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Kenneth Branagh, l’enfant prodige di Hollywood, ha mixato con uno stile unico cinema e serie televisive, Shakespeare e supereroi della Marvel. Uscito indenne dalla campagna mondiale di Cenerentola, a Icon racconta di quando era bambino e della figura di suo padre. Ma anche di due debolezze: per il puritanesimo e i clan. E poi c’è quel rimorso segreto…
Non c’è modo di sfilarsi dall’argomento. Ha appena ordinato un caffè e vuole sapere perché non ne voglio uno anch’io. Scoperto che ho abbandonato l’abitudine, vuole sapere quando e perché. Il tutto mentre mi prepara un tè verde con le sue mani, nella suite di un hotel a cinque stelle nel cuore di Berlino. Dettagli da cui si intuisce quanto un uomo sia interessato al cuore e alla mente degli esseri umani. Il suo, di cuore, batte per domande esistenziali. Ma non disdegna le serie tv (vedi alla voce Wallander, in cui nei panni di un ispettore di polizia si è aggiudicato una pioggia di nominations) né le produzioni hollywoodiane ed europee (passa da Thor alla nuova Cenerentola della Disney, un successo nelle sale, lo scorso marzo). Insomma Ken- per colleghi e amici- è anche uomo da record terreni. Con Orson Welles, Laurence Olivier, Woody Allen, Warren Betty e Roberto Benigni è uno dei sei uomini ad essere stati nominati agli Academy Awards come miglior attore e miglior regista per lo stesso film. Ma già a 23 anni era il più giovane attore della Royal Shakespeare Company ad aver mai interpretato il protagonista dell’Enrico V. Il record più peculiare, però, risale all’età di 28 anni, e non ne va affatto fiero, come racconta ad Icon. In giacca blu spigata, camicia bianca e sciarpa di seta color ghiaccio, sembra di ottimo umore.

Attore e regista, 55 anni, Branagh è nato a Belfast (courtesy of http://www.listal.com)
Dagli eroi di Shakespeare a quelli della Marvel, passando per Jack Ryan, celebre personaggio dei romanzi di Tom Clancy, lei ha raccontato tipi di uomini molto diversi tra loro. Cosa li accomuna? «Il farsi delle domande. Vicktor Frankl, psichiatra e filosofo austriaco, diceva che l’uomo cerca un senso. E anche quando si manifesta come sete di potere, non si limita a questo. Il personaggio a cui sono più legato, dai miei esordi in teatro, è Amleto, un uomo rinascimentale che ama lo sport, la letteratura e la musica, un leader oltre che un gentlemen. Ma è pieno di dubbi, pian piano diventa schiavo del suo intelletto, quindi infelice. Questo si traduce nel farsi domande su ciò che conta nella vita: è questa la costante, per ripsonderle».
Cosa invece cambia, nel maschio di epoche diverse? «Il senso di sicurezza in se stesso, il ruolo rispetto alle donne, almeno nel mondo occidentale. Lo vedo in difficoltà nell’adattarsi alla sfocatura dei ruoli tradizionali, era più felice una volta, quando le cose erano più semplici, “tu stai a casa e tiri su i figli, io vado nel mondo a cacciare e a portarti la preda. Non mi vedrai per un po’ e mentre sarò fuori vedrò altre donne, perché ho bisogno di spargere il mio seme…”. Qual è il posto dell’uomo, oggi? Io so che il mio compito, adesso, è essere un uomo nuovo».
Come lo descriverebbe? «Un tipo sensibile, capace di ascoltare, di controllare il testosterone e di non essere troppo competitivo. Sembra un cliché, ma significa essere capaci di abbracciare il proprio lato femminile. Un cambiamento tutt’ora in atto, facile da accettare per alcuni, meno per altri. C’è anche chi si sente evirato».
Come vede il maschio americano, da europeo? «Credo nell’uomo americano bianco. In lui c’è un forte residuo di puritanesimo, una certa spinta e agitazione. Non è sempre a proprio agio con se stesso, specialmente lontano da casa. I miei amici americani hanno bisogno del loro grande paese, non sopportano di stare al chiuso, vogliono spazi selvaggi, in cui fare i pionieri e portare avanti il progresso».
Apprezza il loro stile lavorativo? «C’è un’etica fenomenale, una visione puritana e fanatica, in un certo tipo di uomo americano wasp. Ammiro enormemente lo spirito “I can do” nel suo senso migliore, ma portato all’estremo diventa eccesso d’azione, e mancanza di gioia».
Spesso la scambiano per un inglese, mentre lei è irlandese. «Pensano tutti che venga da Oxford o da Cambridge e che sia anche molto intelligente (ride, ndr). Ma io so come stanno le cose!».
Che interpreti un detective, come in Wallander, o diriga una straordinaria versione di Cenerentola, l’elemento umano resta il centro della sua arte. Da dove viene, questo interesse? «Come recita un celebre motto, “datemi un bambino nei primi sette anni di vita e vi mostrerò l’uomo”. In quegli anni ho vissuto in visita continua ai molti cugini, zii e zie. I miei genitori lavoravano, io ero sempre a pranzo dai nonni, con cui ho avuto una relazione molto forte fino alla loro morte. Questo ha significato essere sempre in mezzo a dinamiche familiari, conoscere i dettagli della natura umana in azione».
E ascoltare tante storie… «Infinite, ricordo tante emozioni, si rideva e piangeva molto insieme. C’è anche un altro aspetto, sono stato incoraggiato all’indipendenza sin da molto piccolo, a sette anni prendevo già i pullman da solo. Finchè ho vissuto a Belfast mi sentivo molto sicuro…».
Cosa intende dire? «Che sapevo letteralmente dove mi trovavo. Non potevo perdermi, c’era sempre un altro Branagh a raccattarmi, da qualche parte. Quando ci siamo trasferiti in Inghilterra è stato un shock: siamo diventati un nucleo familiare più piccolo, non avevo più una rete di protezione e mi trovavo in un luogo molto più grande. Ho perso il senso di chi ero, una sconnessione che si è fatta sentire per molti anni, e forse il mio lavoro è stato una reazione a tutto questo».
Deve essersi anche ritrovato, per dirigere tante superstar… Partiamo da De Niro. «Un gran timido, un uomo intenso, ritualistico, molto meticoloso. Il processo per conquistare la sua fiducia è stato lunghissimo, ma una volta avutala, siamo diventati fratelli di sangue».

Chris Hemsworth, l’attore australiano a cui Branagh ha regalato la fama mondiale grazie a Thor (courtesy http://www.movieinsider.com).
Ha diretto Christian Bale che aveva 15 anni, molto più recentemente ha cambiato la vita a Chris Hemsworth, con Thor. «Il primo incontro è stato difficile. Non stava bene, era scontroso, e noi non avevamo nemmeno la sceneggiatura, lo abbiamo abbandonato. Ma cercando quell’inusuale mix di atleticità e sensibilità, ci siamo rincontrati dopo un lunghissimo casting. Ero a un punto della vita in cui avevo molta esperienza e un forte interesse a passarla ad altri, la relazione è diventata un po’ quella tra padre e figlio. Sapevo che la vita di Chris sarebbe cambiata e che ci sarebbero stati ostacoli da affrontare, come i photocall con migliaia di fotografi… Ho cercato di rendergli le cose più facili, lui ha saputo ascoltarmi e imparare».
Chi era il suo ero, da bambino? «Mio padre. Lo adoravo, credevo fosse l’uomo migliore del mondo. Aveva un dono speciale per il legno, poteva costruire qualsiasi cosa. Con gli anni si è spostato verso il lavoro manageriale, ma fino alla morte è andato fiero del suo percorso, iniziato da una working class senza prospettive, dopo aver abbandonato la scuola a 14 anni».
Il vostro miglior momento insieme? «Quando l’ho portato al Kentucky Derby, nel 1994, con mio fratello. Andava pazzo per le corse dei cavalli, e quello era un evento dalle proporzioni mitiche, una specie di Camelot. Ha visto il Bluegrass del Kentucky, credo abbia sofferto molto quando ce ne siamo andati, apprezzava quegli uomini e i loro solidi valori».
Ultima domanda: perché ha scritto la sua biografia a 30 anni? «Ne avevo 28 (ride, ndr), e l’ho fatto per soldi. Non ho molti rimorsi, nella vita, ma questo è uno di quelli. Avevo diretto il primo film e a 27 anni avevo già scritto un libro, ero quel qualcosa di diverso che stavano cercando. Oggi provo compassione per quel giovane me stesso, e direi a chiunque di non imitarmi, nemmeno sotto tortura».
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Articolo pubblicato su Icon del 20 aprile 2015