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AL CINEMA HA SEMPRE RUOLI DA CATTIVO. NON FA ECCEZIONE L’ULTIMO FILM DI SPIKE LEE. MA I SUOI BAD GUYS SONO SPECIALI: «PERCHE’ LASCIANO INTRAVEDERE UN’ANIMA»

Jean Reno in una foto di William Lacamontie (courtesy of D La Repubblica)

di Cristiana Allievi

C’è una scena di un film in cui Jean Reno è un agente di polizia a New York e storce il naso davanti alla ciambella con caffè lungo offertagli nel furgoncino di spionaggio, a pochi passi dal suo target. La fissa, poi chiede al giovane agente di turno perché non gli ha portato un croissant. Una metafora del suo rapporto con la lingua inglese: la tollera, ma preferirebbe il francese.  E nonostante viva a Manhattan, i suoi migliori amici lì sono “made in France”. Dev’essere parte costitutiva di un dna molto forte, se anche Spike Lee, per la sua prima regia firmata Netflix, che vedremo dal 12 giugno, lo ha voluto nei panni di un francese che vive in Vietnam. È Da 5 Bloods Come  fratelli, film che senza Covid 19 avremmo visto al settantatreesimo Festival di Cannes. Il regista premio Oscar racconta la storia di quattro veterani afroamericani che hanno condiviso l’incubo del Vietnam e tornano in quei luoghi anni dopo, a cercare un tesoro sepolto all’epoca e i resti del loro capo caduto in guerra. Al ventiquattresimo minuto arriva in scena Jean Reno, l’uomo dei traffici che ha il compito di trasformare l’oro in questione in cash. E come accadeva in Godzilla  con il croissant, anche qui il suo essere francese viene subito rimarcato quando uno dei veterani gli spiega che se non fosse stato per l’esercito americano, oggi lui parlerebbe tedesco e mangerebbe crauti invece di excargot.

Ora, davanti a noi, è vestito di lino bianco, un look che ricorda quel giorno del 2006 in cui, testimone Nicolas Sarkozy, sposò la modella franco-americana Zofia Borucka, madre degli ultimi due dei suoi sei figli. Oggi come allora la famiglia si trova nel sud della Francia, meta scelta per il lockdown. «Siamo a Les Baux de Provence, in Camargue. Ci siamo trasferiti qui e siamo stati molto felici della scelta. Questo è il luogo per la famiglia e gli amici, qui facciamo l’olio e soprattutto stiamo in pace. È un luogo dove dedicarci al buon cibo e a una verità eterna. Perché come dicono, “gli alberi di ulivo sono alberi che non muoiono mai”, infatti sono i miei preferiti».

Jean Reno in effetti è una specie di ulivo del cinema.  Ha circa ottanta film all’attivo, se si escludono le serie tv e i corti, e dopo aver sbancato i botteghini a casa sua, negli Usa e persino in Italia, a 72 anni vive al ritmo di un titolo in uscita dopo l’altra.

Tratti distintivi, quello sguardo che tiene lo spettatore inchiodato allo schermo, a prescindere,  e un’abilità tutta sua nel ritrarre i tipi loschi che gli toccano in sorte, forse anche grazie a una stazza importante. Delinquenti in cui si nasconde sempre un’anima,  vedere alla voce dello spietato sicario di Leon che si ammorbidisce grazie all’incontro di una dodicenne Natalie Portman.

In Italia lo abbiamo visto di recente nell’ottimo poliziesco di Donato Carrisi, La ragazza nella nebbia, in un luogo non meglio identificato delle Alpi accanto ad Alessio Boni e Toni Servillo. Dal 12 giugno sarà in Vietnam, in un film che alterna un filone storico, con le scene di guerra, le splendide immagini d’archivio con i discorsi di Muhammad Alì e Malcom X e il volto del diciottenne Milton Olive III, eroe afro di guerra che a soli 18 anni ha perso la vita soffocando una granata. In un continuo avanti e indietro con la finzione ambientata ai giorni nostri, e  Trump che fa capolino. Spike riesce a ricordare allo spettatore le stragi e le deportazioni dei neri, che sono l’11 per cento della popolazione d’America, ma che in Vietnam schizzavano a un 30 per cento destinato sempre alle prime file, quindi alla morte. Lo fa in tono lieve, come riesce soltanto a lui, mostrando in modo arguto una lotta di tendenze nella natura umana e soprattutto l’immoralità di quella come di tutte le guerra.  «Sono un francese che vive in Vietnam, è stato facile assegnarmi quel personaggio della storia», racconta Reno. «Se mi ha detto che mi voleva perché sono francese? Non si dice una cosa simile a un attore, ma solo  “ti voglio nel mio film perché sei il migliore”». Segue fragorosa risata, con l’ammissione di non sapere se si tratta di una vicenda completamente inventata o se raccoglie pezzi di vite di persone veramente esistite «Spike insegna cinema alla New York University, io vivo in zona e mi ha chiesto di incontrarci. È un regista con un punto di vista molto forte, sa esattamente cosa vuole, lavorare con vero professionista come lui è facile. E conoscendo la sua filmografia, che difende sempre i neri in America, non mi ha sorpreso sentirmi raccontare una storia che ruota intorno a un gruppo di neri che vanno in guerra. È un modo per mostrare che i neri sono esseri umani, hanno una vita ed emozioni identiche a quelle di tutti noi».

(continua…)

Intervista integrale su D la Repubblica del 6/6/2020

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