia, ho sempre dato per scontato che per il giorno del Ringraziamento e a Natale stiamo tutti insieme. È un fatto che oltre che divertirmi mi rassicura, e invecchiando mi rendo conto che non è così per tutti. Quest’anno la novità sarà la presenza di Otis, io e Jason non vediamo l’ora di renderlo partecipe di questa festa. Vogliamo che impari che stare insieme alle persone che si amano è la cosa che conta di più».

È direttamente coinvolta nei preparativi o demanda? «Mi ci immergo completamente! Preparo le decorazioni per la casa, penso ai menù da cucinare, per un lasso di tempo mi dimentico del resto del mondo. La mia famiglia diventa una specie di isola, e io mi focalizzo su ogni singolo componente».

Cucina? «Moltissimo, ma non il tacchino perché non mi piace (ride, ndr). Preparo una bella dose di ripieno ma avendo una sorella vegana mi impegno molto anche in quel senso, per restare nella tradizione ma accontentare anche lei. Sono specializzata nella crema di zucca ma una delle cose che preferisco è trasformare gli avanzi del giorno dopo in piatti deliziosi. Mi sveglio la mattina del 26, apro il frigorifero che è pieno fino in cima e inizio il mio lavoro: tutti sanno che possono contare su di me in questo senso!».

Quali sono i suoi film natalizi preferiti? «Tutti gli anni riguardo Elf, lo trovo geniale, mi piace in tutti i sensi. Torno spesso anche su un vecchio cult, La vita è meravigliosa, con James Stewart e Donna Reed».

Sembra che la sua, di vita, sia meravigliosa, in questo momento. «Mi sento fortunata e sono piena di gratitudine. La bellezza di avere trent’anni è che finalmente inizi a vivere la vita per te stessa, non più per i tuoi genitori. Ed è meraviglioso sentire di aver raggiunto un certo livello di soddisfazione, mi ispira a intraprendere nuove strade, a correre dei rischi e inseguire sogni che ho sempre avuto in mente, ma che mi facevano paura».

L’anno prossimo la vedremo nell’attesissima serie tv Vynil. «È molto cool, sono felicissima di far parte di un lavoro prodotto da gente come Mick Jagger, Martin Scorsese e Terence Winter. Racconta di un’etichetta discografica del 1973, a New York, il cui proprietario si chiama Richie Finestra (interpretato da Bobby Cannavale). Io sarò Devon Finestra, sua moglie, una fotografa, una donna che sta reinventando la propria vita. Terry, che ha scritto la sceneggiatura di Boardwalk Empire e Il lupo di Wall Street, ha creato la serie e ne è il produttore. Martin ha diretto l’episodio pilota, e questo potrebbe già bastare. L’intera esperienza è stata incredibile, non vedo l’ora che vada in onda».

È stata la barista Alex, nella teen serie O.C., la dottoressa Tredici del Dr. House e in Butter si porta a letto niente meno che Ashley Greene: cos’ha capito calandosi ripetutamente nei panni di una bisessuale? «Molte ragazze mi hanno raccontato che grazie a me hanno imparato ad accettarsi, si sono trovate più a loro agio nel fare coming out e questo mi fa sentire bene. So che quando bacio una donna per una parte, la gente crede sia una cosa sexy, ma se sono due uomini a baciarsi, c’è subito c’è una reazione diversa. Usare due pesi e due misure, onestamente, mi sembra ridicolo».

Intervista uscita su Grazia del 2 dicembre 2015, n. 49

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

Kenneth Branagh, «Amleto è un leader, oltre che un gentleman»

21 martedì Apr 2015

Posted by cristianaallievi in cinema

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Amleto, Camelot, Cenerentola, Chris Hemsworth, Christian Bale, Cristiana Allievi, De Niro, Disney, Enrico V, Kenneth Branagh, Kentucky Derby, Marvel, Shakespeare, Thor, Tom Clancy, Wallande, Wasp

Kenneth Branagh, l’enfant prodige di Hollywood,  ha mixato con uno stile unico cinema e serie televisive, Shakespeare e supereroi della Marvel. Uscito indenne dalla campagna mondiale di Cenerentola, a Icon racconta di quando era bambino e della figura di suo padre. Ma anche di due debolezze: per il puritanesimo e i clan. E poi c’è quel rimorso segreto… 

Non c’è modo di sfilarsi dall’argomento. Ha appena ordinato un caffè e vuole sapere perché non ne voglio uno anch’io. Scoperto che ho abbandonato l’abitudine, vuole sapere quando e perché. Il tutto mentre mi prepara un tè verde con le sue mani, nella suite di un hotel a cinque stelle nel cuore di Berlino. Dettagli da cui si intuisce quanto un uomo sia interessato al cuore e alla mente degli esseri umani. Il suo, di cuore, batte per domande esistenziali. Ma non disdegna le serie tv (vedi alla voce Wallander, in cui nei panni di un ispettore di polizia si è aggiudicato una pioggia di nominations) né le produzioni hollywoodiane ed europee (passa da Thor alla nuova Cenerentola della Disney, un successo nelle sale, lo scorso marzo). Insomma Ken- per colleghi e amici- è anche uomo da record terreni. Con Orson Welles, Laurence Olivier, Woody Allen, Warren Betty e Roberto Benigni è uno dei sei uomini ad essere stati nominati agli Academy Awards come miglior attore e miglior regista per lo stesso film. Ma già a 23 anni era il più giovane attore della Royal Shakespeare Company ad aver mai interpretato il protagonista dell’Enrico V. Il record più peculiare, però, risale all’età di 28 anni, e non ne va affatto fiero, come racconta ad Icon. In giacca blu spigata, camicia bianca e sciarpa di seta color ghiaccio, sembra di ottimo umore.

Attore e regista, 55 anni, Branagh è nato a Belfast (courtesy of http://www.listal.com)

Dagli eroi di Shakespeare a quelli della Marvel, passando per Jack Ryan, celebre personaggio dei romanzi di Tom Clancy, lei ha raccontato tipi di uomini molto diversi tra loro. Cosa li accomuna? «Il farsi delle domande. Vicktor Frankl, psichiatra e filosofo austriaco, diceva che l’uomo cerca un senso. E anche quando si manifesta come sete di potere, non si limita a questo. Il personaggio a cui sono più legato, dai miei esordi in teatro, è Amleto, un uomo rinascimentale che ama lo sport, la letteratura e la musica, un leader oltre che un gentlemen. Ma è pieno di dubbi, pian piano diventa schiavo del suo intelletto, quindi infelice. Questo si traduce nel farsi domande su ciò che conta nella vita: è questa la costante, per ripsonderle».

Cosa invece cambia, nel maschio di epoche diverse? «Il senso di sicurezza in se stesso, il ruolo rispetto alle donne, almeno nel mondo occidentale. Lo vedo in difficoltà nell’adattarsi alla sfocatura dei ruoli tradizionali, era più felice una volta, quando le cose erano più semplici, “tu stai a casa e tiri su i figli, io vado nel mondo a cacciare e a portarti la preda. Non mi vedrai per un po’ e mentre sarò fuori vedrò altre donne, perché ho bisogno di spargere il mio seme…”. Qual è il posto dell’uomo, oggi? Io so che il mio compito, adesso, è essere un uomo nuovo».

Come lo descriverebbe? «Un tipo sensibile, capace di ascoltare, di controllare il testosterone e di non essere troppo competitivo. Sembra un cliché, ma significa essere capaci di abbracciare il proprio lato femminile. Un cambiamento tutt’ora in atto, facile da accettare per alcuni, meno per altri. C’è anche chi si sente evirato».

Come vede il maschio americano, da europeo? «Credo nell’uomo americano bianco. In lui c’è un forte residuo di puritanesimo, una certa spinta e agitazione. Non è sempre a proprio agio con se stesso, specialmente lontano da casa. I miei amici americani hanno bisogno del loro grande paese, non sopportano di stare al chiuso, vogliono spazi selvaggi, in cui fare i pionieri e portare avanti il progresso».

Apprezza il loro stile lavorativo? «C’è un’etica fenomenale, una visione puritana e fanatica, in un certo tipo di uomo americano wasp. Ammiro enormemente lo spirito “I can do” nel suo senso migliore, ma portato all’estremo diventa eccesso d’azione, e mancanza di gioia».

Spesso la scambiano per un inglese, mentre lei è irlandese. «Pensano tutti che venga da Oxford o da Cambridge e che sia anche molto intelligente (ride, ndr). Ma io so come stanno le cose!».

Che interpreti un detective, come in Wallander, o diriga una straordinaria versione di Cenerentola, l’elemento umano resta il centro della sua arte. Da dove viene, questo interesse? «Come recita un celebre motto, “datemi un bambino nei primi sette anni di vita e vi mostrerò l’uomo”. In quegli anni ho vissuto in visita continua ai molti cugini, zii e zie. I miei genitori lavoravano, io ero sempre a pranzo dai nonni, con cui ho avuto una relazione molto forte fino alla loro morte. Questo ha significato essere sempre in mezzo a dinamiche familiari, conoscere i dettagli della natura umana in azione».

E ascoltare tante storie… «Infinite, ricordo tante emozioni, si rideva e piangeva molto insieme. C’è anche un altro aspetto, sono stato incoraggiato all’indipendenza sin da molto piccolo, a sette anni prendevo già i pullman da solo. Finchè ho vissuto a Belfast mi sentivo molto sicuro…».

Cosa intende dire? «Che sapevo letteralmente dove mi trovavo. Non potevo perdermi, c’era sempre un altro Branagh a raccattarmi, da qualche parte. Quando ci siamo trasferiti in Inghilterra è stato un shock: siamo diventati un nucleo familiare più piccolo, non avevo più una rete di protezione e mi trovavo in un luogo molto più grande. Ho perso il senso di chi ero, una sconnessione che si è fatta sentire per molti anni, e forse il mio lavoro è stato una reazione a tutto questo».

Deve essersi anche ritrovato, per dirigere tante superstar… Partiamo da De Niro. «Un gran timido, un uomo intenso, ritualistico, molto meticoloso. Il processo per conquistare la sua fiducia è stato lunghissimo, ma una volta avutala, siamo diventati fratelli di sangue».

Chris Hemsworth, l'attore australiano a cui Branagh ha regalato la fama mondiale grazie a Thor (courtesy www.movieinsider.com).

Chris Hemsworth, l’attore australiano a cui Branagh ha regalato la fama mondiale grazie a Thor (courtesy http://www.movieinsider.com).

Ha diretto Christian Bale che aveva 15 anni, molto più recentemente ha cambiato la vita a Chris Hemsworth, con Thor. «Il primo incontro è stato difficile. Non stava bene, era scontroso, e noi non avevamo nemmeno la sceneggiatura, lo abbiamo abbandonato. Ma cercando quell’inusuale mix di atleticità e sensibilità, ci siamo rincontrati dopo un lunghissimo casting. Ero a un punto della vita in cui avevo molta esperienza e un forte interesse a passarla ad altri, la relazione è diventata un po’ quella tra padre e figlio. Sapevo che la vita di Chris sarebbe cambiata e che ci sarebbero stati ostacoli da affrontare, come i photocall con migliaia di fotografi… Ho cercato di rendergli le cose più facili, lui ha saputo ascoltarmi e imparare».

Chi era il suo ero, da bambino? «Mio padre. Lo adoravo, credevo fosse l’uomo migliore del mondo. Aveva un dono speciale per il legno, poteva costruire qualsiasi cosa. Con gli anni si è spostato verso il lavoro manageriale, ma fino alla morte è andato fiero del suo percorso, iniziato da una working class senza prospettive, dopo aver abbandonato la scuola a 14 anni».

Il vostro miglior momento insieme? «Quando l’ho portato al Kentucky Derby, nel 1994, con mio fratello. Andava pazzo per le corse dei cavalli, e quello era un evento dalle proporzioni mitiche, una specie di Camelot. Ha visto il Bluegrass del Kentucky, credo abbia sofferto molto quando ce ne siamo andati, apprezzava quegli uomini e i loro solidi valori».

Ultima domanda: perché ha scritto la sua biografia a 30 anni? «Ne avevo 28 (ride, ndr), e l’ho fatto per soldi. Non ho molti rimorsi, nella vita, ma questo è uno di quelli. Avevo diretto il primo film e a 27 anni avevo già scritto un libro, ero quel qualcosa di diverso che stavano cercando. Oggi provo compassione per quel giovane me stesso, e direi a chiunque di non imitarmi, nemmeno sotto tortura».

 © RIPRODUZIONE RISERVATA

Articolo pubblicato su Icon del 20 aprile 2015

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