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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi tag: Colin Firth

Josh O’Connor: «E adesso mi metto a nudo»

28 giovedì Lug 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Letteratura, Miti

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Colin Firth, Cristiana Allievi, Donna Moderna, Eva Husson, guerra, interviste illuminanti, Josh O'Connor, Mothering Sunday, nudo, Olivia Colman, Secret Love, The Crown, uomini

Il protagonista di Secret Love colleziona ceramiche, adora il giardinaggio, si spoglia senza problemi. E qui fa un invito a se stesso e agli altri uomini: “Dobbiamo capire perché abbiamo avuto così a lungo tanti privilegi. Ed essere più gentili».

di Cristiana Allievi

L’attore inglese Josh O’Connor, 31 anni (courtesy TMDB)

Fa molto caldo nella stanza in cui ci troviamo. Josh O’Connor indossa una camicia bianca di seta con disegni neri ed è seduto su una poltrona. Con un accento molto british mi racconta la sua visione del maschio contemporaneo, mentre scivola in avanti con le gambe, per poi ritirarsi su. Da giovane voleva fare l’attore, ma pensando di non avere la stoffa si è dato al rugby. Gli torna in mente mentre parliamo di Secret Love di Eva Husson, finalmente al cinema dal 20 luglio. Quella che è forse la sua miglior interpretazione di sempre: ambientata nel 1924,  lo vede nei panni di Paul, il figlio di una famiglia di nobili che porta sulle spalle vari pesi: i fratelli morti in guerra, un matrimonio imminente che non vorrebbe e soprattutto  l’amore segreto per Jane (Odessa Young), domestica dei vicini di casa (Colin Firth e Olivia Colman). Lui è nudo per i tre quarti del film,  in quello che è un incontro sublime fra sesso, cinema e scrittura (la storia è tratta dal romanzo Mothering Sunday di Graham Swift). 31 anni, figlio di un insegnante e di un’ostetrica, come principe Carlo d’Inghilterra in The crown ha vinto Emmy e Golden Globe, e molti altri riconoscimenti sono arrivati per La Terra di Dio. A New York, dove vive, fa teatro e film indipendenti e ha un’altra passione insospettabile a cui dedicarsi.

Vado dritta al punto: prima Carlo d’Inghilterra, ora Paul,  un altro uomo costretto dall’etichetta.  Perché sceglie questi maschi che non conoscono la libertà? «Non è mai stata una decisione cosciente, piuttosto una sorta di gioco. Ho incontrato molti  uomini che si misurano con la loro mascolinità e le lotte di potere che questa comporta. Qualcuno mi ha detto di vedere una connessione  fra il principe Carlo e il Johnny Saxby che ho interpretato in La terra di Dio. La mia prima reazione è stata “stai scherzando?”, ma riflettendoci l’idea è convincente:  il principe Carlo era incapace di esprimere le proprie emozioni a causa del suo status sociale, esattamente come Johnny, che appartiene a una classe sociale molto inferiore. Chi come me viene dalla classe di mezzo, riesce molto bene a parlare di chi sta più in alto e di chi sta più in basso».

Il comune denominatore è l’essere “trattenuti”. «È un aspetto che mi affascina molto, ma mi interessa più quel senso di colpa che ha chi sopravvive. Paul è un uomo che eredita uno status in una certa società, e si deve portare sulle spalle il peso e la pressione dei suoi due fratelli morti in guerra, incluso il matrimonio con una donna che non ama ma che tutti intorno a lui amano, è la ricetta per un disastro perfetto!».

Cos’ha a che fare con lei, questo disastro? «Sto esplorando qualcosa che mi sembra interessante, ma non so perché continui a tornare. Sembra che non le stia rispondendo, la verità è che non conosco la risposta».

Come vede questa fase di confronto fra i sessi? «Credo che non sia un caso se vediamo spesso ruoli come quello che interpreto in Secret love. Gli uomini devono comprendere il loro posto nel mondo, e capire perché hanno avuto così tanti privilegi per così tanto tempo. In altre parole, dobbiamo capire come essere più gentili».

Il fatto che la regista sia una donna è un caso? «Neanche un po’. Finalmente abbiamo registe e sceneggiatrici che scrivono personaggi maschili per un pubblico di uomini e di donne.  Diciamo che stiamo rivalutando le cose, ci stiamo lavorando su».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 21 luglio 2022

@Riproduzione riservata

Livia Firth, la rivoluzionaria della moda

17 lunedì Set 2018

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Cultura, Moda & cinema

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Colin Firth, Cristiana Allievi, Eco-Age, Grazia, Green Carpet Fashion Award, interviste illuminanti, Livia Firth, moda eco, sostenibile

 

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Livia Firth, imprenditrice e produttrice cinematografica (foto di Julian Hargreaves per Grazia)

È UN’IMPRENDITRICE CHE AIUTA LE MAISON A PRODURRE ABITI E GIOIELLI IN MANIERA RISPETTOSA DI AMBIENTE E LAVORATORI. ALLA VIGILIA DEI GREEN CARPET AWARDS, GLI OSCAR DELLO STILE SOSTENIBILE CHE SARANNO ASSEGNATI A MILANO, POSA PER GRAZIA E RACCONTA I PASSI AVANTI IN UNA BATTAGLIA IN CUI HA AL FIANCO SUO MARITO, L’ATTORE COLIN

«Non bastava che il nostro aereo fosse in ritardo, ci hanno anche fermato all’immigrazione. Risultato, abbiamo due ore di ritardo».  Siamo in una suite dell’hotel Cipriani, a Venezia, e nonostante Livia Firth abbia viaggiato per ore, si presenta all’intervista fresca come una rosa grazie al suo truccatore di fiducia. Vive da anni a Londra, ha una casa in Umbria e un marito da vent’anni che di nome fa Colin Firth ed è un premio Oscar. Insieme hanno due figli, Luca, 17 anni, e Matteo, 15. Ma parlare della sua vita privata, con lei, è impossibile: ha deciso anni fa che non lo avrebbe più fatto perché- parole sue- le affermazioni che faceva venivano regolarmente fraintese. Così focalizza le sue attenzioni sull’attività di produttrice e imprenditrice di Eco-Age, una società di consulenza che aiuta le aziende a diventare ecosostenibili. Ma a proposito di marito, alla serata di Chopard che seguirà alla nostra intervista i due sono stati sorridenti e inseparabili, a dimostrare che la crisi attraversata qualche tempo fa è stata definitivamente superata. Prima di parlare con me, Livia da un occhio agli abiti appesi sullo stand che indosserà in questo servizio fotografico, e punta decisa sui colori più vivaci. Il 23 settembre, in piena settimana della moda, sarà di nuovo sul The Green Carpet Fashion Award, progetto di cui è madrina e che per il secondo anno avrà come magnifico scenario il Teatro alla Scala di Milano. Partiamo da qui.

 Lei combatte il “fast fashion”, la moda a basso costo che punta sulle ultime tendenze… «Non saremmo qui a parlare di moda sostenibile, se non esistesse il fast fashion. Fino a 30 anni fa compravamo e consumavamo in modo diverso, oggi tutto è usa e getta, con ripercussione sull’ambiente e sulle persone che creano questi prodotti: i vestiti vengono confezionati da persone che vivono come schiavi».

 Il documentario The True Cost, mostrato in anteprima mondiale a Cannes nel 2016, raccontava con immagini scioccanti l’impatto della moda a basso costo sull’ambiente e sulla vita delle persone. Come hanno reagito i grandi marchi dello stile, considerato che alcuni di loro decentrano la produzione per abbassare i costi? «La moda del lusso ha dovuto fare dei compromessi per competere con il fast fashion, produrre anche all’estero, per esempio in Bangladesh, con le agevolazioni del caso. Ma è anche vero che molti brand del lusso si sono accorti per primi di dover cambiare le cose e di non poter usare certi mezzi. Il gruppo Kering in Italia, che comprende Gucci e Bottega Veneta, ma anche Stella McChartney, si muovono diversamente: sono alcuni fra i marchi del lusso che controllano completamente la loro filiera perché tengono alla reputazione».

 Dove è arrivato il suo impegno con Eco-Age e la moda sostenibile? «Nell’ultimo anno i cambiamenti sono stati radicali.  A forza di parlarne si è rotto un argine e le persone ascoltano più facilmente, adesso è entusiasmante parlarne. E tanti amministratori delegati hanno capito che la sensibilità fa parte del profitto di un’azienda e che se vuoi un business che funzionerà anche fra 10 anni devi avere un certo tipo di produzione».

Se si volta indietro, dove colloca l’inizio della sua battaglia? Cosa ha fatto scattare la molla dentro di lei? «L’idea di Eco-Age è stata di mio fratello Nicola: quando ha aperto, nel 2007, era un negozio. Aveva finito Economia e commercio a Roma ed è venuto da me e Colin  a Londra,  a perfezionare l’inglese. Non sapeva cosa avrebbe fatto da grande, ma non voleva lavorare nel mondo finanziario. Essendo sempre stato appassionato di eco sostenibilità, un giorno è venuto da noi e ci ha chiesto: “se doveste comprare un pannello solare, dove andreste?”. Gli abbiamo risposto che non ne avevamo idea. Gli si è accesa una lampadina: “Visto che non esiste un negozio per strada, in cui puoi entrare  e chiedere informazioni, lo apriamo noi”. Eco Age, a Londra, è stato il primo negozio per la casa specializzato in materiale eco sostenibile. Abbiamo lanciato la prima libreria in materiale eco sostenibile al mondo, venivano tutti a fare un giro lì».

Poi? «Sono andata in Bangladesh, con Oxfam, per una campagna contro la violenza domestica. Ho chiesto se mi facevano entrare di nascosto in una fabbrica e mi ha talmente scioccato quello che ho visto che ho capito che dovevamo dimenticarci della casa e passare alla moda. È un’industria che ha una grande responsabilità e una grande colpa: al momento è il business che riduce il maggior numero di persone a una forma di schiavitù moderna».

Lei ha ideato il il Commonwealth Fashion Exchange con il quale è arrivata a Buckingham Palace, il palazzo che ospita la Regina Elisabetta. Ci può dire di che cosa si tratta? «Il segretario generale del Commonwealth è una donna, la baronessa Patricia Scotland. Voleva fare qualcosa di speciale per riunire i paesi del sotto un unico ombrello, ha scelto la moda come veicolo per parlare di cose serie. Il concetto di Fashion Exchange, il più grande scambio di moda mai esistito, ha coinvolto designer di 56 paesi del mondo, incluse isolette del Pacifico mai sentite nominare prima. Kate Middleton è diventata madrina dell’evento, ha una grande passione per i tessuti, qualche anno fa aveva visitato tutti i tessutai inglesi».

(…continua)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 13/9/2018

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Guerra e droni: “Il diritto di Uccidere” è un film di urgente attualità

25 giovedì Ago 2016

Posted by cristianaallievi in cinema, Cultura

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Barak Obama, Colin Firth, Cristiana Allievi, Eye in the sky, Gavin Hood, Good Kill, Guy Hibbert, Il diritto di uccidere, NAtional Birds, New York Times, Sonia Kennebeck, Wim Wenders

Diretto dal premio Oscar Gavin Hood e prodotto da Colin Firth, il film che racconta dettagliatamente cosa sia la “kill chain” che è al cuore di ogni attacco con droni, diventa quasi di utilità sociale. Perché questo tipo di guerra ci coinvolge tutti.

Il colonnello inglese Katherine Powell, dopo aver inseguito per anni una connazionale divenuta terrorista, la rintraccia in Kenya grazie all’uso dei droni.
Il suo “occhio” sul campo è pilotato in Nevada da un giovane ufficiale che, al momento di sferrare l’inevitabile attacco alla cellula terroristica di Nairobi, intercetta una bambina che si piazza a vendere il pane proprio a pochi metri dall’obiettivo. A questo punto tutto ruota intorno alla percentuale di probabilità che ci sono di far morire anche quell’innocente, per colpire il gruppo di terroristi. Inizia un gioco di rimbalzi in cui nessun politico nella “war room” londinese vuole prendersi la responsabilità di decidere, mentre da parte Usa arriva più volte l’ok a procedere.

Nelle sale dal 25 agosto Il diritto di uccidere (Eye in the Sky), diretto dal premio Oscar Gavin Hood e prodotto da Colin Firth, solleva una domanda fondamentale nello spettatore: il danno collaterale è moralmente accettabile nel contesto della lotta al terrorismo?«Non sapevo niente dalla moderna guerra con i droni, su cui tra l’altro non c’è mai stato un vero dibattito pubblico. Per molti mesi ho studiato la sceneggiatura di Guy Hibbert, ho letto libri, guardato documentari e preso contatti con l’esercito. Poi ho parlato con piloti di droni e avvocati che si occupano di diritti umani», racconta Hood. «Ma la cosa che mi ha coinvolto nel progetto, affascinandomi, è stato il fatto che al cuore della storia c’è un genuino dilemma etico e morale. Da ex avvocato mi ha ricordato il vecchio “dilemma del vagone”, spesso presentato alle lezioni di etica, in cui si chiede agli studenti se sacrificherebbero una vita per salvarne molte in circostanze che coinvolgono un treno in corsa che non si può fermare. Il diritto di uccidere pone lo stesso dilemma: uccideresti una bambina innocente per prevenire la possibile – ma non inevitabile – morte di molte persone per mano di un kamikaze?».

Il diritto di uccidere

 

 

Il diritto di uccidere

Come regista, Hood presenta questo dilemma allo spettatore in modo viscerale, cinematico ed eccitante, tenendolo inchiodato alla sedia e allo stesso tempo sfidando la sua idea di giusto e sbagliato. Interpretato dal premio Oscar Helen Mirren, da Aaron Paul e da Alan Rickman alla sua ultima e straordinaria prova di attore, il film è particolarmente abile nel far percepire cosa attraversano le persone a livello umano, dai vertici militari a quelli politici, fino al pilota che deve premere l’ultimo bottone della catena. E mette in rilievo come questa nuova guerra non coinvolga solo una tecnologia avanzatissima, ma incastri leggi, etica e politica: il colonnello, per ottenere l’ok a procedere, dovrà prendere una decisione personale, che lascia lo spettatore con qualcosa di cui parlare e lo coinvolge al punto da farlo diventare una specie di giuria.Il diritto di uccidere

Che quello dei droni sarebbe stato il tema dell’anno lo si era capito con l’uscita di Good Kill, diretto da Andrew Niccol e interpretato da Ethan Hawke, seguito dalla proiezione di National Bird all’ultima Berlinale, il documentario di 90 minuti di Sonia Kennebeck prodotto da Wim Wenders.

Se il film interpretato da Ethan Hawke intrattiene con il tormento dell’uomo che passa dalla guerra fisica, combattuta in Afganistan, a quella in cui si uccide a distanza, freddamente e senza nessun tipo di percezione, la giornalista freelance Kennebeck, che ha lavorato per la CNN e le tv tedesche, ha fatto un altro tipo di operazione: ha cercato fonti interne e le ha fatte parlare direttamente, raccontando per la prima volta cosa succede a chi si arruola in “un programma di droni”, con tanto di numeri sui tentati suicidi per il disagio causato alla psiche.

Poche settimane fa Barak Obama ha finalmente rilasciato dichiarazioni sul numero di “vittime collaterali” dei droni dal 2009 al 2015: da 64 a 116 in sei anni è la cifra rivelata dalla Casa Bianca, un numero molto inferiore a quello dichiarato da media e Ong. Negli ultimi sette anni sono stati 473 gli attacchi degli aerei senza pilota contro obiettivi del terrorismo internazionale, che hanno ucciso circa 2500 terroristi. Il tema è quanto mai scottante, e secondo il New York Times la dichiarazione di Obama a sei mesi dalla fine della sua presidenza ha un valore simbolico: sarebbe un modo per rendere i bombardamenti al di fuori di zone di guerra una routine accettata della politica di difesa.Il diritto di uccidere

Per questo motivo il racconto dettagliato di cosa è la “kill chain”, che è al cuore di Il diritto di Uccidere, diventa un fatto quasi di utilità sociale, dal momento che questo tipo di guerra ci coinvolge tutti. «È fondamentalmente la catena militare e politica del comando attraverso cui passa la decisione di colpire un individuo, prima che venga dato il via libera a ucciderlo», spiega Hood. «Nel film vediamo la catena in azione in tempo reale. Nel caso di un “individuo di alto valore” o di un target politicamente sensibile, questa catena della morte porta dritti al Primo ministro britannico e addirittura al presidente Usa. Il fatto che a rendere legale un assassinio sia una catena di permessi è materia di grande dibattito. Se la gente parla di quello che ha visto, e di come la fa sentire, e di cosa farebbe e non farebbe se si trovasse a prendere decisioni sulla vita e la morte di qualcuno, ne sarei entusiasta. È l’effetto che ha fatto a me leggere la sceneggiatura di Guy: mi ha fatto davvero pensare».

Articolo pubblicato su GQ Italia 

© Riproduzione riservata

Jeremy Irvine, «Pattinson, fatti più in là»

23 martedì Set 2014

Posted by cristianaallievi in cinema

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cinema, Colin Firth, Cristiana Allievi, Fallen, Grazia, Jeremy Irvine, Leonardo DiCaprio, Robert Pattinson, The railway men, Toronto

 Ha solo 24 anni ma ha già Hollywood ai suoi piedi. E nessuna intenzione di diventare un sex symbol. Perché ha capito cosa regala la vera felicità…

936full-jeremy-irvine«Ero a un passo dal mollare tutto e andare a lavorare con mio padre. Quando ti senti dire cinque no a settimana, per due anni, non vedi più un motivo per insistere…». Reduce da Toronto per l’anteprima di The reach, seduto su una sedia, gambe allungate in avanti, parla guardandomi con due occhi blu grandi e sereni. Indossa una giacca in pelle nera e jeans a fasciargli i quadricipiti, ed è educatissimo. Non meraviglia, considerando che è cresciuto a Gamlingay, nella campagna dello Cambridgeshire, con padre ingegnere a madre politica, e forse anche grazie a questo oggi Jeremy Irvine ha davanti a sé uno scenario molto diverso da quello dei suoi esordi: Hollywood lo corteggia, lo stesso dicasi per gli stilisti e i registi. Perché dopo la serie di porte in faccia è arrivato Steven Spielberg a sceglierlo come protagonista di War Horse, un tale successo al box office da trasformarlo istantaneamente da signor nessuno in star. Da lì in poi ha fatto solo scelte intelligenti, come non montarsi la testa e scansare le offerte di franchise per teeneger, cosa che ti riesce solo se hai un mare di fiducia dalla tua. Dopo il successo di Now is good, dall’11 settembre è in Le due vie del destino, di Jonathan Teplitzky e, prossimamente, in quel The woman in Black- Angel of death in cui lo aveva preceduto Daniel Radcliffe. Guardando più in là, il 2015 sarà il suo anno, come protagonista di Fallen, primo capitolo della nuova adult saga scritta da Lauren Kate che lo impegnerà per ben cinque film. Insomma, ho davanti a me un bello che porta i capelli alla James Dean ed è il prossimo Robert Pattinson in circolazione. A me il compito di verificarne la stoffa…

 In Le due vie del destino interpreta la parte di Colin Firth da giovane, e divide il film con lui e la Kidman. Alla sua età ha già lavorato con Ralph Fiennes, Helena Bonham Carter, che effetto le fa volare così alto? «Condividere il set con star di questo calibro mi ha insegnato presto a lasciare da parte pensieri del tipo “sono solo il nuovo ragazzino…”, se ti fai intimorire sei fregato. Ma se penso che Colin, un premio Oscar, mi ha invitato a casa sua a Londra per preparare il personaggio insieme, ancora non ci credo. È un uomo appassionato e alla mano, e ha un gran senso dell’umorismo».

 Due inglesi con un certo aplomb si influenzano anche nello stile? Sul red carpet di Londra, insieme, eravate scintillanti… «Lì eravamo elegantissimi, ma nella vita di tutti i giorni sono più casual di Colin, mi sento bene con skinny jeans e t-shirts e mi vesto più o meno sempre così. Ho anche una collezione di giacche di pelle, tutte nere. Mia madre mi prende in giro, non capisce perché le scelgo tutte uguali. La risposta è che è il colore più facile da indossare, come mi hanno insegnato Dolce & Gabbana».

Con War House Spielberg l’ha trasformata in una star da un giorno all’altro, ma il suo primo ruolo da attore lo ricorda? «Impossibile dimenticarlo. Gli amici della compagnia teatrale shakespeariana mi dicevano che ero perfetto per fare l’albero… (ride, ndr). Di fatto è quello che è successo: la mia prima volta in palcoscenico è stata con due rami addosso».

La molla che l’ha fatta iniziare? «Un grande insegnante di teatro mi ha detto che la scuola di recitazione sarebbe stata pesante come l’addestramento militare. Non so dirle perchè, ma proprio questo mi ha attratto».

Infatti a 19 anni si è arruolato nell’esercito britannico, ma poi è stato rifiutato perché non ha dichiarato di essere diabetico. «(ride, ndr) Ho avuto la tipica fase di ribellione di un teenager, me lo spiego così. Ma tornando all’esercito, per fortuna la mia vita ha preso un’altra direzione».

Lei ha cambiato nome prendendo quello di suo nonno, perché? «C’era già un Jeremy Smith all’actors union, e siccome devi averne uno unico, mi hanno chiesto di sceglierne un altro».

Sua madre è una politica – e tra le altre cose si occupa di ridare una casa ai senzatetto – e suo padre è un ingegnere. L’hanno presa sul serio vedendola in scena, a fare l’albero? «Per due anni nessuno mi ha fatto lavorare, venivo respinto cinque volte a settimana. Il dubbio di aver buttato via il mio tempo mi è venuto, confesso. Stavo per mollare, diciamo per trovarmi un lavoro vero».

(continua…)

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Intervista esclusiva per  Grazia 

©Riproduzione riservata

Patricia Lomax, «Vi racconto la vera storia di The Railway Man»

23 martedì Set 2014

Posted by cristianaallievi in cinema

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cinema, Colin Firth, Cristiana Allievi, Nicole Kidman, Panorama, Patricia Lomax, The railway men

Finalmente nelle nostre sale, con il nome di Le due vie del destino, la pellicola ispirata alla biografia di Eric Lomax, un ufficiale britannico rapito dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale: intervista escusiva alla vedova

Colin Firth e Nicole Kidman in The railway men

Questa storia comincia nella Seconda guerra mondiale ed è talmente strepitosa da avere meritato un libro e un film. Il protagonista è Eric Lomax, un ufficiale britannico. Nel 1942 viene catturato dai giapponesi a Singapore e rinchiuso in un campo di concentramento in Thailandia sulla linea Burma-Siam, nota come «ferrovia della morte» per i prigionieri costretti a lavorarci. Quando le guardie gli trovano una radio ricevente fabbricata a mano e una mappa, Eric viene sottoposto a interrogatori violentissimi e a torture abominevoli. Poi la guerra finisce. Lomax si ritira in Scozia e sposa Patricia, che ignora il suo passato.

Ma la sua vita è segnata per sempre. L’uomo alterna incubi notturni a lunghi silenzi, e per la moglie si trasforma in un mistero da decifrare. Patricia non riesce a stabilire un vero contatto con Eric, né a placare l’angoscia che gli squassa l’anima, fino al giorno in cui scopre che Takashi Nagase, uno dei torturatori del marito e interprete inglese nel campo thailandese, è vivo e lavora come guida per i turisti che visitano i templi dedicati al Buddha. Da quel momento la vita di Eric e di Patricia cambierà per sempre: e basterà un gesto per sanare un passato insopportabile.

Eric Loman è morto nel 2012 all’età di 93 anni. Alla fine degli anni Novanta ha pubblicato un libro autobiografico, The railway men, che è diventato un bestseller. Ci sono voluti 15 anni e ora la sua vita è diventata anche un film con lo stesso titolo, diretto da Jonathan Teplitzky e interpretato da Colin Firth e Nicole Kidman. Il film è uscito lo scorso maggio in America, arriverà in Italia nel 2014. Patricia Lomax, 74 anni portati splendidamente, racconta in esclusiva a Panorama la storia di suo marito.

Il film The railway men è la trasposizione fedele della sua storia e di quella di Eric?

Lo è quasi in tutte le sue parti, anche se alcuni passaggi sono stati sintetizzati per mantenere un certo ritmo. Rispetto al libro la parte delle torture è molto contenuta. Va detto che un medico che ha esaminato Eric aveva detto che tra le spalle e le ginocchia mio marito non aveva un solo punto della pelle che non fosse stata incisa dalle ferite, dalle torture. Certe cose si riesce a leggerle, ma non credo sarebbe sopportabile vederle al cinema.

Quando ha incontrato Eric nulla le ha suggerito il dramma del suo passato?

Ricordo molto bene il nostro primo incontro. Ero su un treno all’inizio di una vacanza che dal Canada mi portava nel nord della Scozia. Fuori dal finestrino ho visto un uomo, non particolarmente ben vestito, e ho sentito che avrebbe avuto un significato particolare nella mia vita. Per questo non mi sono sorpresa quando è arrivato da me. Ad attirarlo è stato un libro di mappe che avevo tra le mani, anche se all’epoca ero piuttosto carina (ride, ndr).

È stato lui ad attaccare bottone?

Sì. Invece nel film è Nicole Kidman a farlo. Eric mi ha raccontato la storia di tutti i posti da cui passavamo, poi mi ha chiesto di cenare con lui a Edimburgo, al mio ritorno. Dopo quell’incontro ce ne sono stati altri: due anni dopo ci siamo sposati.

E lei ha scoperto gli incubi notturni.

Sì. Eric urlava nel sonno, era evidente che qualcosa di tremendo lo turbava: a me aveva solo accennato di essere stato in guerra in Oriente. Un giorno siamo andati insieme in banca per aprire un conto, erano gli inizi degli anni Ottanta. Il direttore era seduto alla scrivania davanti a noi, ed Eric non riuscì a rispondere a nessuna delle pur semplici domande che quello ci poneva. Fu molto imbarazzante. Dopo qualche tempo capii che quella scrivania gli creava forti flash-back.

Cos’altro ha capito, da sola?

Una sera eravamo al ristorante ed entrarono alcuni turisti giapponesi. Eric volle andarsene subito. Fu lì che collegai qualcosa di molto grave nei suoi disturbi: i giapponesi, la Seconda guerra mondiale… Ero sorpresa che nessuno avesse messo insieme quei tasselli prima di me.

Non faceva mai domande dirette a Eric?

No. Non sapevo nemmeno quali fargli perchè all’epoca della guerra ero una bambina, ma ero sicura che se mi fossi avvicinata troppo a quello che lo turbava si sarebbe chiuso definitivamente. Del resto, è capitato che non parlasse per una settimana intera.

Quello che descrive non è un matrimonio normale: come ha fatto a non disperare?

Ero molto ferita. Eric diceva di amarmi, ma mi chiedevo come potesse farlo. Poi lessi sul Daily Telegraph di un dottore che all’ospedale di Liverpool stava facendo ricerche psicologiche sulle vittime delle torture. Lo incontrai. Il medico visitò Eric al Royal Air force Hospital che all’epoca era specializzato in quel tipo di patologie e adesso non esiste più. Eric nel frattempo aveva capito di dover far qualcosa per uscire dal suo stato.

Come iniziò a farlo?

Lo psichiatra gli chiese di mettere per iscritto la sua storia, in modo da non dover rispondere a voce alle domande: fu il primo raggio di luce della storia.

Suo marito aveva già scritto qualcosa, però.

Sì. Appena finita la guerra, nelle 6 settimane di nave che lo riportavano a casa dall’India, aveva buttato giù quella che sarebbe diventata la parte centrale del libro. Quelle pagine però erano rimaste nascoste in soffitta per 50 anni, fino al giorno in cui lo psichiatra gli suggerì la scrittura come terapia. Gli ci è voluto molto tempo, ma l’editor che per la Random House ha seguito il suo libro lo ha aiutato moltissimo. Quando terminò di scrivere, Eric scoprì che il signor Nagase, che al campo era l’interprete durante gli interrogatori e le torture, era vivo.

Nagase a sua volta aveva scritto un libro sugli orrori della guerra.

Sì: s’intitola Crosses and Tigers. Nagase però non sapeva né che Eric fosse ancora vivo, né che ne avesse una copia del suo libro. Aveva visto torturare mio marito e pensava fosse morto. In un passaggio del suo libro scrive che un giorno, trovandosi in un cimitero, aveva sentito di essere stato perdonato per tutti gli orrori commessi. Leggendo quelle parole mi infuriai e chiesi a Eric il permesso di scrivergli.

Che cosa gli scrisse?

Semplice: «Come può pensare di essere stato perdonato se mio marito non lo ha fatto?». A quel punto loro due hanno iniziato a scriversi direttamente. La svolta, però, fu convincere Eric a incontrare Nagase in Oriente. Per me quella decisione si risolse in uno stress micidiale: fino alla fine non si sapeva davvero che cosa avrebbe fatto Eric… La notte precedente l’incontro era terrorizzato all’idea. Pensava ad atti di violenza, temeva perfino che l’istinto di ucciderlo avrebbe potuto prevalere.

E invece?

Quando si incontrarono, Nagase disse che era pronto a morire, ma prima voleva il perdono perché era diventato buddista. Tutto andò bene. La fondazione medica dell’ospedale aveva proposto che un piccolo team venisse con noi per filmare quello che sarebbe accaduto a scopi educativi: avere tre uomini con noi mi fece sentire protetta.

Ma che cosa accadde durante l’incontro?

L’incontro fu lunghissimo. Eric e Nagase trascorsero insieme tre settimane, Eri mi disse di avere provato compassione per il suo torturatore e di averlo veramente perdonato. Mi disse: «Se lo avessi ucciso avrei potuto uccidere tutti i giapponesi, dopo di lui, ma quell’odio non mi avrebbe aiutato. Qualcuno deve iniziare a perdonare, quindi lo faccio io». (a questo punto la donna si commuove, ndr). Eric e Nagase divennero amici a un livello difficile da spiegare a parole: non si sono più persi di vista fino alla morte di mio marito.

Cos’aveva Eric di così speciale?

La capacità di sopravvivere gli veniva dal fatto di essere uno scozzese del Nord: la sua famiglia era di Shutter Island, un luogo duro per il clima e la natura. Questa però è una lettura superficiale, non vorrei sembrare stupida: in realtà mi sono convinta che io ed Eric siamo diventati lo strumento per esprimere qualcosa. La nostra vicenda è diventato più grande di noi, credo che questo successo serva ad aiutare altre persone.

Per questo avete dato il permesso al film? Ci sono voluti 15 anni, e lei è stata l’unica a non aver mai perso la fiducia…

Questa storia contiene un messaggio che può essere di conforto non solo a chi ancora viene torturato fisicamente, e magari scappa dall’Iraq e dall’Afganistan o subisce la stessa sorte in Africa. Abbiamo ricevuto lettere incredibili. Una quindicenne che era scappata di casa ci ha scritto che dopo aver letto il libro aveva deciso di tornare dai suoi genitori e di riprovare a parlare con loro. Sono arrivate lettere anche da chi stava divorziando e ha deciso di parlare al partner in un altro modo.

Eric era felice del film?

Un aneddoto può fare capire che tipo era mio marito. Credeva a qualsiasi cosa dicesse il Telegraph e una mattina leggendo il giornale vide in prima pagina la foto di Colin Firth e di sua moglie. Disse: «Credo che abbiano finalmente trovato qualcuno di famoso per interpretarci».

Ma è vero che quando lei ha visto il film ha detto che non era contenta del look della Kidman?

Oh, lei è bionda, ha gli occhi blu ed è stata brava. Ma per il suo guardaroba non mi hanno consultata, e in effetti da giovane mi vestivo molto meglio di lei.

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Colin Firth e la vera Patricia Lomax alla premiere europea, a San Sebastian

qui il link al mio articolo su Panorama

©Riproduzione riservata

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