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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi tag: Netflix

Andie MacDowell, «Grigia e sexy, perché no?»

12 domenica Giu 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, Cannes, cinema, Cultura, Miti, Netflix

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Andie Mac Dowell, Cairo Editore, Cristiana Allievi, donne, F magazine, Hugh Grant, interviste illuminanti, liberazione, Maid, MArgaret Qualley, Netflix, Quattro matrimoni e un funerale, Sesso bugie e videotape

«GLI UOMONI SONO LIBERI DI INVECCHIARE. VOGLIO ANCH’IO IL LORO POTERE, SENTIRMI DESIDERABILE COME LORO, NEL MIO CORO E ALLA MIA ETA’». PER QUESTO L’ICONA ANNI 90 HA DECISO DI NON TINGERSI PIU’. E DI INSEGNARE ALLE FIGLIE, CON L’ESEMPIO, CHE IL GIUDIZIO DEGLI ALTRI NON CONTA

di Cristiana Allievi

L’attrice americana Andie MacDowell, 64 ani. Fra i suoi film più famosi Sesso bugie e videotape e Quattro matrimoni e un funerale. Ha ricevuto 4 candidature ai Golden Globe per la serie tv Maid (Netflix).

Nella sua stanza d’albergo sulla Riviera francese, in tailleur dal taglio maschile color rosa acceso, è semplicemente magnifica. Mi chiede se sono italiana, e capisco che la cosa le fa piacere. Ha un’energia palpabile che non esplode verso l’esterno: è forte e quieta allo stesso tempo.

Musa dalla bellezza eterea che ha ispirato classici degli anni Novanta come Quattro matrimoni e un funerale, con Hugh Grant, e Sesso, bugie e videotape, il film rivoluzionario di Steven Soderberg che vinse la Palma d’oro a Cannes, Andie MacDowell è una ex modella che è sempre stata radicata rispetto al mondo in cui ha vissuto. Quando era ai vertici del successo si è trasferita in Montana a crescere i tre figli avuti con l’ex modello e marito Paul Qualley. Di questi le due femmine, cresciute facendo danza e teatro sin da bambine, hanno seguito le orme della mamma che, dopo il divorzio dal marito, ha sempre cercato di bilanciare le aspirazioni professionali con la vita in famiglia. Ed è stata premiata, perché finalmente le due cose si sono incontrate in Maid, la serie tv Netflix di grande successo ispirata alle memorie di Stephanie Land. Per interpretare Paula (madre di finzione della sua figlia vera, Margaret), una donna bipolare  “non diagnosticata”, si è ispirata alla sua di madre,  mentalmente instabile e malata di alcolismo. E poco prima del debutto della serie ci aveva già stupiti presentandosi a Cannes con quei meravigliosi riccioli grigi naturali che hanno fatto scalpore e la dicono lunga sulla donna che oggi, a 64 anni, è felicemente single a Los Angeles (dopo un secondo breve matrimonio, finito nel 2004), mentre Margaret sta per sposarsi con il produttore musicale  Jack Antonoff un anno dopo il fidanzamento.

Come si fa ad essere testimonial di un brand leader mondiale nel colore per capelli, smettendo di tingersi? «Le donne possono scegliere. Le mie sorelle si tingeranno finché non lasceranno questo pianeta, lo so per certo, e questa è un’opzione. Ma c’è anche quella di cambiare, e molte donne vogliono essere viste come gli uomini, a cui è concesso di invecchiare come sono».

Sta parlando di fare scelte chiare? «Non tingersi è come dichiarare che sì, sono più anziana, e mi va bene così.  Recentemente ho visto la foto di un magnifico attore, non dirò il nome.  È molto bello, accanto  a lui aveva una moglie bellissima, di 21 anni più giovane. Ecco,

voglio sentire lo stesso potere che sente quell’uomo, voglio essere a mio agio come lui, sentirmi sexy come lo è lui, nel mio corpo e alla mia età».

Occorre energia, per questo. «Ne ho tantissima, di solito quando sono pronta per uscire gli uomini sono distrutti sul divano!».  

Come fa? «Dormo molto, per me è importantissimo».

Sua figlia Margaret è un’attrice di grande talento, cosa le ha passato del suo mestiere? «Credo che Margaret sia un individuo, non voglio paragonarla a me. Se c’è qualcosa che ho fatto per lei è stata essere una madre, e questo non ha niente a che fare con la recitazione».

Considera il suo lavoro principale quello di madre, quindi? «Esatto. Le ho insegnato ad amarsi, ad essere libera e a non avere restrizioni. È stata una ballerina e sono stata attenta a che avesse i migliori insegnanti e a circondarla di persone che potessero darle di più di quello che ho avuto io alla sua età».

(continua…)

Intervista esclusiva pubblicata su F del 14 giugno 2022

@Riproduzione riservata

Sotto il sole c’è Lorenzo (Zurzolo)

20 lunedì Lug 2020

Posted by cristianaallievi in cinema, Netflix, Personaggi

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Baby, D La repubblica, Film, interviste illuminanti, Lorenzo Zurzolo, Netflix, Sotto il sole di Riccione

DALLA SERIE BABY AL FILM DELL’ESTATE IN STREAMING: ARRIVA LA STAGIONE DI ZURZOLO

di Cristiana Allievi

Lorenzo Zurzolo, 20 anni, attore (photo courtesy of Netflix)

Avere 740mila follower non è un gioco da ragazzi. Ma se sei della generazione che sa come mostrarsi, come usare i social e come parlare alla stampa, tutto è possibile. Specie se finisci in una serie tv proiettata in tutto il mondo, com’è successo a lui in Baby, la storia (vera) fatta di licei e prostituzione giovanile nella Roma bene che gli ha regalato la fama internazionale. «Avevo sette anni quando mi presero al primo provino. Eravamo a  Sabaudia, con Totti. Ci ha messo 37 ciak a dire life is now, con il coach inglese che urlava. Ma è di una simpatia incredibile, e io sono romanista, è stata una delle giornate più belle del mondo e ho detto a mia madre che volevo continuare». Così è stato, con Una famiglia perfetta di Paolo Genovese, poi qualche pubblicità e spettacoli teatrali, fino alla serie tv Questo è il mio paese. «All’epoca mi fermavano per strada, ma appena finiva la serie le fan page toglievano il mio nome. Con Baby, e 190 pesi che ti seguono nel mondo, è stato diverso». Madre pierre che lo ha accompagnato nel mondo dello spettacolo, padre giornalista radio che lo vorrebbe all’Università, Lorenzo Zurzolo dall’1 luglio sarà nel film dell’estate di Netflix, Sotto il sole di Riccione. Primo, riuscitissimo, lungometraggio dei registi di videoclip YouNuts! Un colpo di genio dare a lui, con due splendidi occhi chiari, la parte del non vedente, come  affidare la colonna sonora a Tommaso Paradiso, e avere il tormentone estivo assicurato. «Fanno immagini bellissime e sono molto diretti, ti dicono le cose come le direbbe un ragazzo della mia età. Se assomiglio al personaggio di Vincenzo? Lui è sincero ma tende a tenere tutto dentro. Io preferisco parlare subito, prima che sorgano problemi».

(continua…)

Intervista pubblicata su D La Repubblica del 18 luglio 2020

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Cate Blanchett: «Nella crisi ho capito quanto siamo forti»

10 venerdì Lug 2020

Posted by cristianaallievi in cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Netflix, Serie tv

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Australia, Cate Blanchett, cinema, Grazia, interviste illuminanti, Netflix, Presidente di giuria, Silvia Grilli, Stateless, Venezia 77

di Cristiana Allievi

Il due volte premio Oscar Cate Blanchett nella serie STATELESS, da lei scritta, prodotta e interpretata. Qui accanto a Dominic West (COURTESY OF NETFLIX © 2020).

IN SETTEMBRE GUIDERA’ LA GIURIA DELLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA, IL PRIMO FESTIVAL DAL VIVO DOPO I MESI DI QUARANTENA. MA CATE BLANCHETT È ANCHE AUTRICE E PRODUTTRICE DI STATELESS, LA SERIE CHE DENUNCIA IL LATO OSCURO DELLA POLITICA SULL’IMMIGRAZIONE IN AUSTRALIA. «IL MONDO VIVE VICENDE TERRIBILI, MA DOBBIAMO SUPERARLE TUTTI INSIEME RITROVANDO LA NOSTRA UMANITA’».

Tempo fa durante un’intervista a Cate Blanchett, per farle un complimento,  mi confusi con le parole inglesi che dovevo usare. Le volevo dire che ero stata glaciale in un certo ruolo, e invece, usai la parola “gelato”. Al mio svarione seguì una risata improvvisa, sonora e generosa, e quell’episodio mi fece capire di più su Blanchett, e quanto sia genuina, diretta e passionale. Oggi, durante la nostra video intervista, scopro un aspetto diverso, quello più profondo e impegnato, della futura Presidente di giuria della Mostra  del cinema di Venezia, in partenza il 2 settembre al Lido. Con il marito Andrew Upton, drammaturgo, sceneggiatore e regista australiano, ha scritto e  prodotto una serie tv di cui Cate è anche interprete, dal 9 luglio su Netflix. È un progetto basato su vicende vere in cui Cate esce allo scoperto in prima persona, senza filtri, esponendosi su delicate questioni sociali e politiche. Ci ha lavorato per cinque anni, con persone fidatissime, come la producer Elise McCredie, compagna di liceo e di Università. hanno ambientato la serie all’inizio del 2000, dopo l’attacco alle Torri gemelle. «Era il momento in cui arrivavano in Australia molti barconi e molti rifugiati dall’Indonesia. Il governo di allora ha impostato delle specie di campi profughi  molto isolati, spesso nel deserto. Di fatto erano prigioni in cui le persone venivano rinchiuse finché il loro stato di rifugiati veniva accettato, o meno. Ma questo processo poteva durare anche anni, quindi parliamo di detenzione indefinita per molti esseri umani». Per raccontare questa piaga hanno scelto la storia di una hostess fragile che finisce manipolata da una setta (la splendida Yvonne Strahovski de Il diario dell’ancella, ndr), un uomo arabo che passa la vita a raccogliere i mezzi necessari per portare la famiglia  dall’Afganistan in una terra libera, su un barcone. E un padre che ha bisogno di lavorare per mantenere tre figli piccoli e la moglie. Per vie diverse tutti questi personaggi si ritrovano in un centro di detenzione, e capiscono presto di essere prigionieri e di non avere diritti, nonostante non abbiano commesso reati. Vengono trattati come criminali senza esserlo, quando, invece, la legge prevede che chiedano il diritto di asilo.

(…continua)

L’intervista integrale a Cate Blanchett è sul numero di Grazia del 16 Luglio 2020

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Il carisma di monsieur Jean Reno

08 lunedì Giu 2020

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Personaggi

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attore francese, Da 5 Bloods, I fiumi di porpora, interviste illuminanti, Jean Reno, Mission Impossible, Netflix, Ronin, Spike Lee

AL CINEMA HA SEMPRE RUOLI DA CATTIVO. NON FA ECCEZIONE L’ULTIMO FILM DI SPIKE LEE. MA I SUOI BAD GUYS SONO SPECIALI: «PERCHE’ LASCIANO INTRAVEDERE UN’ANIMA»

Jean Reno in una foto di William Lacamontie (courtesy of D La Repubblica)

di Cristiana Allievi

C’è una scena di un film in cui Jean Reno è un agente di polizia a New York e storce il naso davanti alla ciambella con caffè lungo offertagli nel furgoncino di spionaggio, a pochi passi dal suo target. La fissa, poi chiede al giovane agente di turno perché non gli ha portato un croissant. Una metafora del suo rapporto con la lingua inglese: la tollera, ma preferirebbe il francese.  E nonostante viva a Manhattan, i suoi migliori amici lì sono “made in France”. Dev’essere parte costitutiva di un dna molto forte, se anche Spike Lee, per la sua prima regia firmata Netflix, che vedremo dal 12 giugno, lo ha voluto nei panni di un francese che vive in Vietnam. È Da 5 Bloods – Come  fratelli, film che senza Covid 19 avremmo visto al settantatreesimo Festival di Cannes. Il regista premio Oscar racconta la storia di quattro veterani afroamericani che hanno condiviso l’incubo del Vietnam e tornano in quei luoghi anni dopo, a cercare un tesoro sepolto all’epoca e i resti del loro capo caduto in guerra. Al ventiquattresimo minuto arriva in scena Jean Reno, l’uomo dei traffici che ha il compito di trasformare l’oro in questione in cash. E come accadeva in Godzilla  con il croissant, anche qui il suo essere francese viene subito rimarcato quando uno dei veterani gli spiega che se non fosse stato per l’esercito americano, oggi lui parlerebbe tedesco e mangerebbe crauti invece di excargot.

Ora, davanti a noi, è vestito di lino bianco, un look che ricorda quel giorno del 2006 in cui, testimone Nicolas Sarkozy, sposò la modella franco-americana Zofia Borucka, madre degli ultimi due dei suoi sei figli. Oggi come allora la famiglia si trova nel sud della Francia, meta scelta per il lockdown. «Siamo a Les Baux de Provence, in Camargue. Ci siamo trasferiti qui e siamo stati molto felici della scelta. Questo è il luogo per la famiglia e gli amici, qui facciamo l’olio e soprattutto stiamo in pace. È un luogo dove dedicarci al buon cibo e a una verità eterna. Perché come dicono, “gli alberi di ulivo sono alberi che non muoiono mai”, infatti sono i miei preferiti».

Jean Reno in effetti è una specie di ulivo del cinema.  Ha circa ottanta film all’attivo, se si escludono le serie tv e i corti, e dopo aver sbancato i botteghini a casa sua, negli Usa e persino in Italia, a 72 anni vive al ritmo di un titolo in uscita dopo l’altra.

Tratti distintivi, quello sguardo che tiene lo spettatore inchiodato allo schermo, a prescindere,  e un’abilità tutta sua nel ritrarre i tipi loschi che gli toccano in sorte, forse anche grazie a una stazza importante. Delinquenti in cui si nasconde sempre un’anima,  vedere alla voce dello spietato sicario di Leon che si ammorbidisce grazie all’incontro di una dodicenne Natalie Portman.

In Italia lo abbiamo visto di recente nell’ottimo poliziesco di Donato Carrisi, La ragazza nella nebbia, in un luogo non meglio identificato delle Alpi accanto ad Alessio Boni e Toni Servillo. Dal 12 giugno sarà in Vietnam, in un film che alterna un filone storico, con le scene di guerra, le splendide immagini d’archivio con i discorsi di Muhammad Alì e Malcom X e il volto del diciottenne Milton Olive III, eroe afro di guerra che a soli 18 anni ha perso la vita soffocando una granata. In un continuo avanti e indietro con la finzione ambientata ai giorni nostri, e  Trump che fa capolino. Spike riesce a ricordare allo spettatore le stragi e le deportazioni dei neri, che sono l’11 per cento della popolazione d’America, ma che in Vietnam schizzavano a un 30 per cento destinato sempre alle prime file, quindi alla morte. Lo fa in tono lieve, come riesce soltanto a lui, mostrando in modo arguto una lotta di tendenze nella natura umana e soprattutto l’immoralità di quella come di tutte le guerra.  «Sono un francese che vive in Vietnam, è stato facile assegnarmi quel personaggio della storia», racconta Reno. «Se mi ha detto che mi voleva perché sono francese? Non si dice una cosa simile a un attore, ma solo  “ti voglio nel mio film perché sei il migliore”». Segue fragorosa risata, con l’ammissione di non sapere se si tratta di una vicenda completamente inventata o se raccoglie pezzi di vite di persone veramente esistite «Spike insegna cinema alla New York University, io vivo in zona e mi ha chiesto di incontrarci. È un regista con un punto di vista molto forte, sa esattamente cosa vuole, lavorare con vero professionista come lui è facile. E conoscendo la sua filmografia, che difende sempre i neri in America, non mi ha sorpreso sentirmi raccontare una storia che ruota intorno a un gruppo di neri che vanno in guerra. È un modo per mostrare che i neri sono esseri umani, hanno una vita ed emozioni identiche a quelle di tutti noi».

(continua…)

Intervista integrale su D la Repubblica del 6/6/2020

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Luke Evans: «Non dimentico mai chi sono e da dove vengo»

26 venerdì Lug 2019

Posted by cristianaallievi in cinema, Lusso, Personaggi, Televisione

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Cristiana Allievi, I tre moschettieri, interviste, Lo hobbit, Luke Evans, Murder Mistery, Netflix, The alienist

NATO DA UNA FAMIGLIA OPERAIA, SI DIVERTE A INTERPRETARE UOMINI RICCHI. COME IN MURDER MYSTERY, IN CUI È UN VISCONTE BILLIONARIO CHE GIRA IN ROLLS-ROYCE. «TUTTI MI RIPETONO CHE SONO FANTASTICO MA NON È VERO: IL SUCCESSO NON STABILISCE CHI SEI»., DICE L’ATTORE. ABITUATO A RAGIONARE CON LA SUA TESTA, NON HA PERSO SEX APPEAL NEANCHE DOPO AVER FATTO OUTING. PER CAPIRE IL MOTIVO BASTA LEGGERE COSA RACCONTA

di Cristiana Allievi

Tutte le volte che ho incontrato Luke Evans mi ha fatto la stessa impressione. Parlando di teatro e di musical, ma anche del Gaston che ha interpretato in La bella e la bestia, dell’Aramis de I tre moschettieri o dell’arciere di Lo Hobbit, ho sempre pensato che fosse intelligente e generoso sopra la media. E anche con accanto una publicist che mi ricorda di fargli solo domande sul film, lui riesce a trasmettere qualcosa di se stesso. Lo incontro con la scusa dell’affascinante riccone che è il personaggio di Murder Mistery. Scritta da James Vanderbilt, diretta da Kyle Newacheck e ispirata ad Assassinio sull’Oriente Express di Agatha Christie, la commedia racconta a storia di una parrucchiera e un poliziotto newyorkesi (Adam Sandler e Jennifer Aniston) che volando in vacanza in Europa  incontrano un affascinante visconte (Luke Evans) che li invita inaspettatamente sullo yacht  di famiglia al largo di Montecarlo. Attratta dall’avventura e da una proposta più allettante di quella programmata, la coppia si ritroverà però coinvolta nella morte di un billionario, sospettata insieme a tutti gli altri ospiti. Evans non ha però il tempo di godersi i 30 milioni di streamer  (sommando account di Usa, Canada e resto del mondo) che ha avuto il film,  segnando il record di spettatori su Netflix nel weekend di apertura. È già a Budapest sul set della seconda stagione di L’alienista, la serie di TNT nominata agli Emmy e ai Golden Globe in cui interpreta il reporter del New York Times John Moore.  «Siamo un anno dopo rispetto a dove eravamo rimasti», racconta con voce chiara e pacata.  «I personaggi sono gli stessi ma la storia è cambiata. Io non faccio la stessa professione, ci saranno belle sorprese».

(…continua)

Intervista pubblicata sul n. 28 del 2019 di F

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Festival di Cannes 2017: i vincitori, il bilancio, le polemiche

22 giovedì Feb 2018

Posted by cristianaallievi in Cannes, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Miti

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Bilancio Cannes 2017, Cannes 2018, Cristiana Allievi, Festival di Cannes 2017, Netflix, Palma D'Oro, polemiche, Star, vincitori 2017

Chi è salito in vetta e chi meritava di più, le storie di cui parleremo ancora e le cose che invece non vorremmo rivedere nella prossima edizione. Ripasso in vista dell’edizione 2018…

È quasi metaforico che la Palma d’Oro per il 70° del festival di Cannes sia stata assegnata allo svedese The square, di Ruben Ostlund, un film sulla decadenza del mondo dell’arte (e non solo quello).

Pochi secondi prima di annunciare il titolo, il presidente di giuria Pedro Almodovar ha dichiarato “tutto dipende dalla luce”, un’altra frase variamente interpretabile, in questa annata che verrà ricordata come la più povera di film davvero degni del festival di cinema più importante del mondo.

E proprio quest’anno è stato assegnato un premio eccezionale per il 70° anno: lo ha vinto Nicole Kidman, che con un video messaggio ha ringraziato Sofia Coppola e il festival, «grazie di esistere». Un premio meritato, se si pensa che l’attrice e produttrice australiana era presente sulla Croisette con ben quattro film, di cui due in concorso, L’inganno, proprio della Coppola, e The Killing of a sacred deer di Yorgos Lanthimos.

Il gran premio della giuria è andato a 120 Battements par minute di Robin Campillo, che in molti avrebbero voluto Palma d’oro, così come non ha convinto la miglior regia attribuita a Sofia Coppola, che con un video messaggio ha ringraziato sua madre, per aver sostenuto l’arte nella sua vita, e Jane Champion, per essere un modello artistico.

I due premi che hanno messo d’accordo tutti, o quasi, sono stati quelli alla miglior attrice, Diane Kruger, e al miglior attore, Joaquin Phoenix. La prima era sensibilmente toccata, «dedico la mia vittoria alle vittime della strage di Manchester, e a chi ha perso parte della propria vita», ha dichiarato con la voce spezzata. Mentre Phoenix ci ha messo un bel po’ ad alzarsi dalla poltrona per andare sul palco, visibilmente sorpreso. La spiegazione possibile è che avendo visto il suo You were never really here vincere il premio per la miglior sceneggiatura, pensava i giochi fossero chiusi. Invece proprio la sceneggiatura, che quest’anno è stata premiata a pari merito in due film, è la scelta più contestabile del festival.

Sono stati premiati infatti i questa categoria The killing of a sacred deer di Lanthimos e il film già citato di Lynne Ramsay, e soprattutto questo secondo non trova affatto la sua forza nella storia, ma nella regia e nella recitazione di Phoenix.

Anche il Premio della giuria, andato a Loveless, ha suscitato perplessità: il film del russo Andrey Zvyaginstev meritava di vincere un premio più importante.

Ma premi a parte, questa edizione sarà ricordata come l’edizione delle polemiche.
Prima fra tutte quella che ha coinvolto Netflix, scoppiata per i titoli di Noah Baumbach e Bong Joon Ho, The Meyerowitz Stories con Dustin Hoffman e Adam Sandler e Okja con Tilda Swinton. Polemiche necessarie, che hanno fatto chiarezza sul dna del festival: dal 2018, ha dichiarato Thierry Fremaux, Cannes accetterà in concorso per la Palma d’Oro solo film pensati per uscire sul grande schermo.

Hanno fatto molto discutere anche i ritardi e le lungaggini delle procedure di sicurezza per entrare al Palais des Festival, con apertura delle borse una a una. Si ringrazia per aver scoraggiato atti di terrorismo, ma bisogna trovare un modo per snellire le code.

E per chiudere in bellezza, anche vista l’estate alle porte, vale la pena spendere una parola sulla Grecia, una specie di protagonista silenziosa. Almeno di tre film. In Sea Sorrow, proiettato fuori concorso, la regia esordiente Vanessa Redgrave la osanna come la terra capace di insegnare al resto del mondo come vanno trattati i rifugiati. In The killing of a sacred deer viene invece citata mitologicamente. Il cuore della storia è un parallelismo con il sacrificio di Ifigenia, figlia minore di Agamennone, che il padre sacrifica solo per andare a Troia, quindi per il potere. In ultimo la si vede in Aus Dem Nichts di Fatih Akin, come la terra che accoglie l’ultimo atto della sua protagonista, proprio Diane Kruger. Un gesto che diremo solo sembrare incomprensibile, per non svelare il finale del film, e che a detta della stessa attrice «ognuno dovrà spiegarsi a modo proprio». Un po’ come questa edizione del festival.

FULLSCREEN

I VINCITORI
Palma d’oro al miglior film: The Square di Ruben Ostlund
Grand Prix speciale della giuria: 120 Beats Per Minute di Robin Campillo
Migliore attrice: Diane Kruger per Aus dem Nichts (In the Fade)
Miglior attore: Joaquin Phoenix per Were Never Really Here!
Miglior regista: Sofia Coppola per L’inganno
Premio della giuria: Loveless di Andrei Zvyagintsev
Miglior sceneggiatura: A Killing of a Sacred Deer e You Were Never Really Here ex aequo
Camera d’Or (miglior opera prima di tutte le sezioni): Jeune femme(Léonor Serraille)
Palma d’oro al miglior cortometraggio: Xiao cheng er yue di Qiu Yang
Premio “Un certain Regard”: A Man of Integrity di Mohammad Rasoulof
Premio speciale della 70esima edizione: Nicole Kidman
Articolo pubblicato il 28/5/2017 su GQ.it
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Redford fa ancora riflettere, con Le nostre anime di notte

04 mercoledì Ott 2017

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi, Senza categoria, Televisione

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Cristiana Allievi, film romantici, icone, Jane Fonda, Le nostre anime di notte, Netflix, riflessioni, Robert Redford, Sundance

Punto numero uno: viene da chiedersi, di nuovo, come fa? Già, come fa a essere l’icona leggera e insieme profonda e politica che è? Anche con il film romantico in onda su Netflix?

È sempre stato un guru dei film “impegnati”. Lealtà verso un ideale. Critica intelligente del sistema. Strenua difesa delle libertà (leggi democrazia), questo sa fare Robert Redford, e per questo da sempre incarna il volto buono dell’America. E i colleghi che hanno lo stesso obiettivo glielo riconoscono, primo fra tutti George Clooney.

Ora, se tutto questo è molto chiaro, resta più difficile da spiegare quell’aura da icona che nemmeno a 81 anni gli scivola via di dosso. All’ultima mostra d’arte cinematografica di Venezia, dove ha presentato con la sua amica di vecchia data Jane Fonda Le nostre anime di notte, in onda su Netflix, la sua luce ha oscurato la presenza di tanti colleghi con meno della metà dei suoi anni.

“Come fa?”, viene da chiedersi
Come fa a togliersi la giacca e restare in t-shirt, senza sfigurare, nonostante non abbia mai puntato sul fisico? «Non mi sono mai visto particolarmente bello. Così come non credo di essermi apprezzato come attore per un lunghissimo periodo di tempo», racconta a sorpresa.

«Sono sempre stato tremendamente esigente con me stesso, forse troppo».

Forse la bellezza, mista a molto talento e anche a una certa distrazione da se stesso, rende un uomo davvero un’icona.
Se poi si pensa che ha sempre puntato il dito su tutto ciò che del suo paese non gli piace, vedi alle voci Tutti gli uomini del Presidente, I tre giorni del condor, Leoni per Agnelli solo per citarne alcuni, il resto è fatto.

L’arte di andare al cuore delle cose con semplicità
Se la politica, con le sue bugie, i media e l’istruzione sono gli highlights della sua arte, quando si passa ai sentimenti Redford mantiene la stessa semplicità e incisività.

Basta guardare l’ultimo film, tratto dal romanzo di Kent Haruf, di cui è produttore e coprotagonista con Jane Fonda, amica e collega con cui ha girato quattro pellicole e con cui – prima volta nella storia del festival che accade a una coppia- ha vinto il Leone alla carriera. «Nel 1965 ci siamo incontrati per La caccia, da quel momento le cose sono sempre state facili tra noi. Volevo lavorare ancora con Jane prima di morire, ho scelto questa storia perché funzionava bene per la nostra età».

Le nostre anime di notte, dalla sceneggiatura molto semplice, racconta due persone della terza età che cercano ancora un’intimità, nonostante il mondo intorno a loro non pensi che questo sia giusto. Un film che scalda il cuore e in cui Redford ha mostrato tutte le sue passioni, dalle passeggiate nella natura alla pesca alla pittura.

Il naso per la politica
Nato a Santa Monica, figlio di un lattaio, da ragazzo era una vera testa calda. A scuola non riusciva a stare, e le grandi perdite della sua vita non lo hanno certo aiutato: prima lo zio con cui era cresciuto, poi la madre, e a ruota il primo figlio, trovato morto nella culla. Si definisce un pessimo studente, ma le cose sono cambiate quando ha lasciato l’Università del Colorado per venire a studiare all’Istituto d’arte Firenze, per poi passare all’Ecole des Beaux Arts di Parigi.
Con il suo Sundance Institute ha cambiato il corso del cinema americano, e da tutta la vita incarna lo stereotipo del vincente che non usa l’aggressività. «Credo che nel mondo farebbe una differenza se ci fossero più donne in politica. Tutto il sistema ha bisogno di avere più donne, e mi riferisco a ciò che possono portare in termini di valore aggiunto. La compassione in grado di dare la vita a un figlio, sapere come nutrirlo, abbiamo più bisogno di queste qualità che di qualcuno che vada in guerra, specie quando non sa cosa sta facendo».
E visto che questo pianeta finirà nelle mani delle nuove generazioni, gli interessa suscitare in loro una domanda. «“Io cosa scelgo di fare”? Quando ero studente mi hanno espulso dalla scuola, quindi mi interessa sempre mettermi dall’altra parte, anche da regista».

robert-redford-profile.jpg

Dai rischi del divismo al circolo vizioso del business
E dei nuovi maschi di Hollywood, cosa pensa? «I tempi sono molto cambiati, e con loro l’industria cinematografica. Gli attori più giovani non possono non essere influenzati dal ruolo di internet, della tv, dalla miriade di informazioni e dagli altrettanti canali che le distribuiscono. Sono completamente concentrati su di sè, hanno interi staff con il trainer, lo psichiatra, molta gente intorno. Voglio dire che sono più attenti alla cura dell’immagine, il lavoro rischia di diventare un fatto di marketing». Quando ha iniziato lui, i giochi erano diversi. «e penso a quando ho recitato in Butch Cassidy (Butch Cassidy and the Sundance Kid, 1969, ndr) non ricordo di aver neppure parlato del film, è semplicemente uscito nelle sale. Adesso i giovani sottostanno alle leggi di mercato, sono spinti a vendersi a livello commerciale, sono invischiati nel circolo vizioso del business». E del carisma cosa pensa? «Non saprei cosa dire, non vorrei sembrare naif. So cosa mi ha detto la gente in tutti questi anni, ma non so se ci ho mai creduto. Il carisma viene da chi sei, da quello che tiri fuori di te come artista, e va al di là del personaggio».
I tempi sono cinici, si sa, e quando è così nè commedie né film romantici fioriscono. «Basta guardare in che cultura ci troviamo, cosa fanno i media. C’è così tanta disonestà che le persone giovani non hanno nulla a cui guardare, questo riflette la mancanza di una leadership morale. Non c’è rispetto, non c’è integrità nel comportamento, solo l’idea “dammi qualcosa di facile e veloce”. La commedia è spesso così, una soddisfazione facile e veloce. Noi abbiamo fatto una scelta diversa, ci interessava qualcosa di sofisticato.

Il sapore, anzi il gusto, della Libertà
Libertà è fare un film come quello appena fatto, è la libertà che mi piace in quanto artista. Poi c’è la libertà di dire quello che penso. E poi… Mi piace ritirarmi dal mondo, andare in un posto dove c’è solo natura, e cavalcare per miglia, vedere solo cielo, alberi, montagne. Posso farlo nella mia tenuta, è una libertà molto speciale…».

Articolo pubblicato su GQ Italia

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