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Anastacia: «Ho imparato a volermi bene».

06 domenica Mag 2018

Posted by cristianaallievi in Musica, Personaggi

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Anastacia, Cristiana Allievi, donne forti, Evolution, Grazia, interviste, music, pop music

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La cantante Usa Anastacia, 49 anni (Courtesy Urban Post). 

«Ho cambiato casa discografica, mi sono sposata, ho divorziato, ho avuto il secondo cancro ed è stato davvero un colpo durissimo. Diciamo che sono arrivata a toccare il fondo e ho dovuto ricominciare daccapo». Parole, queste, che mi fanno sobbalzare sulla sedia. Poi faccio due conti, e mi accorgo che gli incontri con Anastacia sono sempre stati di questa intensità. È una donna molto forte, vulcanica, e le interviste con lei vibrano della stessa energia. Mi torna in mente l’ultima volta che l’avevo incontrata, mi aveva detto di aver scoperto il primo cancro al seno grazie alla voglia di ridurlo di due taglie, «mi dava fastidio, anche quando salivo sul palco, e per fortuna grazie a questo mio disagio i medici sono intervenuti subito, asportando il male e riducendomi il seno di un terzo del volume». Credevo fosse tutto, invece dieci minuti dopo, ascoltando i suoi riferimenti temporali,  mi ero accorta che i conti non tornavano: è stato il suo modo di raccontarmi che aveva sempre mentito sulla sua età: «Non ero mai stata in clinica per disintossicarmi, non ero una bad girl, avevo una voce da nera in un corpo da bianca, non sapevano come “etichettarmi”… Mi hanno detto “Vai bene, ma dovresti avere 23 anni…”. Togliermi sei anni è stato l’unico compromesso che ho accettato, e non intendo più farlo». E oggi ride con quella voce portentosa che si ritrova e un timbro che le è valso 30 milioni di dischi venduti, forse più. Le ricordo questi episodi del passato e lei prende la palla al balzo: “la prima parte della storia è sempre la stessa, adesso le racconto la seconda…”. La scusa è l’uscita di Evolution, a 18 anni dal suo debutto discografico, disco che l’artista di Chicago porterà in un tour che passerà presto dall’Italia: prima data a Brescia, il 6 maggio.

Evolution viene dopo Resurrection, una conseguenza logica, in effetti. «Pensi che il mio nome significa proprio “resurrezione”, ma Evolution è stato un passo successivo, un ritrovare davvero me stessa. Nel 2006 mi ero persa nel business, avevo davvero bisogno di staccare la spina perché  dopo il primo cancro avevo corso troppo. Invece non l’ho fatto,  e nel 2013 me ne hanno diagnosticato un secondo tumore, lì sono crollata».

Cambiamenti alla mano, negli ultimi 10 anni lei ha vissuto praticamente tre vite… «Diciamo che sono arrivata a toccare il fondo ( ha contribuito anche il divorzio da Wayne Newton, il suo bodyguard, con cui è stata sposata dal 2007 al 2010, ndr), ho dovuto ricontattare davvero la mia parte femminile e ricostruire tutto di me, eccetto la voce. Mi sono accorta che con il disco precedente stavo cercando di mantenermi occupata, lavorare era un modo per dirmi che non era finita. Adesso sono una donna nuova, anche se questo album contiene ancora elementi del 2007».

Si sarà confrontata con varie paure. «Soprattutto ho dovuto realizzare che non ero una vittima, e che se vuoi essere sana e vivere una vita gioisa devi accorgerti che la maggior parte delle volte l’ostacolo sei tu stessa. Mi sono guardata dentro e ho fatto un inventario di quello che stavo permettendo, mangiando, pensando».

Precisamente? «Mangiavo male, un’italiana come lei inorridirà a sentire che facevo fuori i ravioli direttamente dalla lattina, non ci facevo nemmeno caso. Il problema è che quando hai il morbo di Chrones bruci tutto, quindi mi bastava ingerire calorie, non sapevo di fare cose terribili per il cancro. Oggi sono molto più intelligente col cibo e da cinque anni non bevo più alcol».

Altri aspetti guariti? «Oggi mi accorgo delle cose sbagliate, prima non ero brava a scegliere i collaboratori giusti, e nemmeno gli uomini. Quando sono stata tradita ho scritto nelle canzoni che non me lo meritavo, ma se mi volto indietro vedo che stavo accontentandomi degli scarti, senza saperlo. “Voglio davvero avere il cuore a pezzi?”, mi sono chiesta, e la risposta era no, quindi dovevo cambiare strada».

 Come? «Non ripetendo gli stessi errori, è così che le cose cambiano».

Quando ci siamo incontrate l’ultima volta aveva scritto in una canzone, “non amerò mai più così”, e quando le ho chiesto cosa intendesse dire mi ha risposto che non avrebbe mai più vissuto un sentimento così intenso. «All’epoca ero sposata, quando divorzi scopri più verità rispetto a quello che credevi essere l’amore. Io ho scoperto che quello che avevo davanti non era ciò che desideravo per il futuro, anche se ero più che grata a quella persona: è anche merito suo se sono arrivata fin qui».

 

(…continua) 

Intervista pubblicata su Grazia del 3/5/2018 

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L’altra Grace Jones. Amante, figlia, madre, sorella e nonna. Senza filtri

30 martedì Gen 2018

Posted by cristianaallievi in cinema, Miti, Musica, Torino Film Festival

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Cristiana Allievi, documentario, GQ Italia, Grace Jones, Grace Jones: Bloodlight and Bami, Sophie Fiennes

Sophie Fiennes, sorella delle star hollywoodiane Ralph e Joseph, ci fa conoscere la donna che si nasconde dietro una delle icone più indelebili e graffianti degli Anni Ottanta

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Grace Jones con la regista Sophie Fiennes (courtesy Billboard, ndr)

Il viso come un teschio d’oro. Un corpo che pare scolpito nella pietra scura. E scenografie potenti quanto le coreografie che scorrono davanti agli occhi sulle note di Slave to the Rythm o La vie en rose in versione disco. Poi si passa al dietro le quinte, alla vita vera. Così, in un sapiente alternarsi di masquerade, episodi della vita più intima e personale, immersioni nella natura della Jamaica, cappelli eccentrici e soprattutto incursioni nella dolorosa storia familiare, si snoda il racconto di Grace Jones: Bloodlight and Bami, raffinato film di Sophie Fiennes presentato in anteprima all’ultimo Torino Film Festival che sarà in sala come evento il 30 e 31 gennaio 2018 grazie a Officine UBU in collaborazione con SkyArteHD.

Con un mix inedito di immagini mai viste prima, la documentarista inglese, sorella delle star hollywoodiane Ralph e Joseph, ci fa conoscere la donna che si nasconde dietro l’icona degli anni Ottanta.

Quello che sorprende di più del suo lavoro è la mancanza di filtri, per cui la Jones si mostra così com’è nei panni di figlia, madre, sorella, amante, creando una sensazione che fa da contrappunto alla pantera nera che divora il palcoscenico e che conosciamo bene. Sophie, 50 anni e un figlio di otto anni, Horace, è apprezzatissima a livello internazionale per i suoi lungometraggi che vanno a ritrarre grandi personalità del mondo dell’arte e della cultura.

Perché dopo l’artista tedesco Anselm Kiefer ha scelto proprio Grace Jones?
«L’ho incontrata quando ho girato un film su suo fratello Noel, che è pastore della City of Refuge Church, in California. Così ho conosciuto un essere bellissimo, con i suoi sessant’anni. Era il momento giusto per fare un film su una personalità così forte, e credo di aver trovato una chiave molto inusuale che sorprenderà. Mostro una Jones lontanissima dalle masquerade a cui ci ha abituati, mi ha permesso di entrare in una parte molto privata della sua vita».

Grazie al film scopriamo che Grace e i suoi fratelli, Chris e Noel, sono stati cresciuti per anni da un terribile patrigno: Mas P., uomo violento e autoritario…
«Eppure lei non è una vittima e non ha paura: trasforma la paura, butta fuori questa energia e la scaglia sul pubblico. Credo che abbia deciso di portarmi con lei perché desiderava esplorare la sua relazione con la Giamaica e la sua famiglia. Per cinque anni ho avuto la valigia sempre pronta, quando chiamava partivo. Ho raccolto moltissimo materiale, fra Tokyo, Parigi, Mosca, Londra e New York, e solo in un secondo tempo mi sono occupata di selezionarlo pensando a cosa avrei voluto farci».

Cosa significano le parole che ha scelto per il titolo del suo film?
«‘Bloodlight’ si riferisce alla luce rossa che si illumina quando un artista è impegnato in una registrazione in sala d’incisione. Mentre ‘Bami’ fa riferimento a una focaccia giamaicana di farina e tapioca, che simboleggia il pane della vita».

Grace dà la sensazione di essere una donna che preferisce stare nuda e sul palco, è così?
«Si sente più forte, in quella versione, e il palcoscenico è la sua àncora, il punto fermo a cui ritornare. Le abbiamo fatto indossare anche quegli incredibili cappelli di Philip Treacy che sottolineano le sue movenze da ex top model».

La Jones è anche una tenace donna d’affari, che discute dei suoi progetti musicali con un certo piglio.
«“Voglio essere libera di fare la musica che desidero” è una delle frasi che fanno capire che non si piega alle logiche del mercato. Il suo è un continuo processo sperimentale che la porta a capire chi è e chi vuole essere in quel momento, assecondando ciò che prova in quell’istante».

Altro elemento soprendente è scoprire la tanta religione nella vita della Jones. 
«Ho mostrato Grace mentre applaude la performance della madre in chiesa, e da spettatore senti che c’è qualcosa di potente mentre le guardi. Credo che sia dovuto alla mancanza di intimità con i suoi genitori, durante l’infanzia, che poi è il tema di tutta la parte del film girata in Giamaica».

[Continua…]

Intervista pubblicata su GQ.it il 30 gennaio 2018

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Charlotte Gainsbourg: «Le note della mia anima»

11 sabato Nov 2017

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Charlotte Gainsbourg, D La repubblica, Independence day, Kate, Lars Von Trier, nuovo album, Nuovo film, Rest, Serge Gainsbourg, YSL

«Mia sorella Kate era tutto il mio mondo. Quando è morta sono entrata in una paralisi che è durata sei mesi. Con Yvanne e i nostri figli volevamo lasciare Parigi, scappare da tutto ciò che è successo, ma non sapevamo dove andare. Venendo qui non è stato come se nulla fosse accaduto, ma almeno sono tornata a respirare e ad essere una madre, a vivere». Per chi conosce Charlotte Gainsbourg questa non è una premessa normale. Anche se la riservata figlia della superstar francese Serge Gainsbourg e della modella e attrice inglese Jane Birkin predilige gli incontri a due a quelli più social, l’esordio parla di un cambio di rotta. Siamo a Manhattan, e all’ora prevista per l’incontro è già seduta in un angolo del The Marlton Hohel. Il volto luminosissimo, che vedremo per tutto l’inverno nella campagna YSL, risalta ancora di più sulla t-shirt nera d’ordinanza e il trench in pelle vintage portati con jeans attillati. Siamo a due passi dagli Electric Lady Studios, gli studi di registrazione in cui ha inciso Rest, il quarto album della carriera, nei negozi dal 17 novembre. Nei cinema di tutto il mondo intanto c’è L’uomo di neve, in cui recita accanto a Michael Fassbender, ma confida di non averlo ancora visto. Oggi si parla delle 11 canzoni che sembrano uno spartiacque nella sua vita. Marcano il confine fra i complessi di inferiorità nei confronti del padre Serge e una ritrovata forza personale, su vari fronti. Queste song dallo scintillante suono electro pop dividono il tempo in cui Charlotte si vergognava a parlare in prima persona, e demandava la firma delle sue canzioni a parolieri esperti, da quello in cui è lei a firmare i testi e a svelare la se stessa più intima e (anche) dolorosa. Sono passati sette anni dal suo disco precedente, Stage Whisper, è maturata, ha girato una valanga di film fra cui due Nymphomaniac con Lars Von Trier e un blockbuster come Independence Day con Roland Emmerich. Per Rest (su etichetta Because/Warner) ha voluto al suo fianco un produttore che viene dall’elettronica, SebastiAn, e musicisti come Guy-Manuel de Homem-Christo dei Daft Punk, Owen Pallett, Connan Mockasin e altri ancora. C’è persino una song del Beatle Paul McCartney, dal titolo lievemente inquietante, Songbird in a cage. «Quest’album è nato cinque anni fa, quando ho avuto l’idea intorno a cui incentrare il lavoro. Sapevo che SebastiAn aveva lavorato con Kavinsky ed ero curiosa di vedere se avrebbe accettato di lavorare con me. Ma il primo incontro è stato disastroso, lui è arrivato molto in ritardo ed era completamente ubriaco. Non bastasse, mi ha detto “so cosa devi fare, un disco in francese, come tuo padre…”. Mi sono detta, “ok, cos’altro mi deve capitare nella vita? (scoppia a ridere, ndr)». Parole che devono essere pesate come macigni, su una donna che ce la stava mettendo tutta per smarcarsi da un padre/artista ingombrante, scomodo, geniale e pure alcolista. A partire dal nascondersi dietro testi scritti da altri fino al cantare in inglese, piuttosto che in francese. Ma poi la perdita della sorella Kate Barry, la fotografa di moda che si è tolta la vita a Parigi, nel dicembre 2013, ha spazzato via ogni indugio, lasciando spazio a un dolore e a un’urgenza di esprimerlo brucianti.

(… continua)

Cover story di D La Repubblica dell’11 novembre 2017

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Elton John: The cut, le hit storiche si fanno corti d’autore. E spunta Spike Lee

24 mercoledì Mag 2017

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Cannes 2017, Elton John, Elton John: The cut, Spike Lee, video

Con un concorso assieme a Youtube Elton John premia tre giovani talenti imbattibili nel tradurre in videoclip alcuni dei suoi classici, poi, intervistato da un regista cult si lascia andare a una riflessione utilissima su arte visiva e musica

«Volevamo che la nostra musica fosse disponibile per altre generazioni. E poi l’adrenalina dei nuovi talenti è meravigliosa, ci piace molto sostenere i giovani».

Con queste parole Elton John, artista pop rock con 400 milioni di dischi venduti all’attivo, racconta l’idea di Elton John: The cut, una competizione globale voluta per creare i video ufficiali di tre famossissimi brani del baronetto che ne erano ancora sprovvisti.

Al richiamo hanno risposto talenti creativi ancora sconosciuti da 50 paesi, e ad avere la meglio sono stati Majid Adin e l’animazione che ha proposto per Rocket Man, Jack Whiteley e Laura Broownhill che hanno creato le coregrafie per Bennie and the Jets, infine Max Weiland con una sorta di live action pensato per Tiny dancer.

Il cantautore e musicista britannico è approdato a Cannes insieme a Bernie Taupin, e i due hanno festeggiato 50 anni esatti di collaborazione artistica assistendo all’anteprima mondiale dei tre corti.

Subito dopo la proiezione è salito sul palco del cinema Olympia nientemeno che Spike Lee, due volte nominato all’Oscar (prima di vincere quello alla carriera), che ha intervistato personalmente Elton e Bernie. Ecco i passaggi migliori di questo inco

SL. Ho avuto la fortuna di frequentare grandi musicisti come Michael Jackson, Prince, Miles Davies, Stevie Wonder, e di chiedere loro qualcosa sulla canzone particolare che tutti hanno. Lo chiedo anche a voi, come arriva quella canzone?

EJ. «Da cinquant’anni tutti i miei pezzi arrivano prima a Bernie, che scrive le parole, poi io vado in un’altra stanza e scrivo la musica. L’unica eccezione in cui è arrivata prima la melodia è stata Sorry seems to be the hardest word».

BT. «Sono andato a trovare Elton nella sua casa di Los Angeles e mi ha detto “mi è venuta quest’idea”. Me l’ha fatta sentire e ho pensato subito al titolo. Don’t break my heart è stata l’altra eccezione, ci siamo sentiti al telefono e dopo che mi ha fatto ascoltare la melodia gli ho detto “dammi cinque minuti, ti richiamo con le parole…”».

SL. Decidete insieme che storia raccontare?
EJ. «Dalla prima canzone fatta fino a oggi, non ho mai saputo che tipo di storia verrà fuori. Quando leggo le parole di Bernie cerco di immaginare la musica, un po’ come hanno lavorato i tre artisti che hanno fatto i nostri video, hanno ascoltato le nostre canzoni cercando di visualizzare delle immagini. È come se avessero fatto il botox ai pezzi!».

SL. Come vi siete conosciuti, 50 anni fa?
EJ. «Bernie aveva 17 anni e io 20, suonavo in una soul band. Grazie a Long John Baldry, che aveva un certo successo commerciale, siamo finiti in quei club in cui la gente cena mentre ascolta la musica, una cosa che ho sempre odiato. Mi sono detto che quello non era il motivo per cui volevo fare il musicista».

SL: E allora cosa hai fatto?
EJ. «Ho scritto un paio di canzoni e le ho registrate con la mia band, poi ho risposto a un annuncio su un giornale musicale, era della Liberty records che aveva aperto un ufficio a Londra. Negli uffici ho incontrato un uomo, Ray Williams, che mi ha chiesto cosa sapevo fare. Ho risposto “so cantare e scrivere, ma non le parole”. Mi ha dato una busta dicendo “questo signore le sa scrivere…”. Era un testo di Bernie, e come dico spesso anche ai miei figli, da 50 anni a questa parte non abbiamo mai avuto una discussione».

SL: Non avere video è stata una scelta vostra o della casa discografica?
E. «Non esisteva questo processo, siamo preistorici (grandi risate, ndr)».
B. «Quando abbiamo visto il lavoro di questi tre ragazzi eravamo così eccitati che la prima cosa che ci siamo detti è “quali sono i prossimi?”. Le immagini danno cuore, mostrano come si può far parlare la musica ancora di più,danno un ulteriore twist».

SL: Non avere un video è come vivere in un’altra epoca.
E. «Noi siamo la generazione precedente a Mtv, e siamo fortunati, perché quell’emittente ha fatto esplodere anche un sacco di gente che semplicemente fa video, mentre gli artisti devono avere la musica. Ma è vero che se ce l’hai, un video, un disegno o uno stralcio di film la migliorano, ti fanno affondare dentro la melodia».

C’è un caso particolare, nei lavori che abbiamo appena visto, ed è quello di Majid Adin: era incredulo per il fatto di essere a Cannes a presentare un suo corto, quando solo un anno fa era un rifugiato. «Majid è riuscito a raggiungere Londra dall’Iran nel 2015, dopo essere passato dall’infame “jungle camp” di Calais. Laureato in Belle arti all’università, si sta ricostruendo una vita artistica in Inghilterra», spiega Elton John. «Con una simile esperienza personale, ha dato la prospettiva migliore ai temi chiave di Rocket Men, che sono la solitudine e il viaggio».

Articolo pubblicato da GQItalia.it 
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Sting on the rock

27 giovedì Ott 2016

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57th&9th, Alan Rickman, Coco Sumner, Cristiana Allievi, David Bowie, Dlarepubblica, Gordon Matthew Sumner, If you can't love me, Joe Sumner, Message in a bottle, Prince, Rock and roll Hall of fame, Sting, The last ship, The police, Trudie Tyler

Più sexy, ruvido: il re della musica inglese riparte dalle origini. E alza il volume con un album eclettico e sorprendente. Gordon Matthew Sumner parla di carriera, amore, figli. Di amici persi: Prince e David Bowie. E di sé. «Sono un agnostico curioso di sapere perché siamo qui».

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Sting, all’anagrafe Gordon Matthew Sumner, 65 anni, inglese, ha venduto 100 milioni di dischi. Il suo nuovo album si intitola 57th & 9th.

Sono le 10 del mattino e Sting ha appena finito di nuotare e scrivere una mail alla figlia Coco, che ieri sera aveva un concerto a New York. «Volevo sapere com’è andata, le ho chiesto di chiamarmi, ma non mi ha ancora risposto. In fondo sono sempre suo padre». Ride, mentre gli diciamo che dei dieci brani molto rock del suo nuovo album, 57th&9th, è una super ballad quella che lascia di più il segno. Forse perché If you can’t love me è quella che rallenta il ritmo vorticoso del disco. «La canzone non parla di me, ma di un amico molto vicino che attraversa la fine del suo matrimonio. Gliel’ho suonata e mi ha detto “stai raccontando la mia situazione!”, è così. È un pezzo triste. Scuro». Indossa un maglione di cotone e jeans super skinny, look total black e sne- akers senza lacci coloratissime. Quello che colpisce della nuova ventata rock di Sting, a decenni di distanza dall’ultima volta che ha affrontato il genere, è il fatto che non si tratta di quello dei Police, tra le rock band più di successo di tutti i tempi. Si trat- ta di una specie di eclettico incontro tra vecchio e nuovo. «C’è tutto il mio Dna in questo disco. Normalmente lavoro senza scadenze, aspettando l’ispirazione, ma stavolta è stato diverso. Il mio manager mi ha sventolato davanti agli occhi un foglio dicendomi: “Questa è la tabella di marcia. Inizi questo giorno e finisci quest’altro”. Gli ho risposto ok, ci provo. Non avevo idee, né preparazione, ho chiamato Dominic Miller e Vinnie Colaiuta, con cui lavoro da trent’anni, siamo andati in studio e abbiamo iniziato un gioco di ping pong a tre: uno lanciava un’idea e l’altro rispondeva. Poi tornavo a casa e iniziava il lavoro difficile: tradurre la storia astratta della musica. Per stare in quei tempi ho dovuto usare dei trucchi con me stesso. Mi chiudevo sul terrazzo della casa a New York, al freddo, con il cappotto e una tazza di caffè e mi dicevo che non potevo rientrare fin- ché non avevo finito la canzone. Così facendo in un weekend ho prodotto quattro brani! Per ognuno mi sono inventato un nuovo trucco». Nel nuovo album la voce è in primo piano, ed è giocata su tonalità basse e molto sexy. «Recito un personaggio, come fossi un attore, in nove pezzi su dieci. Solo in una canzone sono davvero io, Heading South On The Great North Road. Si ispira a una strada fuori Newcastle, la Great North Road, e parla del mio viaggio di giovane uomo, della promessa di una vita diversa. Già a sette anni ero distaccato, solitario e determinato. Da lì in avanti sono cambiato pochissimo».

A quell’età Gordon Matthew Sumner accompagnava il padre lattaio nelle sue consegne e intanto fantasticava di diventare un musicista. Negli anni ha sbarcato il lunario in vari modi, lavorato all’ufficio delle imposte, insegnato alle elementari di una città mineraria vicino a casa. Di sera suonava nei locali jazz, dove un musicista lo ribattezzò Sting, “pungiglione”, dopo averlo visto con un maglione a strisce gialle e nere. La svolta arriva a fine anni Settanta, quando si traferisce a Londra con la prima moglie, Frances Tomelty, e conosce quel Copeland con cui fonda i Police. Da lì in avanti la realtà supera tutti i sogni di bambino: escludendo 15 film girati e tre nomination agli Oscar, Sting ha vinto 10 Grammy Awards e un golden Globe, venduto qualcosa come 100 milioni di dischi e scritto alcuni tra i pezzi più memorabili degli ultimi trent’anni, vedi alla voce Roxanne, Message in a bottle, Every Breath You Take o Englishman in New York. Non soprende che un uomo così debba fare i conti con la fama, e dalla canzone Rise and Fall del 2002 alla nuova 50.000, l’analisi su cosa significhi essere una rockstar è un appuntamento fisso. «Per il mio completanno ero in Australia e ho suonato davanti a 500mila persone. La fama è un’esposizione intossicante, ti fa sentire forte e speciale. Ma è anche molto pericolosa: rischi di credere di essere davvero im- portante. E non lo sei, è solo un’illusione. Oggi quando salgo sul palco me la godo, è divertente, ma quando scendo sono solo. E felice di esserlo». 50.000 è una riflessione sulla mortali- tà, la disparità tra la natura divina di una star e la realtà riflessa dello stesso uomo. «Ho perso molti amici quest’anno, Prince, David Bowie e Alan Rickman. Erano tutte icone culturali e il bambino che è in noi rimane scioccato dal vedere che anche loro sono mortali. Come me». La riflessione è una delle due ali dell’arte di Sting. L’altra è la vastità degli spazi che attraversa. Dai tour come quello di quest’estate con Peter Gabriel ai dischi di canzoni di Natale; dai musical sulla propria adolescenza The Last Ship (che ha scrit- to e recitato per tre mesi a Broadway nel 2014), alla reunion dei Police anni fa, con tanto di tour mondia- le che ha fruttato qualcosa come 110 milioni di euro. Poi ci sono le aperture etni- che, testimoniate da brani come Desert Rose, e quelle più spirituali, come l’in- cisione del mantra Hare Krishna con Krishna Das, in cui Sting fa un passo in- dietro e usa la propria come seconda voce. «Conosco molto bene Krishna Das, abbiamo viaggiato insieme in India. Mi ha chiesto di cantare con lui e l’ho fatto. Non so come definire la mia spiritualità, sono un agnostico curioso di sapere perché siamo qui. Credo che siamo noi a creare dio: non credo che lui, o lei, esista fuori dall’immagi- nazione. Se sei arrabbiato, amareggiato e vendicativo, quello è il tuo dio. Se sei gentile, delicato e bilanciato, il tuo dio è questo. Bisogna stare attenti al dio che ci creiamo, perché diventa reale».

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10 sono i brani del nuovo disco in uscita l’11 novembre (courtesy DRepubblica)

Parole che rimandano alla Inshallah del nuovo disco, che in arabo suo- na più o meno “se è volere divino, accadrà”. È il titolo scelto da Sting per il brano dedicato alla crisi dei rifugiati. «È una parola bellissima, un’espressione di coraggio e speranza che si dovrebbe sentire di più. Io non offro una soluzione politi- ca al problema, ma credo che se una soluzione c’è, dev’essere radicata nell’empatia. Abbiamo idea di cosa significhi essere un rifugiato, trovarsi su una barca e sperare di arrivare a Lampedusa? O di come ci si senta a scappare da una guerra, dalla povertà o, tra poco, dagli effetti del cambiamento clima- tico?». Da vent’anni Sting lotta contro la deforestazione con la seconda moglie, l’attrice e produttrice Trudie Styler. L’ha spo- sata 24 anni fa con una cerimonia sfarzosa, in cui lei è arrivata all’altare sul cavallo bianco. In uno dei due libri che ha scritto, Broken Music, la «risposta pop al Dalai Lama», com’è stato ri- battezzato Sting dalla stampa Uk, racconta della prima volta che l’ha incontrata. «Mi è sembrata un angelo danneggiato», e poi: «Siamo insieme per guarire le reciproche ferite». I due viaggiano tra varie proprietà sparse per il mondo. C’è il castello nello Wiltshire (Sting lo chiama «la casa al lago»), in cui registra i suoi dischi. Ci sono le case di Londra e di New York, quella sulla spiaggia di Malibù e la Villa fiorentina Palagio, a Figline Valdarno. La coppia ha quattro figli, gli altri due vengono dal primo matrimonio di Sting con Frances Tomelty. «Ho sei figli e a gennaio raggiungerò quota sei nipoti, una cosa da non cre- dere. Ho completamente perso il controllo sul tema! Faccio un lavoro stagionale, c’è il momento in cui scrivo, registro e sono in tour, e poi arriva la stagione in cui posso dedicarmi alla famiglia». Un bilancio sul suo essere genitore? «Forse non sono stato un padre perfetto, ma ho dimostrato loro di avere un lavoro che amo e che farei anche gratis. Sono cresciuti in- dipendenti, compassionevoli, quindi non ho fallito, anche se è stato difficile. La loro madre è stata molto di supporto, i ragazzi si vogliono bene e io ne sono orgoglioso». Due sono musicisti, Coco e Joe. «Sono bravi. Per Joe è stato più difficile, ha vissuto nella mia ombra da quando era piccolo, mentre Coco è una donna, trova sempre la via d’uscita. Pratica la boxe, fa la deejay e lavora nella cucina di un ristorante di Londra. È curiosa come me. L’altro giorno camminavo per Park Avenue e me la ritrovo su un manifesto gigante, accanto alla cattedrale. È al numero 19 della classifica Usa, io al numero 5, manca poco e mi rag- giunge!». Ci pensa un attimo, poi: «Quando osservo i miei figli suonare, vedo in loro il 50% del mio Dna. Ma ad intrigarmi è il restante 50%, fatto di altri ingredienti. Ora che ci penso, sa che sto diventando molto emotivo?».

Articolo pubblicato su D La Repubblica il 24 ottobre 2016 

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«Gimme Danger», parola di Iggy Pop

24 martedì Mag 2016

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Bob Dilley, Cristiana Allievi, David Bowie, Gimme danger, Iggy pop, Jim Jarmusch, Jim Osterberg, MC5, The Stooges, Velvet Underground

 

È SBARCATO SULLA CROISETTE PER IL 69° FESTIVAL DI CANNES E, COME È GIUSTO CHE SIA, HA PORTATO UN PO’ DI SCOMPIGLIO. L’IGUANA DEL ROCK CHE HA FIRMATO LA COLONNA SONORA DI TRAINSPOTTING HA PRESENTATO IL DOCU FILM SULLA SUA VITA E QUELLA DEGLI STOOGES, GIMME DANGER, GIRATO DALL’AMICO JIM JARMUSCH. CON CUI AVEVA RECITATO IN COFFEE AND CIGARETTES

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«Gli Stooges, nell’essenza, sono stati una specie di ameba che ti entrava in casa senza che te accorgessi». Parola del suo frontman, Iggy Pop. Giacca di pelle e skinny pants neri, indossati con una t-shirt bianca, la rockstar di Detroit ha gli occhi blu che brillano. Ancora di più, mentre racconta il lavoro fatto con l’amico Jim Jarmusch per Gimme Danger, passato fuori concorso al Festival di Cannes. «Ho contributo con i miei ricordi» racconta commuovendosi da sopravvissuto quale è- e parlando della band nata ad Ann Arbor nel 1967, e dissolta nel 1974- «perché avevo buttato via tutte le foto. Ho suggerito a Jim di andare dai mie fans e dai nostri spacciatori, a cercare materiale inedito per il film». In 100 minuti di lavoro, rigorosamente cronologico, si alternano immagini di repertorio, concerti, racconti di sconfitte e risalite (con Iggy che parla in prima persona) ma anche momenti di show televisivi, cartoni animati e film degli anni Cinquanta. È un lavoro che illustra bene due anime che abitano nello stesso corpo: quella che all’anagrafe fa Jim Osterberg, e che racconta con voce placida delle droghe, dell’assoluta inconsapevolezza della sua band rispetto a idee come mercato discografico, diritti e royalties, e quella dell’animale a petto nudo che si butta spesso e volentieri dal palcoscenico, e che di nome fa Iggy Pop. Il regista di Down by Law e di Coffee and Cigarettes, che pochi giorni fa ha presentato in concorso sulla Croisette anche l’applauditissimo Paterson, ha scritto una lettera d’amore a una delle più grandi band della storia del rock, inserita anche nella Rock and Roll Hall of Fame, che nel 2003 si è riformata anche se i fratelli Asheton, Steve MacKay e Dave Alexander sono scomparsi. «Anch’io sono del Midwest», racconta, «e da ragazzo gli Stooges mi hanno aperto la mente. Loro, con gli MC5 e i Velvet Underground, erano tutto quello che ci interessava». Jim voleva che il suo omaggio fosse qualcosa di selvaggio, incasinato, emotivo, primitivo ma sofisticato. Le immagini che scorrono sono molto forti (Tom Krueger è direttore della fotografia), a sottolineare l’impatto di un gruppo apparso sulla scena alla fine degli anni Sessanta che ha letteralmente assalito il pubblico con il suo misto di rock, blues, R&B e free jazz, piantando il seme di quello che sarebbe stato il punk nel periodo successivo. «Nessuno ha avuto un frontman che incarnava allo stesso tempo Nijinsky, Bruce Lee, Harpo Marx, e Arthur Rimbaud», sottolinea il regista. «Usavamo molto LSD e lasciavamo che le cose accadessero in modo naturale», lo incalza Iggy. «Ricordo che un minuto ero la persona più aggressiva del mondo, e quello dopo scoppiavo a ridere… Oggi sono d’accordo con chi consiglia di evitare le droghe, perchè inizi dando loro un dito e finiscono col prendersi il braccio. Oggi bevo solo vino rosso e… No, non posso dire di limitare anche il sesso perché non è vero! Ma quando non faccio questo lavoro vado a letto presto». Cosa farebbe nella vita di diverso, se potesse? «Ho avuto grandi genitori che non ho ascoltato. Le cose sono cambiate solo con mia madre, a cui ho prestato più attenzione da un certo punto della mia vita in avanti». La storia si chiude con la rivelazione di quali sono stati i sui, di miti, oltre al fatto di aver avuto Dawid Bowie come nume tutelare. «Direi Bob Dilley e Chuck Berry su tutti. Ma anche Frank Zappa, specie quello Freak Out!, gli MC5 e i Velvet Underground».

articolo uscito su GQ Italia il  20/5/16

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Alice Balsom, la trombettista più bella del mondo

08 martedì Dic 2015

Posted by cristianaallievi in Musica

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Alice Balsom, Classic BRIT Awards, Cristiana Allievi, Dizzy Gillespie, Edward Gardner, Grazia, Haydn, Musica

Il tipo di viso e il biondo miele della chioma farebbero pensare a una svedese. Ma sono nel salotto di casa dell’inglesissima Alison Balsom, luminosa e stracolma di libri alle pareti. Lei, che viene da Cambridge, mi racconta di appartenere a una famiglia inglese da centinaia di anni. Fin qui tutto normale. Ma il resto è mitico, se si pensa che la Balsom è la trombettista più famosa del mondo, per almeno tre motivi. Primo, suona uno strumento poco familiare tra le donne. Secondo, è stupenda, e terzo, è molto molto brava (e fino a pochissimo tempo fa era in coppia con Edward Gardner, il quotatissimo giovane direttore d’orchestra inglese con la faccia da eterno ragazzino: la cosa non guastava affatto). Alison ha una predilezione per Haydn, a sette anni aveva già “la fortuna di suonare”, e la sua è una carriera straordinaria, che dal Conservatorio di Parigi l’ha piazzata subito nell’olimpo dei migliori trombettisti del mondo. Il 12 maggio prossimo, c’è da scommetterci, sarà incoronata artista dell’anno ai Classic BRIT Awards 2011, alla Royal Albert Hall di Londra, e sarebbe la seconda volta che succede. L’abito che indosserà? È di uno stilista italiano, e non è un caso…

Alison Balsom

 

Partiamo dallo strumento che suona, scelta inusuale per una donna. «È stato amore a prima vista, mi sono innamorata del suono della tromba a sette anni, e anche del suo silenzio. Mi è sembrato da subito uno strumento molto naturale da suonare».

 Ma come lo ha scoperto? «Mia madre aveva in casa una videocassetta di , una folgorazione. Ma ci sono altri fattori credo, per esempio il fatto che alle scuole elementari sia stata fortunatissima, suonavo già suonare vari strumenti, tra cui la tromba».

 Il 12 maggio molto probabilmente riceverà un premio come miglior artista classica dell’anno, sarebbe la seconda volta. «Sarebbe come se fosse la prima, però! E poi questa volta c’è un ingrediente speciale: suonerò in diretta sul canale più popolare del Regno Unito, Itv. Credo che anche gli spettatori meno attenti potranno capire molte cose sul mio strumento, quella sera, e l’idea mi rende felice».

 Guardando le cover dei suoi cd si capisce molto bene una cosa: il suo amore per la moda. Come lo coniuga  al “severo” look dei musicisti classici? «Sono entrambe mie passioni, la moda e la musica classica. Per quanto riguarda la musica, io non suono tutto ma solo quello che amo, e cerco di dare il meglio, di stare sempre a un livello altissimo. Dall’altra parte c’è il mio lato glamour, l’amore per i vestiti, e non mischio le sue cose, in genere. Ma quando si tratta di una cover è difficile separare…».

 Ho visto delle sue foto alla sfilata di Armani di qualche mese fa, e so che lui era a un suo concerto: come vi siete incontrati?«Avevo un concetto a Milano, durante la settimana della moda, la stampa da voi ne ha parlato molto. Credo che il suo staff abbia scoperto che ero in città, e mi hanno invitata a scegliere un abito».

 Quindi? «Ci siamo incontrati pochi minuti prima della sfilata, c’era tensione! Le modelle erano agli ultimi ritocchi, Armani mi ha detto “vai ad accomodarti, stiamo per iniziare…”. Ero in prima fila, e mi sentivo molto a disagio…».

 Per le star che aveva intorno? «No, perché avevo un abito cortissimo (ride, ndr)! La prima fila è molto in mostra, per fortuna ero seduta accanto a un bellissimo attore inglese, Luke Evans (uno dei protagonisti di Tamara Drewe, di Stephen Frears, ndr), ci siamo molto divertiti e dopo la sfilata sono andata dritta al mio concerto. Credo che Armani sarà presente anche alla serata dei Brit’s Awards a Londra».

 Ho visto una foto, in rete, in cui indossava skinny jeans e pullover, in total black: il look da rockstar è uno strappo alla regola, in una concert hall… «Sicuramente si trattava delle prove (ride divertita, ndr). Ma mi fa piacere l’idea, portare un po’ di rock nel mondo classico, credo sia necessario. Se non suoni bene è meglio che lasci perdere, ma se suoni bene, perché non aggiungere bollicine frizzanti?».

 A proposito di frizzante, come si allena per suonare uno strumento così fisico? «Direi che il mio lavoro è più simile a quello di una danzatrice che a quello di una sportiva. Ha molto a che fare con il comprendere il respiro, è quello l’elemento che fa andare tutto al posto giusto. Poi si tratta di fare molte scale…».

 A quali scale si riferisce? «A quelle musicali! Ma faccio anche yoga, una volta nuotavo e correvo, mi faceva molto bene farlo il giorno del concerto. Ma ora ho un figlio, che oggi ha un anno, e visto che lavoro da quando aveva 10 giorni, le cose sono un po’ cambiate! Quello che mi tiene in forma è lavorare moltissimo, viaggiare e suonare tre soli a sera, non è uno scherzo, mi creda».

 Quanti concerti fa, all’anno? «Un centinaio, e se aggiunge i viaggi, le prove e le incisioni di dischi, ho molto poco tempo libero».

Pochi giorni fa sui tabloid inglesi si è parlato della sua separazione dal direttore d’orchestra Edward Gardner. Facevate una coppia bellissima e super glamour… «Ci siamo separati a Capodanno, ma la notizia è uscita adesso. Oggi sono una madre lavoratrice single e sono serena. Mi piace suonare, sento di poter continuare a farlo bene. Non ho nuovo compagno, ma al momento mi sento proprio bene così come sono…».

 

Allison balsom concerto

Articolo pubblicato su Grazia del 2011

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