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Cristiana Allievi

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Louis Garrel «Ho il terrore di annoiare»

18 martedì Ott 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Miti

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Cannes, Cristiana Allievi, Festa di Roma, festival, interviste illuminanti, L'innocent, L'ombra di Caravaggio, Les Amandiers, Louis Garrel, Patrice Chereau, regista, VAleria Bruni Tedeschi

LA PAURA CHE IN SUA PRESENZA QUALCUNO SBADIGLI LO ACCOMPAGNA FIN DA RAGAZZINO. PER QUESTO FA L’ATTORE E ADESSO PURE IL REGISTA. “MI SONO SEMPRE SENTITO RESPONSABILE DELL’ATMOSFERA”. ANCHE QUELLA DEI SUOI FILM, «CHE DEVONO FARVI VENIRE VOGLIA DI VIVERE”

di Cristiana Allievi

Louis garrel Foto Stock, Louis garrel Immagini | Depositphotos
L’attore e regista francese Louis Garrel, 39 anni (courtesy Depositphotos).

«Da bambino ho incontrato tante persone appena uscite di prigione, e tutti gli intellettuali che frequentavano casa nostra erano interessati alla marginalità. È un mondo che conosco e che ho usato come aneddoto». Mentre mi racconta l’idea da cui è nato il suo quarto film da regista, mi accorgo che Louis Garrel è più tranquillo del solito. A 40 anni ancora non compiuti, sembra diventato grande.  Come il suo film, presentato fuori Concorso all’ultimo Festival di Cannes e proiettato in questi giorni alla Festa di Roma. L’innocent ha come idea di partenza  un aneddoto che riguarda la madre, Brigitte Sy, regista come il padre Philippe. E discendendo da due reali della Nouvelle Vague del cinema, Louis non poteva che diventare famoso con uno dei film più sexy della storia del cinema, quel The Dreamers offertogli dall’amico di famiglia Bernardo Bertolucci. Dai tempi del conturbante e ribelle Theo, 20 anni fa, ha fatto tutto il possibile per meritare il grande vantaggio di famiglia che aveva. Ce l’ha fatta, oggi ha un’identità sua ed è un cineasta di valore. Dal 3 novembre lo vedremo ancora in L’ombra di Caravaggio (passato prima alla Festa di Roma) diretto da Michele Placido, come l’uomo che ha investigato la vita del pittore e ha avuto potere di vita e di morte su di lui. E dopo essere stato Jean-Luc Godard, il simbolo della Nouvelle Vague mancato qualche settimana fa, dall’1 dicembre interpreterà un altro mostro sacro, Patrice Chéreau, direttore artistico della prestigiosa scuola del Theatre des Amandiers di Parigi. A dirigerlo la sua ex Valeria Bruni Tedeschi. Garrel indossa una t-shirt con giacca nera e pantaloni chiari, e ci tiene a parlare con me in italiano.

Come sempre nei suoi film, anche in L’innocent si ritaglia anche un ruolo di attore: Abel, di professione guida in un acquario.  «È un uomo che vive il lutto per la perdita di sua moglie. Un giorno scopre che sua madre (Anouk Grinberg) vuole sposare un uomo che è stato in carcere. Con l’aiuto della migliore amica lo tallonerà da vicino e scoprirà chi è veramente».

Ha dedicato il film a sua madre Brigitte Sy. «Ha lavorato per vent’anni in prigione con il teatro, come animatrice. Il punto di partenza è la sua vera storia, perché dopo che i miei si sono separati si è sposata in prigione con un uomo di nome Michael che mi piaceva molto.  Abbiamo legato, mi ha aperto le porte di un mondo che non conoscevo. Non volendo fare una semplice cronaca monotona, ho giocato con tanti registri, dalla commedia romantica al thriller, che è anche un modo per cambiare ritmo».

Il ritmo è importante per lei? «Molto, perché la mia più grande paura è quella di essere noioso».

Quando è iniziata, questa paura? «Verso i 13  o 14 anni, mi sentivo sempre quello che doveva fare qualcosa per evitare a tutti i momenti noiosi».

È ancora così? «Quando sono in mezzo alle persone mi sento responsabile dell’atmosfera. Se tutti sono annoiati sento il dovere di fare qualcosa per intrattenere».

E ne ha fatto una professione.  «Jean-Paul Carrère (regista e sceneggiatore mancato dieci anni fa), mi ha  insegnato a non essere né monotono né troppo psicologico. “Devi sorprendere” è una lezione che ho imparato da lui, e per farlo uso molto le emozioni».

Le piacciono, le emozioni? «Vado matto per le  affezioni sentimentali fra i personaggi, quelle fra un figlio e un padre adottivo, o fra una madre e sua figlia. Uso tanto questo ingrediente per nascondere altro, come fanno i maghi. A volte mi sento proprio così, un mago, incanto con le romanticherie e poi cambio strada, perché il film dev’essere un gioco».

“È così difficile prendere decisioni…” una frase di Abel che sembra sua. «Lo è, per me è un incubo prendere decisioni! Qualcuno mi ha detto “ogni decisione è una rinuncia”, e mi sembra un fatto pazzesco».

(continua…)

Intervista a Louis Garrel pubblicata su F del 18/10/2022

@Riproduzione riservata

Sean Penn, di padre in figlia

01 venerdì Apr 2022

Posted by cristianaallievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Miti, Personaggi

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actors, cinema, DEad man walking, directors, Dylan Penn, festival, figli, Flag Day, genitori, Milk, padri, red carpet, Robin Wright, Sean Penn, Usa

di Cristiana Allievi

L’attore, regista e produttore Sean Penn sul set del nuovo film da lui diretto e interpretato Una vita in fuga (Courtesy Lucky Red)

ARRIVA NELLE SALE UNA VITA IN FUGA, E RACCONTA LA VITA DEL PIU’ GRANDE FALSARIO DELLA STORIA USA. È IL DEBUTTO DI DYLAN PENN, PRIMOGENITA DI SEAN, CHE PER QUESTA VOLTA LA SEGUE MOLTO DA VICINO.


Ci sono almeno due volti di Sean Penn. Il primo è quello del (due volte) premio Oscar che si presenta all’intervista con le guardie del corpo. E quando entra dalla porta crea un misto di imbarazzo e meraviglia che fermano l’aria. Poi c’è l’altro Penn, quello della foto che ha fatto il giro del mondo nelle ultime settimane: cammina da solo con il suo trolley, sulla strada che dall’Ucraina lo porta in salvo in Polonia. A guidare entrambi i Penn è l’istinto, non fa differenza che si trovi a raccontare l’invasione russa in Ucraina, come sta facendo in questo momento, o i fili emotivi e misteriosi che legano un padre a una figlia, come vedremo nel suo Una vita in fuga (Flag Day) dal 30 marzo, dopo essere stato in Concorso a Cannes. È la storia del più noto falsario conosciuto in Usa, John Vogel, raccontata dalla figlia Jennifer nell’autobiografia Flim-Flam Man. Vogel (Penn) è un padre che insegna a vivere una vita avventurosa a Jennifer, ma man mano che lei cresce, le sue storie si scoprono sempre meno credibili e più dolorose, fino al tragico finale. A interpretare Jennifer è Dylan, la figlia che il divo americano ha avuto con la ex moglie Robin Wright.  Quando parla di lei papà Penn si illumina.

Cos’ha di personale la storia di Una vita in fuga? «Ho sempre fallito nel rispondere a questa domanda, me ne sono accorto dopo svariati giorni da sobrio. È come spiegare perché mi piace quella donna, non ci riesco. Ho pensato raccontasse qualcosa che volevo approfondire, e quando mi è venuto in mente il volto di Dylan ho visto una grandiosa storia di verità e inganno,  tutti aspetti dello stesso flag day (la festa che celebra la bandiera americana a stelle e strisce adottata il 14 giugno 1777, ndr).

È il primo film in cui recita e dirige insieme, oltre a guidare l’esordio di Dylan. Cercava una nuova sfida per i suoi sessant’anni?  «Il multitasking mi ha sempre attratto e messo in ginocchio allo stesso tempo, non dirigermi era stata una specie di scelta religiosa. Sapevo che mi avrebbe fatto impazzire, e infatti è stata la cosa più dura che abbia mai fatto in vita mia».

L’ha anche costretta ad analizzare i suoi fallimenti come padre? «Da genitore devi riesaminare tutti i giorni il rapporto con i tuoi figli, è la cosa più vera che posso dirle. Ma sapevo dal primo giorno di riprese che sarei stato orgoglioso di Dylan, e che non sarebbe stato un fallimento».

Cosa, invece, non sapeva? «Quanto fosse sofisticata, quanta profondità avrebbe portato al racconto».

John Vogel amava molto la figlia, ma non riusciva ad essere sincero con lei… «La parte che ci siamo goduti io e Dylan riguarda certi aspetti della relazione, le cose che da padre vorresti credere che tua figlia conosca di te, e altrettante cose che una figlia vorrebbe che un padre capisse e sapesse di lei, nel bene e nel male». 

Dylan Penn, interprete del film, al suo esordio da attrice e diretta dal padre Sean (courtesy Lucky Red)

(…continua)

Intervista pubblicata su Vanity Fair del 6 aprile 2022

©Riproduzione riservata

Giuria Cannes 2019

30 martedì Apr 2019

Posted by cristianaallievi in arte, cinema, Festival di Cannes, Miti

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attori, Attrici, Cannes 2019, CAnnes 72, festival

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La grazia di Hadas (Yaron)

25 domenica Nov 2018

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cinema, Cristiana Allievi, D La repubblica, fede universale, festival, Gianni Zanasi, Hadas Yaron, interviste illuminanti, Madonna, Troppa Grazia

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L’attrice israeliana Hadas Yaron, 28 anni (foto di Gabriel Baharlia per D La Repubblica)

«Il mio nome tradotto nella sua lingua è quello di un fiore bianco, credo sia il mirto… Ha un profumo meraviglioso». Resta molto sorpresa quando le diciamo che, fra le altre cose, da quel fiore si distilla un liquore molto apprezzato. Un destino che Hadas Yaron, attrice israeliana di 28 anni, condivide con la bevanda, se si pensa a quanto l’Italia l’abbia premiata e adottata. Per La sposa promessa, di Rama Burshtein ha vinto la Coppa Volpi come miglior attrice a Venezia sei anni fa, e quando è tornata a casa le hanno dato l’Academy Award d’Israele.  Era solo il suo secondo film, poi è stata la volta di La felicità è un sistema complesso, di Gianni Zanasi, con cui ha girato di nuovo Troppa grazia, a distanza di tre anni, presentato in anteprima mondiale nella sezione Quinzaine dell’ultima edizione del  festival di Cannes.

Il suo personaggio è nientemeno che la Madonna, che appare a Lucia, una geometra (Alba Rohrwacher) che ha una figlia e si arrabatta fra mille difficoltà pratiche e sentimentali. La Madonna le ordina di far costruire una chiesa nel mezzo di quello che sembra (sembra) il nulla.  «La proposta del regista mi ha resa molto felice anche se non sono religiosa e non ho un’idea forte come l’avete voi sulla Madonna. Non sono cresciuta con questa figura, sapevo chi è in senso generale, ma leggendo la sceneggiatura ho capito che si trattava di qualcuno di più umano. Nel film c’è umorismo, si parla di avere fede ma non in senso religioso: è più un credere ancora, un fidarsi, un saper immaginare nonostante si sia adulti». Nel caso del film di Zanasi la figura interpretata da Hadas è una specie di sguardo netto e senza compromessi sulle cose, con un forte senso etico ed esistenziale. La Madonna è una parte di lei, la fa tornare ad avere fiducia in se stessa, e lo fa mettendola di fronte allo sconosciuto, che è sempre spaventoso. «Come Lucia, a volte anche preferiamo stare dove siamo, nonostante non ci faccia bene, invece di muoverci verso qualcosa di nuovo».

Troppa Grazia mescola temi importanti a momenti di grande ironia, come quando al primo incontro Lucia scambia la Madonna per un’extracomunitaria che vuole denaro, iniziando lei una conversazione con parole ebraiche.  Una metafora, questa, del non capirsi e non sentirsi capiti, quando si incontra qualcuno che parla un linguaggio diverso.  «Credo che ogni persona conosca quella sensazione, viaggiando accade spesso. Io ho imparato l’italiano, ma se vado in Francia mi sembra strano non poter parlare l’idioma locale. Vorrei il super potere di parlare tutte le lingue del mondo. L’ebraico per me è una specie di codice segreto: so che se scrivo qualcosa, in genere nessuno può leggerla».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su D La Repubblica del 24 Novembre 2018

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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