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~ Interviste illuminanti

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Jeremy Irvine, «Pattinson, fatti più in là»

23 martedì Set 2014

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cinema, Colin Firth, Cristiana Allievi, Fallen, Grazia, Jeremy Irvine, Leonardo DiCaprio, Robert Pattinson, The railway men, Toronto

 Ha solo 24 anni ma ha già Hollywood ai suoi piedi. E nessuna intenzione di diventare un sex symbol. Perché ha capito cosa regala la vera felicità…

936full-jeremy-irvine«Ero a un passo dal mollare tutto e andare a lavorare con mio padre. Quando ti senti dire cinque no a settimana, per due anni, non vedi più un motivo per insistere…». Reduce da Toronto per l’anteprima di The reach, seduto su una sedia, gambe allungate in avanti, parla guardandomi con due occhi blu grandi e sereni. Indossa una giacca in pelle nera e jeans a fasciargli i quadricipiti, ed è educatissimo. Non meraviglia, considerando che è cresciuto a Gamlingay, nella campagna dello Cambridgeshire, con padre ingegnere a madre politica, e forse anche grazie a questo oggi Jeremy Irvine ha davanti a sé uno scenario molto diverso da quello dei suoi esordi: Hollywood lo corteggia, lo stesso dicasi per gli stilisti e i registi. Perché dopo la serie di porte in faccia è arrivato Steven Spielberg a sceglierlo come protagonista di War Horse, un tale successo al box office da trasformarlo istantaneamente da signor nessuno in star. Da lì in poi ha fatto solo scelte intelligenti, come non montarsi la testa e scansare le offerte di franchise per teeneger, cosa che ti riesce solo se hai un mare di fiducia dalla tua. Dopo il successo di Now is good, dall’11 settembre è in Le due vie del destino, di Jonathan Teplitzky e, prossimamente, in quel The woman in Black- Angel of death in cui lo aveva preceduto Daniel Radcliffe. Guardando più in là, il 2015 sarà il suo anno, come protagonista di Fallen, primo capitolo della nuova adult saga scritta da Lauren Kate che lo impegnerà per ben cinque film. Insomma, ho davanti a me un bello che porta i capelli alla James Dean ed è il prossimo Robert Pattinson in circolazione. A me il compito di verificarne la stoffa…

 In Le due vie del destino interpreta la parte di Colin Firth da giovane, e divide il film con lui e la Kidman. Alla sua età ha già lavorato con Ralph Fiennes, Helena Bonham Carter, che effetto le fa volare così alto? «Condividere il set con star di questo calibro mi ha insegnato presto a lasciare da parte pensieri del tipo “sono solo il nuovo ragazzino…”, se ti fai intimorire sei fregato. Ma se penso che Colin, un premio Oscar, mi ha invitato a casa sua a Londra per preparare il personaggio insieme, ancora non ci credo. È un uomo appassionato e alla mano, e ha un gran senso dell’umorismo».

 Due inglesi con un certo aplomb si influenzano anche nello stile? Sul red carpet di Londra, insieme, eravate scintillanti… «Lì eravamo elegantissimi, ma nella vita di tutti i giorni sono più casual di Colin, mi sento bene con skinny jeans e t-shirts e mi vesto più o meno sempre così. Ho anche una collezione di giacche di pelle, tutte nere. Mia madre mi prende in giro, non capisce perché le scelgo tutte uguali. La risposta è che è il colore più facile da indossare, come mi hanno insegnato Dolce & Gabbana».

Con War House Spielberg l’ha trasformata in una star da un giorno all’altro, ma il suo primo ruolo da attore lo ricorda? «Impossibile dimenticarlo. Gli amici della compagnia teatrale shakespeariana mi dicevano che ero perfetto per fare l’albero… (ride, ndr). Di fatto è quello che è successo: la mia prima volta in palcoscenico è stata con due rami addosso».

La molla che l’ha fatta iniziare? «Un grande insegnante di teatro mi ha detto che la scuola di recitazione sarebbe stata pesante come l’addestramento militare. Non so dirle perchè, ma proprio questo mi ha attratto».

Infatti a 19 anni si è arruolato nell’esercito britannico, ma poi è stato rifiutato perché non ha dichiarato di essere diabetico. «(ride, ndr) Ho avuto la tipica fase di ribellione di un teenager, me lo spiego così. Ma tornando all’esercito, per fortuna la mia vita ha preso un’altra direzione».

Lei ha cambiato nome prendendo quello di suo nonno, perché? «C’era già un Jeremy Smith all’actors union, e siccome devi averne uno unico, mi hanno chiesto di sceglierne un altro».

Sua madre è una politica – e tra le altre cose si occupa di ridare una casa ai senzatetto – e suo padre è un ingegnere. L’hanno presa sul serio vedendola in scena, a fare l’albero? «Per due anni nessuno mi ha fatto lavorare, venivo respinto cinque volte a settimana. Il dubbio di aver buttato via il mio tempo mi è venuto, confesso. Stavo per mollare, diciamo per trovarmi un lavoro vero».

(continua…)

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Intervista esclusiva per  Grazia 

©Riproduzione riservata

Patricia Lomax, «Vi racconto la vera storia di The Railway Man»

23 martedì Set 2014

Posted by cristianaallievi in cinema

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Tag

cinema, Colin Firth, Cristiana Allievi, Nicole Kidman, Panorama, Patricia Lomax, The railway men

Finalmente nelle nostre sale, con il nome di Le due vie del destino, la pellicola ispirata alla biografia di Eric Lomax, un ufficiale britannico rapito dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale: intervista escusiva alla vedova

Colin Firth e Nicole Kidman in The railway men

Questa storia comincia nella Seconda guerra mondiale ed è talmente strepitosa da avere meritato un libro e un film. Il protagonista è Eric Lomax, un ufficiale britannico. Nel 1942 viene catturato dai giapponesi a Singapore e rinchiuso in un campo di concentramento in Thailandia sulla linea Burma-Siam, nota come «ferrovia della morte» per i prigionieri costretti a lavorarci. Quando le guardie gli trovano una radio ricevente fabbricata a mano e una mappa, Eric viene sottoposto a interrogatori violentissimi e a torture abominevoli. Poi la guerra finisce. Lomax si ritira in Scozia e sposa Patricia, che ignora il suo passato.

Ma la sua vita è segnata per sempre. L’uomo alterna incubi notturni a lunghi silenzi, e per la moglie si trasforma in un mistero da decifrare. Patricia non riesce a stabilire un vero contatto con Eric, né a placare l’angoscia che gli squassa l’anima, fino al giorno in cui scopre che Takashi Nagase, uno dei torturatori del marito e interprete inglese nel campo thailandese, è vivo e lavora come guida per i turisti che visitano i templi dedicati al Buddha. Da quel momento la vita di Eric e di Patricia cambierà per sempre: e basterà un gesto per sanare un passato insopportabile.

Eric Loman è morto nel 2012 all’età di 93 anni. Alla fine degli anni Novanta ha pubblicato un libro autobiografico, The railway men, che è diventato un bestseller. Ci sono voluti 15 anni e ora la sua vita è diventata anche un film con lo stesso titolo, diretto da Jonathan Teplitzky e interpretato da Colin Firth e Nicole Kidman. Il film è uscito lo scorso maggio in America, arriverà in Italia nel 2014. Patricia Lomax, 74 anni portati splendidamente, racconta in esclusiva a Panorama la storia di suo marito.

Il film The railway men è la trasposizione fedele della sua storia e di quella di Eric?

Lo è quasi in tutte le sue parti, anche se alcuni passaggi sono stati sintetizzati per mantenere un certo ritmo. Rispetto al libro la parte delle torture è molto contenuta. Va detto che un medico che ha esaminato Eric aveva detto che tra le spalle e le ginocchia mio marito non aveva un solo punto della pelle che non fosse stata incisa dalle ferite, dalle torture. Certe cose si riesce a leggerle, ma non credo sarebbe sopportabile vederle al cinema.

Quando ha incontrato Eric nulla le ha suggerito il dramma del suo passato?

Ricordo molto bene il nostro primo incontro. Ero su un treno all’inizio di una vacanza che dal Canada mi portava nel nord della Scozia. Fuori dal finestrino ho visto un uomo, non particolarmente ben vestito, e ho sentito che avrebbe avuto un significato particolare nella mia vita. Per questo non mi sono sorpresa quando è arrivato da me. Ad attirarlo è stato un libro di mappe che avevo tra le mani, anche se all’epoca ero piuttosto carina (ride, ndr).

È stato lui ad attaccare bottone?

Sì. Invece nel film è Nicole Kidman a farlo. Eric mi ha raccontato la storia di tutti i posti da cui passavamo, poi mi ha chiesto di cenare con lui a Edimburgo, al mio ritorno. Dopo quell’incontro ce ne sono stati altri: due anni dopo ci siamo sposati.

E lei ha scoperto gli incubi notturni.

Sì. Eric urlava nel sonno, era evidente che qualcosa di tremendo lo turbava: a me aveva solo accennato di essere stato in guerra in Oriente. Un giorno siamo andati insieme in banca per aprire un conto, erano gli inizi degli anni Ottanta. Il direttore era seduto alla scrivania davanti a noi, ed Eric non riuscì a rispondere a nessuna delle pur semplici domande che quello ci poneva. Fu molto imbarazzante. Dopo qualche tempo capii che quella scrivania gli creava forti flash-back.

Cos’altro ha capito, da sola?

Una sera eravamo al ristorante ed entrarono alcuni turisti giapponesi. Eric volle andarsene subito. Fu lì che collegai qualcosa di molto grave nei suoi disturbi: i giapponesi, la Seconda guerra mondiale… Ero sorpresa che nessuno avesse messo insieme quei tasselli prima di me.

Non faceva mai domande dirette a Eric?

No. Non sapevo nemmeno quali fargli perchè all’epoca della guerra ero una bambina, ma ero sicura che se mi fossi avvicinata troppo a quello che lo turbava si sarebbe chiuso definitivamente. Del resto, è capitato che non parlasse per una settimana intera.

Quello che descrive non è un matrimonio normale: come ha fatto a non disperare?

Ero molto ferita. Eric diceva di amarmi, ma mi chiedevo come potesse farlo. Poi lessi sul Daily Telegraph di un dottore che all’ospedale di Liverpool stava facendo ricerche psicologiche sulle vittime delle torture. Lo incontrai. Il medico visitò Eric al Royal Air force Hospital che all’epoca era specializzato in quel tipo di patologie e adesso non esiste più. Eric nel frattempo aveva capito di dover far qualcosa per uscire dal suo stato.

Come iniziò a farlo?

Lo psichiatra gli chiese di mettere per iscritto la sua storia, in modo da non dover rispondere a voce alle domande: fu il primo raggio di luce della storia.

Suo marito aveva già scritto qualcosa, però.

Sì. Appena finita la guerra, nelle 6 settimane di nave che lo riportavano a casa dall’India, aveva buttato giù quella che sarebbe diventata la parte centrale del libro. Quelle pagine però erano rimaste nascoste in soffitta per 50 anni, fino al giorno in cui lo psichiatra gli suggerì la scrittura come terapia. Gli ci è voluto molto tempo, ma l’editor che per la Random House ha seguito il suo libro lo ha aiutato moltissimo. Quando terminò di scrivere, Eric scoprì che il signor Nagase, che al campo era l’interprete durante gli interrogatori e le torture, era vivo.

Nagase a sua volta aveva scritto un libro sugli orrori della guerra.

Sì: s’intitola Crosses and Tigers. Nagase però non sapeva né che Eric fosse ancora vivo, né che ne avesse una copia del suo libro. Aveva visto torturare mio marito e pensava fosse morto. In un passaggio del suo libro scrive che un giorno, trovandosi in un cimitero, aveva sentito di essere stato perdonato per tutti gli orrori commessi. Leggendo quelle parole mi infuriai e chiesi a Eric il permesso di scrivergli.

Che cosa gli scrisse?

Semplice: «Come può pensare di essere stato perdonato se mio marito non lo ha fatto?». A quel punto loro due hanno iniziato a scriversi direttamente. La svolta, però, fu convincere Eric a incontrare Nagase in Oriente. Per me quella decisione si risolse in uno stress micidiale: fino alla fine non si sapeva davvero che cosa avrebbe fatto Eric… La notte precedente l’incontro era terrorizzato all’idea. Pensava ad atti di violenza, temeva perfino che l’istinto di ucciderlo avrebbe potuto prevalere.

E invece?

Quando si incontrarono, Nagase disse che era pronto a morire, ma prima voleva il perdono perché era diventato buddista. Tutto andò bene. La fondazione medica dell’ospedale aveva proposto che un piccolo team venisse con noi per filmare quello che sarebbe accaduto a scopi educativi: avere tre uomini con noi mi fece sentire protetta.

Ma che cosa accadde durante l’incontro?

L’incontro fu lunghissimo. Eric e Nagase trascorsero insieme tre settimane, Eri mi disse di avere provato compassione per il suo torturatore e di averlo veramente perdonato. Mi disse: «Se lo avessi ucciso avrei potuto uccidere tutti i giapponesi, dopo di lui, ma quell’odio non mi avrebbe aiutato. Qualcuno deve iniziare a perdonare, quindi lo faccio io». (a questo punto la donna si commuove, ndr). Eric e Nagase divennero amici a un livello difficile da spiegare a parole: non si sono più persi di vista fino alla morte di mio marito.

Cos’aveva Eric di così speciale?

La capacità di sopravvivere gli veniva dal fatto di essere uno scozzese del Nord: la sua famiglia era di Shutter Island, un luogo duro per il clima e la natura. Questa però è una lettura superficiale, non vorrei sembrare stupida: in realtà mi sono convinta che io ed Eric siamo diventati lo strumento per esprimere qualcosa. La nostra vicenda è diventato più grande di noi, credo che questo successo serva ad aiutare altre persone.

Per questo avete dato il permesso al film? Ci sono voluti 15 anni, e lei è stata l’unica a non aver mai perso la fiducia…

Questa storia contiene un messaggio che può essere di conforto non solo a chi ancora viene torturato fisicamente, e magari scappa dall’Iraq e dall’Afganistan o subisce la stessa sorte in Africa. Abbiamo ricevuto lettere incredibili. Una quindicenne che era scappata di casa ci ha scritto che dopo aver letto il libro aveva deciso di tornare dai suoi genitori e di riprovare a parlare con loro. Sono arrivate lettere anche da chi stava divorziando e ha deciso di parlare al partner in un altro modo.

Eric era felice del film?

Un aneddoto può fare capire che tipo era mio marito. Credeva a qualsiasi cosa dicesse il Telegraph e una mattina leggendo il giornale vide in prima pagina la foto di Colin Firth e di sua moglie. Disse: «Credo che abbiano finalmente trovato qualcuno di famoso per interpretarci».

Ma è vero che quando lei ha visto il film ha detto che non era contenta del look della Kidman?

Oh, lei è bionda, ha gli occhi blu ed è stata brava. Ma per il suo guardaroba non mi hanno consultata, e in effetti da giovane mi vestivo molto meglio di lei.

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Colin Firth e la vera Patricia Lomax alla premiere europea, a San Sebastian

qui il link al mio articolo su Panorama

©Riproduzione riservata

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