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Interpretando Elvis Presley, AUSTIN BUTLER ha scoperto di avere molto in comune con lui: un dolore importante e l’ansia di piacere che divorava l’icona del rock

Intervista esclusiva di Cristiana Allievi

L’attore americano Austin Butler in una scena del film Elvis di Baz Luhrmann in cui interpreta varie sfaccettature dello showman più famoso del ventesimo secolo:  il ribelle delle origini, l’attore, l’uomo pop e quello family-friendly, fino  alla versione epica  degli anni Settanta (Courtesy © 2021 Warner Bros. Entertainment Inc.)

La voce è profonda e lievemente roca. Potrebbe sedurre, con quella voce,  invece la usa per consegnarmi un’importante chiave di lettura della sua vita. «Anch’io ho perso mia madre quando avevo solo 23 anni», mi racconta, e non a caso. Californiano, classe 1991, magnifici occhi azzurri, Austin Butler il suo viso non si è ancora fissato nella mente di tutti. Però dal 22 giugno in poi sarà impossibile dimenticarsi di lui, perché Baz Luhrmann lo ha scelto per interpretare il più grande showman del ventesimo secolo, Elvis Presley. Un salto vertiginoso per Austin, diventato famoso grazie alla serie tv della Disney Hannah Montana, a cui è seguito l’esordio al cinema con The faithful nei panni di un cane che si trasforma in uomo. Certo, lo hanno già voluto anche Tarantino e Jarmush (in C’era una volta… a Hollywood e I morti non muoiono), ma per ruoli minori. In Elvis, presentato Fuori Concorso alla 75esima edizione del Festival di Cannes,  lo vedremo protagonista assoluto, mentre ancheggia, canta e si dispera per due ore e 39 minuti, ripercorrendo la complicata relazione che il re del rock aveva con il manager, il “Colonello” Tom Parker interpretato da Tom Hanks. Nel biopic si celebra anche l’Italia, visto che nella colonna sonora ci sono anche  i Maneskin con la hit If I Can Dream.

Qual è stata la sua reazione quando le hanno proposto di diventare l’uomo di spettacolo più famoso del ventunesimo secolo? «Per due anni mi sono svegliato alle tre di notte con il cuore che andava a cento all’ora: mi sono chiesto come interpretare questa reazione, finché ho capito che si trattava di terrore puro».

Terrore di cosa? «Di non saper rendere giustizia a Elvis, davanti a tutti quelli che lo amano, partendo dalla  sua famiglia che volevo fosse orgogliosa di lui. Mi è capitato di avere grosse crisi di autostima,  ho dovuto attraversarle e superarle».

Come si supera, il “terrore puro”? «Pensando che se mi hanno dato un lavoro,  dovevo prendermene la responsabilità e confrontarmi con il mio disagio.  Indagando questo terrore ho scoperto che conteneva  anche energia! Così ho  iniziato a lavorare, quando mi svegliavo in piena notte, guardavo video e sentivo che il terrore svaniva. Sono riuscito a indirizzare la mia paura, scoprendo che anche Elvis ne aveva, e molta».

Che paura aveva Elvis?  «Quella di salire sul palco e di non piacere, è diventato chiaro girando la parte del grande Come back special del  1968,  dopo sette anni di assenza dal palco, un momento in cui tutto era un rischio: sapeva di voler dare meglio di sè».

Un po’ come lei in questo momento? «Se fallisci con il primo film da protagonista  è difficile rialzarti. Ho sentito un’enorme pressione, ma dovevo continuamente tornare sulle emozioni di Elvis, capire cosa faceva strillare il suo pubblico, cosa lo faceva impazzire».

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(continua…)

Intervista pubblicata su Vanity Fair dell’8 giugno 2022

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