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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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Guillaume Canet, «Poveri noi, uomini».

05 sabato Gen 2019

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Cultura, Festival di Cannes, Personaggi

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7 uomini a mollo, cinema, Cristiana Allievi, Grazia, Il gioco delle coppie, piccole bugie fra amici

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L’attore e regista francese Guillaume Canet, 45 anni.

«Tutti oggi vogliono essere belli, con denti bianchissimi, muscoli guizzanti e senza capelli grigi. Trovo spaventoso questo voler essere così uguali, e se penso che solo poco tempo fa avere un po’ di peso in più era simbolo di successo e di ricchezza, è un cambiamento incredibile». Guillaume Canet non è il classico bad boy che cerca di stenderti al primo colpo. È un uomo d’altri tempi che ha a cuore sentimenti, ragionamenti e amicizia, e il cui fascino ha ritmi più lenti.

Figlio di allevatori di cavalli, Guillaume avrebbe voluto fare il fantino di professione ma un incidente a cavallo lo ha fermato e costretto a cambiare direzione. Da attore ha più di 40 film all’attivo, fra cui Amami se hai il coraggio e Last Night, e ha appena completato il sesto da regista, continuazione di quel Piccole bugie fra amici che ebbe un tale successo da lanciarlo a livello internazionale. Ex marito di Diane Kruger, ed ex anche di Carla Bruni, oggi ha due figli con l’attrice premio Oscar Marion Cotillard. Abbiamo capito molto di che padre è guardandolo in Mio figlio di Christian Carion, nei panni di un uomo a cui avevano rapito il figlio. All’oscuro della trama del film, che il regista gli svelava passo a passo, ci ha mostrato le sue vere reazioni, mentre si trasformava in una specie di giustiziere.

E molto di lui c’è anche in 7 uomini a mollo di Gilles Lellouche, film corale applaudito all’ultimo festival di Cannes nella sale dal 20 dicembre. Qui è un manager con problemi di rabbia che gli sono costati il matrimonio, si iscrive a un corso di nuoto sincronizzato e con altri uomini, tutti ex maci a pezzi, inizia un percorso di amicizia e fratellanza che cambierà i loro destini.

Infine dal 3 gennaio sarà un intellettuale che specula sul futuro dell’editoria (e non solo) in Il gioco delle coppie, di Oliver Assayas. «Marion ha riso moltissimo ascoltando i miei discorsi nei panni di Alain, non potrebbe essere più lontano da come sono nella vita vera», racconta a proposito del film, in Concorso all’ultima Mostra di Venezia, che ironizza e fa riflettere sulla rivoluzione della comunicazione, lo strapotere dei social e l’agonia del cartaceo,  in un mondo in cui un tweet sembra più determinante della buona recensione di un intellettuale. Guillaume è un editore parigino di successo che sta con un’attrice (Binoche) ma ha una relazione segreta con Laure (Christa Theret), esperta di editoria digitale.

Partiamo dall’impatto che ha su di lei la rete. «Un grande impatto direi, oggi si sa che puoi suicidarti buttando una frase in rete, su Twitter o in Instagram. Fai una battuta e vieni subito frainteso, devi stare molto attento».

Come gestisce i suoi social, in questo quadro?«Mostro molto del mio lavoro e delle mie passioni, ma non la mia vita privata. Si sa troppo degli attori e il rischio è  pensare a cosa fanno nel loro salotto anziché guardare quello che stanno facendo su uno schermo. Ho visto persone che amo e che rispetto condividere tutto su Instagram,  ho pensato che si fossero rincretiniti».

Come se lo spiega? «Li vedo  spaventati all’idea di perdere il contatto con gli altri, e quando qualcuno è così spaventato è perché ha bisogno d’amore. Condividi la vita privata per sentirti amato, ma milioni di likes non bastano se non sei tu ad amare te stesso, e mi sembra che molti di coloro che vivono sui social non abbiano abbastanza rispetto per sé. Io preferisco che mi amino i miei figli, sinceramente. Allo stesso tempo la questione è delicata, sembra che tu debba essere parte di tutto questo, altrimenti svanisci».

L’anno scorso  ha fatto un film da regista che affrontava la fragilità dell’ego di un personaggio pubblico, Rock’n’ roll, protagonisti lei in versione nevrotica e Marion Cotillard sua compagna. «È iniziato tutto da un’intervista. Una giornalista mi ha elencato cose che era certa fossero accadute nella mia vita, e che in realtà non erano mai successe, e ha concluso dicendo “certo che fra moglie, figli e cavalli, non sei un tipo molto rock and roll…”. È scattato qualcosa in me, mi sono detto “sapete cosa? Volete vedere chi sono? Ora vi faccio entrare in casa mia e vi mostro chi sono”. Dopo tanti anni di proiezioni pubbliche su di me, ho voluto giocare io con la mia immagine».

E come è andata? «Chi ha letto la sceneggiatura mi ha detto che avrei rovinato la mia carriera, gli ho risposto che non avevo niente in contrario!  Nella prima parte ci siamo io e Marion che viviamo le nevrosi della celebrità, poi da metà film si scopre che è tutta una finzione. E sa una cosa? Molti hanno amato il film e chi non l’ha fatto curiosamente non ha apprezzato la seconda parte, quella in cui si capiva che era tutta una finzione».

Non è stata la prima volta in cui lei rischia grosso. Dopo Piccole bugie fra amici, un grande successo,  poteva girare la parte due, o una commedia, invece ha deciso di girare Blood ties… «Un film difficile, in inglese e negli Usa, dove nessuno mi conosceva. È stato ricevuto male da pubblico e critica  e nonostante sia molto critico nei confronti del mio lavoro, mi è sembrato davvero eccessivo, e mi ha mandato in depressione. Non volevo sentir più parlare di cinema, per un anno sono tornato ai miei cavalli, ho girato l’Europa facendo gare e dormendo nel mio furgone. Tempo dopo è arrivata la provocazione di Rock’n’roll».

Tornando ai social, come vi regolate con i vostri figli? «Per fortuna sono troppo piccoli, hanno 7 anni e 20 mesi, ma io sono già preoccupato. «Cerco di insegnar loro il giusto equilibrio, a essere focalizzati sin da piccoli sul positivo, considerato il numero di teeneger che si suicida perché non sopporta la mole di odio in circolazione è complicato. L’unico modo per proteggerli è mostrare loro le cose belle della vita, i fondamentali, fargli capire la differenza fra il mondo concreto e quello parallelo degli haters».
7 uomini a mollo mette in evidenza idee sui canoni estetici e lo fa per contrasto, mostrando fisici di uomini molto ordinari. La pressione sull’essere in forma è aumentata anche per gli uomini? «Non credo in particolar modo in Francia. Per le attrici è sempre stato difficile invecchiare, a causa del grande schermo, che amplifica, ma da un po’ le cose sono cambiate anche per gli uomini. So che in Usa attori famosi hanno già nei loro contratti la clausola secondo cui la produzione deve cancellare i loro difetti fisici, e visto che in Francia arriva tutto 10 anni dopo, stiamo a vedere: sta iniziando con le attrici, arriverà anche a noi. Comunque intorno a me vedo sempre più gente che cade in depressione, e i social, uniti a questa corsa continua che consuma tutto, non aiutano».

Ci stiamo avvelenando? «Dimentichiamo di vivere il presente, stiamo sempre a pensare a cosa faremo fra un minuto, e non respiriamo. Qualche giorno fa ero nel sud della Francia, stavo guardando mio figlio e mi sono perso a pensare a come sarebbe stato fare una serie di cose che dovevo fare i giorni successivi. Non mi sono nemmeno accorto del percorso fatto per arrivare nel bosco, per tutto il tragitto ero rimasto nella mia mente, non mi sono goduto niente del mio ultimo momento di verde.  Mi sono seduto su una panchina, e mi sono preso tempo per tornare al momento presente».

In che modo è utile? «Torni a respirare, a sentire i passi che facciamo, gli odori, a vedere i colori ci ricordano. Serve a tornare a coltivare il nostro istinto».

Cosa la aiuta in questo senso? «Ho iniziato a praticare Qi Gong, faccio 18 esercizi ogni mattina. Da quattromila anni in Cina sanno che quando hai un problema fisico è perché la tua energia è bloccata da qualche parte, e se non ci fai qualcosa ti ammalerai. Gli esercizi che faccio sono come respirare, e alla fine dei 20 minuti ho le mani che vibrano di energia e la faccia piena di vita. Sa una cosa? Se viviamo bene il chirurgo estetico non serve».

Intervista pubblicata su Grazia il 13 Dicembre 2018 

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Carey Mulligan: «Non voglio più scappare».

26 lunedì Nov 2018

Posted by Cristiana Allievi in Cannes, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Torino Film Festival

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Carey Mulligan, Cristiana Allievi, esordio alla regia, giornalismo, Grazia, interviste illuminanti, Paul Dano, Wildlife

 

NEL FILM APPENA PRESENTATO AL FESTIVAL DI TORINO È UNA DONNA TORMENTATA CHE FUGGE DA SUO MATRIMONIO. E L’ATTRICE RACCONTA A GRAZIA DEI SUOI DUBBI E DEL MOMENTO IN CUI HA FINALMENTE CAPITO QUALE FOSSE IL SUO POSTO NEL MONDO

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L’attrice Carey Mulligan, 33 anni, fotografata da Richard Phibbs per Grazia.

«Farebbe questa domanda anche a un uomo?». Quando le rispondo che si, chiederei anche a un attore se l’arrivo di due figli ha cambiato il suo modo di scegliere ruoli al cinema, Carey Mulligan sembra sollevata. «L’unica cosa che è cambiata è che, ancor più di prima, lavoro solo se vale davvero la pena di stare lontano dai miei figli. Dev’essere tutto perfetto, per farmi venire la voglia di lasciarli». Quella parola, perfetto, mi colpisce, e presto capisco perché. Abito castigato sotto il ginocchio, blu a pois bianchi, e caschetto biondo decolorato, poco dopo mi dice di non rivedere mai i propri film. «È terribile, intercetto tutti gli errori e penso che avrei dovuto fare le cose diversamente. Guardarsi su uno schermo è un’esperienza strana, è come sentire la propria voce nella segreteria telefonica e confrontarla con quella vera». Il fatto di essere british rincara la dose, in fatto di perfezionismo. 33 anni, nata a Westminster da una madre lettrice universitaria e un padre manager di hotel, Mulligan è sposata con Marcus Mumford, il leader dei Mumford & Sons, con cui ha due figli, l’ultimo di poco più di un anno. Ha iniziato a recitare a scuola a sei anni, ma dopo il liceo non è stata accettata dalla scuola di teatro. Una parte in Downtown Abbey e quella in Orgoglio e pregiudizio hanno fatto partire la sua carriera, mentre a fare di lei una star del cinema è stato An education, con cui si è ritrovata catapultata di colpo sotto i riflettori. «Non mi ero mai vista così tanto tempo sullo schermo, ho pensato di essere veramente noiosa, ero tutta faccia e non facevo niente… Ho chiamato mia madre, prima dell’anteprima al Sundance, per dirle “è terribile, non voglio andarci, torno a casa”. Poi il film ha avuto un tale successo, le nomination agli Oscar… Mi spiace non essermelo goduto, ho iniziato a riconoscere il mio lavoro solo alla fine». Diciamo che non stupisce che non si sia fatta divorare dalla macchina della notorietà, anche perché protegge la sua privacy con determinazione. Parliamo del suo ultimo film, una storia ambientata nel Montana negli anni Sessanta che racconta di una giovane coppia con un figlio che va in crisi e di una madre, lei, che tenta di cambiare radicalmente vita.  Wildlife, esordio alla regia di Paul Dano, passato all’ultimo Festival di Cannes e sugli schermi del Torino Film Festival il 23 novembre,  è basato su un romanzo di Richard Ford. Lei è Jeanette, una casalinga che deve badare a se stessa e a suo figlio dopo che il marito (Jake Gyllenhaal) le pianta in asso per andare a spegnere un incendio forestale. Si imbarca in una relazione pericolosa che può stabilizzare la sua famiglia o distruggerla. Un altro personaggio molto sfidante, adattato dal regista e dalla sua cosceneggiatrice e compagna, Zoe Kazan.

In Wildlife mostra aspetti di una donna che non si vedono spesso al cinema. «È inusuale vedere donne che mandano tutto in malora, per un momento. E se sbagliano fanno solo quello, non sai mai chi sono davvero, da fallite. La donna che interpreto è una brava madre e una brava moglie, ma non vedi questo di lei, quanto i suoi lati più deboli».

Da mamma perfetta a donna che beve e che cerca un amante ricco, da cui porta anche il figlio: è stato un viaggio interessante? «Mi piace l’esplorazione di varie versioni di sé. Jeanette si accorge di colpo, a 34 anni, che non ne avrà più 21 e che le cose che si era immaginata di essere, da teenager, sono sparite: è ridotta a essere una madre e una moglie, ed è normale essere molto spaventate. E poi diciamo la verità, non ci piace vedere donne infedeli, mentre tolleriamo che lo siano gli uomini, quindi sono felicissima di averla incarnata io!».

Cosa le è risultato più difficile? «Le scene da ubriaca, sono difficili da recitare, mentre la guerra con mio marito è stata facile».

Crede che la situazione delle donne è cambiata, dagli anni Sessanta?  «All’epoca il tabù sui matrimoni che finiscono in divorzi era molto più grande, il divorzio era quasi innominabile in certi ambienti. Ma sotto la superficie, in termini di ciò che ci si aspetta dalle donne è abbastanza simile, c’è ancora molta pressione: ora si possono fare scelte leggermente diverse, ma che tu sia una casalinga o una madre che lavora devi essere tutto e fare tutto, ed è ciò a cui reagisce il mio personaggio».

In cosa le assomiglia? «Mi sono identificata con la reazione a quella sensazione del tempo che passa, il panico che hai quando ti rendi conto di quanto tempo è passato. Ho riascoltato una canzone che ascoltavo molto quando avevo 19 anni e mi ha fatto saltare il cuore, ho pensato “avevo 19 anni due minuti fa!”».

Nel film dice “ho 34 anni”, come se fosse vecchia. «All’epoca era così. Quando mia madre è tornata nella sua città natale, nel Galles, dalla Giordania in cui viveva, e ha detto che non era sposata, pensavano che fosse divorziata: non potevi essere celibe a 28 anni, ed erano gli anni Ottanta!».

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia del 22 Novembre 2018

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Livia Firth, la rivoluzionaria della moda

17 lunedì Set 2018

Posted by Cristiana Allievi in arte, cinema, Cultura, Moda & cinema

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Colin Firth, Cristiana Allievi, Eco-Age, Grazia, Green Carpet Fashion Award, interviste illuminanti, Livia Firth, moda eco, sostenibile

 

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Livia Firth, imprenditrice e produttrice cinematografica (foto di Julian Hargreaves per Grazia)

È UN’IMPRENDITRICE CHE AIUTA LE MAISON A PRODURRE ABITI E GIOIELLI IN MANIERA RISPETTOSA DI AMBIENTE E LAVORATORI. ALLA VIGILIA DEI GREEN CARPET AWARDS, GLI OSCAR DELLO STILE SOSTENIBILE CHE SARANNO ASSEGNATI A MILANO, POSA PER GRAZIA E RACCONTA I PASSI AVANTI IN UNA BATTAGLIA IN CUI HA AL FIANCO SUO MARITO, L’ATTORE COLIN

«Non bastava che il nostro aereo fosse in ritardo, ci hanno anche fermato all’immigrazione. Risultato, abbiamo due ore di ritardo».  Siamo in una suite dell’hotel Cipriani, a Venezia, e nonostante Livia Firth abbia viaggiato per ore, si presenta all’intervista fresca come una rosa grazie al suo truccatore di fiducia. Vive da anni a Londra, ha una casa in Umbria e un marito da vent’anni che di nome fa Colin Firth ed è un premio Oscar. Insieme hanno due figli, Luca, 17 anni, e Matteo, 15. Ma parlare della sua vita privata, con lei, è impossibile: ha deciso anni fa che non lo avrebbe più fatto perché- parole sue- le affermazioni che faceva venivano regolarmente fraintese. Così focalizza le sue attenzioni sull’attività di produttrice e imprenditrice di Eco-Age, una società di consulenza che aiuta le aziende a diventare ecosostenibili. Ma a proposito di marito, alla serata di Chopard che seguirà alla nostra intervista i due sono stati sorridenti e inseparabili, a dimostrare che la crisi attraversata qualche tempo fa è stata definitivamente superata. Prima di parlare con me, Livia da un occhio agli abiti appesi sullo stand che indosserà in questo servizio fotografico, e punta decisa sui colori più vivaci. Il 23 settembre, in piena settimana della moda, sarà di nuovo sul The Green Carpet Fashion Award, progetto di cui è madrina e che per il secondo anno avrà come magnifico scenario il Teatro alla Scala di Milano. Partiamo da qui.

 Lei combatte il “fast fashion”, la moda a basso costo che punta sulle ultime tendenze… «Non saremmo qui a parlare di moda sostenibile, se non esistesse il fast fashion. Fino a 30 anni fa compravamo e consumavamo in modo diverso, oggi tutto è usa e getta, con ripercussione sull’ambiente e sulle persone che creano questi prodotti: i vestiti vengono confezionati da persone che vivono come schiavi».

 Il documentario The True Cost, mostrato in anteprima mondiale a Cannes nel 2016, raccontava con immagini scioccanti l’impatto della moda a basso costo sull’ambiente e sulla vita delle persone. Come hanno reagito i grandi marchi dello stile, considerato che alcuni di loro decentrano la produzione per abbassare i costi? «La moda del lusso ha dovuto fare dei compromessi per competere con il fast fashion, produrre anche all’estero, per esempio in Bangladesh, con le agevolazioni del caso. Ma è anche vero che molti brand del lusso si sono accorti per primi di dover cambiare le cose e di non poter usare certi mezzi. Il gruppo Kering in Italia, che comprende Gucci e Bottega Veneta, ma anche Stella McChartney, si muovono diversamente: sono alcuni fra i marchi del lusso che controllano completamente la loro filiera perché tengono alla reputazione».

 Dove è arrivato il suo impegno con Eco-Age e la moda sostenibile? «Nell’ultimo anno i cambiamenti sono stati radicali.  A forza di parlarne si è rotto un argine e le persone ascoltano più facilmente, adesso è entusiasmante parlarne. E tanti amministratori delegati hanno capito che la sensibilità fa parte del profitto di un’azienda e che se vuoi un business che funzionerà anche fra 10 anni devi avere un certo tipo di produzione».

Se si volta indietro, dove colloca l’inizio della sua battaglia? Cosa ha fatto scattare la molla dentro di lei? «L’idea di Eco-Age è stata di mio fratello Nicola: quando ha aperto, nel 2007, era un negozio. Aveva finito Economia e commercio a Roma ed è venuto da me e Colin  a Londra,  a perfezionare l’inglese. Non sapeva cosa avrebbe fatto da grande, ma non voleva lavorare nel mondo finanziario. Essendo sempre stato appassionato di eco sostenibilità, un giorno è venuto da noi e ci ha chiesto: “se doveste comprare un pannello solare, dove andreste?”. Gli abbiamo risposto che non ne avevamo idea. Gli si è accesa una lampadina: “Visto che non esiste un negozio per strada, in cui puoi entrare  e chiedere informazioni, lo apriamo noi”. Eco Age, a Londra, è stato il primo negozio per la casa specializzato in materiale eco sostenibile. Abbiamo lanciato la prima libreria in materiale eco sostenibile al mondo, venivano tutti a fare un giro lì».

Poi? «Sono andata in Bangladesh, con Oxfam, per una campagna contro la violenza domestica. Ho chiesto se mi facevano entrare di nascosto in una fabbrica e mi ha talmente scioccato quello che ho visto che ho capito che dovevamo dimenticarci della casa e passare alla moda. È un’industria che ha una grande responsabilità e una grande colpa: al momento è il business che riduce il maggior numero di persone a una forma di schiavitù moderna».

Lei ha ideato il il Commonwealth Fashion Exchange con il quale è arrivata a Buckingham Palace, il palazzo che ospita la Regina Elisabetta. Ci può dire di che cosa si tratta? «Il segretario generale del Commonwealth è una donna, la baronessa Patricia Scotland. Voleva fare qualcosa di speciale per riunire i paesi del sotto un unico ombrello, ha scelto la moda come veicolo per parlare di cose serie. Il concetto di Fashion Exchange, il più grande scambio di moda mai esistito, ha coinvolto designer di 56 paesi del mondo, incluse isolette del Pacifico mai sentite nominare prima. Kate Middleton è diventata madrina dell’evento, ha una grande passione per i tessuti, qualche anno fa aveva visitato tutti i tessutai inglesi».

(…continua)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 13/9/2018

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Bérénice Bejo: «Una signora parla anche di soldi».

05 giovedì Lug 2018

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Personaggi

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Berenice Bejo, Cristiana Allievi, Grazia, L'incredibile viaggio del fachiro, Michel Hazanavicius, The artist, The Lost Prince

«Paul Newman accettò di togliersi una parte di compenso  per darla a Susan Sarandon, coprotagonista con lui sul set di Twilight. Magari oggi ci fossero attori di quel tipo». Berenice Bejo è determinatissima, soprattutto in tema di parità fra sessi, ed è quanto di più lontano dal personaggio che sta per interpretare nella commedia avventurosa L’incredibile viaggio del fachiro, Nelly, una diva annoiata. Il film di Ken Scott, in sala dal 4 luglio, racconta la storia di Aja (la bravissima star Bollywoodiana  Dhanush), un mago di strada di Mumbai che dopo la morte della madre parte per un viaggio davvero fuori dal comune alla caccia del padre che non ha mai conosciuto. Nelly è uno dei personaggi che lo aiuteranno a realizzare quanto la vita sia ricca di tesori. «Quando ho fatto vedere il film a mia figlia (Gloria, 7 anni, ndr) mi ha chiesto tutto il tempo “mamma, ma quando arrivi”? E io “tranquilla, ti assicuro che ci sono, arrivo fra poco…”», racconta divertita l’attrice di origine argentina, che arriva in scena più o meno a metà dell’opera nei panni di una famosa star annoiata dalla vita. E avendo girato la sua parte quasi interamente a Roma ne è stata colpita al cuore: «La scena che si svolge davanti alla fontana di Trevi mi ha emozionata, mi sono sentita di colpo in un film italiano degli anni Cinquanta e Sessanta». Argentina di Buenos Aires, è figlia di Miguel Bejo, un regista spagnolo, e dell’avvocatessa De Paoli, che quando aveva tre anni sono fuggiti dalla dittatura di Jorge Rafaél Videla portandola a Parigi. La sua storia artistica è sui generis. Da bambina sfiora una parte in un film di Gérard Depardieu, e quando non la ottiene si dispera. Poi, a 17 anni, rispondendo a un annuncio prende finalmente parte al suo primo film, algerino, ma per i successivi 20 anni resta praticamente una sconosciuta, finché non interpreta la star del cinema muto che regalerà a The artist, diretto dal marito Michel Hazanavicius, ben 10 nominations e cinque statuette agli Oscar. Ad agosto la coppia sarà di nuovo sul set, alle prese con un nuovo film insieme, The lost prince.

Come descriverebbe Nelly, la donna che interpreta in L’incredibile viaggio del fachiro? «È una famosissima attrice che ha fatto tutti i film che voleva, con tutti i registi che stimava, e ora è annoiata dalla vita e dal lavoro. Non le interessa più niente, e questo fatto mi piace moltissimo».

Perché? «È una donna stupida, ha tutto ed è infelice, mi diverte il ruolo».

Quando incontra Aja, l’indiano che si ritrova in stanza, chiuso in un baule, all’improvviso qualcosa in lei cambia. «È la diversità a colpirla. È stufa di gente che finge di essere brava nel lavoro, di avere belle storie da raccontare… In realtà tutti pensano solo ai solo, mentre quell’uomo ha davvero  qualcosa da dire, e le ricorda di quando ha iniziato a recitare lei, e tutto era possibile».

Ha ricordato qualcosa anche a lei? «Cerco sempre di scegliere progetti che abbiamo un punto di vista e vengano da persone convinte. Quando accetto un film devo allontanarmi da casa, deve interessarmi davvero: non sono un tipo di persona che può lavorare solo per soldi e fama».

Quando lavora come gestisce i suoi due figli? «Sono sempre stati a casa, non me li porto con me. Ma non sto mai via troppo tempo, e quando non ci sono io è presente il loro padre. Michel gira un film ogni tre anni, e sta sul set due mesi. Il resto del tempo lo passa a scrivere e montare, a Parigi. Siamo sempre noi a  portare i ragazzi a scuola, tutti i giorni, solo in casi rarissimi chiediamo aiuto ai nonni».

Il film parla di un viaggio incredibile, anche la sua storia di famiglia ne vanta uno degno di nota. «Sento connessione con chiunque viaggi lontano dalla propria casa, per problemi politici, a causa del mio passato. E anche se non sono come i miei genitori, che sono scappati, conosco quel feeling grazie a loro. Oggi parliamo sempre dei migranti, come fosse un’etichetta. Ma non esiste questo tipo di “gruppo”, ognuno è una persona a sé, un essere umano che andrebbe ascoltato».

Cosa le racconta sua madre degli anni in Argentina? «Da bambina mi diceva spesso “sei nata durante la dittatura”, e io le chiedevo “perché hai fatto due figlie in un simile contesto, quando eri costretta persino a  nasconderti?”».

Risposta? «Diceva che la vita è più forte di tutto, lei ci voleva e ci ha fatte. E la comprendo. Ho molti di amici ceceni e ruandesi a cui sono successe cose tremende, quando ne parlano ancora piangono. Ma ce la fanno a vivere, in qualche modo sono andati oltre».

 

(…continua)

Intervista pubblicata su Grazia del 28 giugno 2018

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Charlie Hunnam: «Solo lontano da Hollywood mi sento libero».

29 venerdì Giu 2018

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Letteratura, Riflessione del momento

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Charlie Hunnam, Civiltà perduta, Cristiana Allievi, Grazia, interviste, Morgana McNelis, Papillon

IL FISICO DA SEX SYMBOL PER CHARLIE HUNNAM È STATO UN LIMITE: GLI VENIVANO PROPOSTI SOLO RUOLI FACILI. PAPILLON, IL REMAKE DEL PIU’ FAMOSO FILM SULL’EVASIONE, È INVECE LA SUA GRANDE OCCASIONE. MA CON GRAZIA L’ATTORE HA PARLATO DI UN’ALTRA FUGA, QUELLA CON LA DONNA ALLA QUALE HA SCRITTO UNA LETTERA D’AMORE AL GIORNO

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L’attore inglese Charlie Hunnam, 38 anni (Courtesy of Marteen de Boer su Grazia).

È il tipo di uomo che ti fissa dritto negli occhi. Per qualche secondo pensi che stia flirtando, ma non è così: capisco in fretta che è concentrato sulla conversazione, che ascolta davvero ogni parola. Ha capelli biondi e il corpo scolpito: Charlie Hunnam trasuda un fascino diverso da quello dei belli e famosi del grande schermo. E più vai avanti a parlare con lui più noti anche che non si dà arie ma è schietto e diretto. Questo attore inglese 38enne ha esordito come il motociclista sporco e cattivo della serie tv Sons of anarchy, e in un ventennio di cinema ha già lavorato con Guillermo del Toro in Pacific Rim e con Anthony Minghella in Ritorno a Cold Mountain, prima di diventare il visionari o esploratore Percy Fawcett in Civiltà perduta. Ma soprattutto quello che colpisce di lui sono il coraggio, e la pazienza, di non cadere nella trappola di usare come scorciatoia per il successo quel fascino angelico che si ritrova, nonostante bruciasse dalla voglia di dimostrare di cosa fosse capace. «Ho dedicato molto della mia vita a lavorare per il cinema e a diventare il miglior attore possibile», racconta a Grazia. «Ho dovuto sopportare parecchia frustrazione, perché molte delle cose che mi venivano offerte non erano al livello in cui mi sentivo, o di cui sapevo di essere capace. In altre parole, mi sono sacrificato parecchio e ho cercato di limitare i danni, ed è stato piuttosto faticoso». Certo, ha dovuto combattere. Guy Ritchie, l’ex marito di Madonna, all’uscita del suo Re Artù aveva detto “c’è più grasso in una patatina che in Charlie”, intendendo che non fosse abbastanza robusto per il ruolo. Quando lo ha saputo è volato da Londra a Los Angeles per farsi vedere dal vivo, e il film è stato suo. Ma, ironia della sorte, quando ha iniziato l’allenamento per il set ha incontrato Gray per Civiltà perduta, e pare il regista gli abbia detto “non c’è niente di più distante da un esploratore del secolo scorso…”. Risultato? Charlie ha perso un sacco di chili e ha fatto di nuovo centro. Oltre ai suoi talenti recitativi, Hunnam scrive e produce numerosi progetti cinematografici e televisivi, e dal 27 giugno lo vedremo in Papillon, diretto da Micahel Noer  in un rifacimento del celebre film del 1973 tratto dal best seller autobiografico di Henri “Papillon” Charrière, uno scassinatore parigino erroneamente incarcerato per omicidio e condannato a vivere nella famigerata colonia penale sull’Isola del Diavolo. Determinato a liberarsi, crea un’improbabile alleanza con un altro condannato, Louis Dega (Rami Malek), che in cambio di protezione accetta di finanziare la fuga di Papillon. Fra i due nascerà una toccante amicizia.

Cos’ha pensato quando le hanno offerto il remake di un cult che ha schierato Steve McQueen e Dustin Hoffman? «L’ho rifiutato, nonostante apprezzassi il regista ero scettico sul riproporre un classico molto amato. Ma quando mi è subentrato un altro attore ho pensato che avevo fatto un errore, e mi sono torturato riguardando tutti i film del regista! Poi però sono tornati da me, perché l’altro attore ha abbandonato il film».

E come l’hanno convinta? «Mi sono seduto col regista e gli ho chiesto: “se fossimo liberi, cosa vorremmo raccontare davvero di questa storia?”. Ho capito che eravamo ossessionati  dal sistema contemporaneo di privatizzazione delle carceri americane. Quello che stiamo permettendo è terrificante, e fare in modo che il pubblico veda i fatti in una prospettiva storica, provandone disgusto, mi sembrava un buon servizio».

Come si è avvicinato a questo tema? «Grazie al mio consulente finanziario, 12 anni fa, quando voleva che investissi in azioni nelle prigioni. Funziona che una compagnia compra una prigione dal governo e ne diventa proprietaria, poi chiede denaro al governo per ospitare i prigionieri, e considerati tutti gli extra parliamo di circa 50 mila dollari l’anno a detenuto, un business spaventoso con molti risvolti».

Per esempio quali? «Il valore delle azioni sale e scende in base all’occupazione delle carceri, quindi se uno entra per soli otto giorni, dicono che ha guardato male un secondino per affibbiargliene altri 20, è scioccante. Il governo francese all’epoca ha cercato di colonizzare la Guyana, e per iniziare si doveva tagliare alberi, costruire strade e infrastrutture. Così la colonia di prigionieri è stato un modo per fare soldi approfittandosi della sofferenza di quegli uomini».

Ha dovuto perdere di nuovo molto peso, come era successo per Civiltà perduta. «La differenza è che allora mi sentivo in forma, qui invece ero molto giù. Per dimagrire di 18 chili in 10 settimane ho dovuto essere molto duro con me stesso, e per due giorni sono stato brutale, sul set».

Nella vita normale come si mantiene con i piedi per terra, considerato il lavoro che fa? «Cerco di rimanere il più presente possibile, e ci sono scorciatoie che mi aiutano. Se viviamo una vita sedentaria la chimica non funziona e diventiamo tristi. Per me l’esercizio fisico è molto importante, a Los Angeles corro e faccio escursionismo sulle montagne del Runyon Canyon, non è il posto più bello che conosca ma è proprio fuori dalla porta di casa».

Prima parlava di tristezza, ultimamente parecchi personaggi famosi, dallo chef Bourdain alla stilista Kate Spade, si sono tolte la vita, lei che idea si è fatto di queste drammatiche vicende? «Non posso entrare in vicende personali, né voglio banalizzare, ma ho letto che l’America ha un depresso su cinque e che il tasso di suicidi è cresciuto del 25 per cento dal 1999. Sono sicuro che se chi prende antidepressivi mangiasse anche bene e facesse esercizio fisico regolare starebbe molto meglio a livello di umore. Perché quando non utilizziamo le meccaniche di base con cui siamo progettati andiamo contro natura, mentre quando usi i muscoli senti subito le endorfine, che ti danno un senso di stabilità emotiva».

(Continua…)

Intervista pubblicata su Grazia del 21 giugno 2018.

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«New York ha ancora bisogno di me», Cynthia Nixon

19 martedì Giu 2018

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Cultura, Festival di Berlino

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A quiet passion, Cristiana Allievi, Cynthia Nixon, Emily Dickinson, Grazia, LGBT, Politica, primarie 2018, Sex and the City, Usa

VENT’ANNI FA NELLA SERIE CULTO SEX AND THE CITY ERA UNA DONNA LIBERA E CONTROCORRENTE, E OGGI CONSERVA ANCORA QUESTA QUALITA’. AL CINEMA, DOVE INTERPRETA UNA POETESSA EMANCIPATA, E FUORI DAL SET, DOVE SI È CANDIDATA GOVERNATORE DELLO STATO CHE LE HA PERMESSO DI SPOSARE LA DONNA DELLA SUA VITA

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«Cynthia Nixon è superba in questo ruolo»,  ha scritto il quotidiano britannico The Guardian. Ma non si riferiva solo alla decisione di candidarsi Governatore dello stato di New York (le primarie sono il 13 settembre), perché l’attrice lanciata dalla serie tv Sex and the City lascia senza parole anche nel film A quiet passion (nelle sale), in cui interpreta la poetessa Emily Dickinson. Ci sono, comunque, molti punti in comune fra l’attivismo politico di Nixon e la nuova eroina ultra contemporanea che interpreta sullo schermo,  ovvero una donna che ha lottato contro l’intera società, quando tutti pensavano che la professione di scrittrice fosse inappropriata per una ragazza. Una donna modernissima che ha preso forza dalle sue simili, come le sorelle Brönte e Elizabeth Browning e ha combattuto per essere presa sul serio. Lo stesso che, passando dal set alla politica, dovrà fare la Nixon. A dire il vero, per le 40enni Cynthia era un tipo controcorrente già nella serie tv che l’ha resa celebre: nei panni di Miranda Hobbes era il personaggio più progressista, femminista, impegnato e anticonvenzionale di Sex & the city. Fuori dal set ha saputo essere anche più sorprendente: dopo anni con il suo partner, Danny Mozes, con cui ha avuto due figli (Samantha e Charles, 21 e 15 anni), Nixon ha sposato Christine Marinoni, attivista del movimento per i diritti di lesbiche, gay, bisessuali e transgender, e con lei ha avuto Max, 7 anni. Nel mezzo è riuscita a superare anche un cancro al seno, affrontando pubblicamente la sua malattia. Nel frattempo l’abbiamo vista in prima fila a tutti gli appuntamenti che contano, compresa la Women’s March del 2017, la marcia delle donne che ha sancito la nascita del movimento trasversale per la rivendicazione dei diritti femminili.

Lei è un’attrice attivista e newyorkese di oggi. Che cosa sente di avere in comune con una scrittrice dell’Ottocento come Emily Dickinson? «Quando ero una bambina, ero molto timida. Non riuscivo ad essere per gli altri la ragazza che si aspettavano che fossi. Credo di assomigliare a Emily in questo».

Fra i tanti misteri che riguardano la scrittrice c’è quello della sessualità. Pensa che fosse lesbica? «Se devo dare un parere, credo fosse molto innamorata di sua cognata, Susan Gilbert, e alla fine si è sentita tradita da lei. La definirei bisessuale, ma di fondo era una persona talmente appassionata e così desiderosa di instaurare rapporti da andare oltre i luoghi comuni».

Chi è più femminista fra voi? «Dickinson era molto interessata all’uguaglianza delle donne, aveva idee chiare contro la schiavitù e la guerra civile, ma non ha messo molto nel movimento politico. Io ho più fiducia in quella direzione di quanta non ne abbia avuta lei, so che bisogna impegnarsi in prima persona per concretizzare le idee».

Così ha deciso di candidarsi alle primarie democratiche del prossimo 13 settembre sfidando l’attuale governatore Andrew Cuomo. Perché questa decisione? «I nostri leader ci stanno deludendo, siamo lo stato con le più marcate diseguaglianze nell’intero Paese, con ricchezza incredibile e povertà estrema. Siamo stanchi di politici che si preoccupano di titoli e potere e non di noi. Io vivo a New York da sempre, è la mia casa».

(continua…)

 

Intervista pubblicata su Grazia del 13/6/2018 

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Vanessa Paradis: «Un po’ di follia è il mio regalo di nozze».

08 venerdì Giu 2018

Posted by Cristiana Allievi in Festival di Cannes, Moda & cinema, Personaggi, Senza categoria

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Cannes, Chanel, Cristiana Allievi, Festival di Cannes, Grazia, Knife+Heart, Vanessa Paradis

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L’attrice francese Vanessa Paradis, 45 anni, star 71° Festival di Cannes con un film in concorso, Knife + Heart.

LA SEPARAZIONE DALL’ATTORE JOHNNY DEPP È IL PASSATO REMOTO. ORA L’ATTRICE E CANTANTE FRANCESE È TORNATA SOTTO I RIFLETTORI E HA VOGLIA DI FAR PARLARE DI SE’: CON UN NUOVO THRILLER A BASE DI SESSO E IL PRIMO MATRIMONIO DELLA SUA VITA

L’appuntamento è nella suite Chanel dell’hotel Majestic sulla Croisette. Ho appena visto Knife + Heart, di Yann Gonzales, il film passato in Concorso all’ultimo festival di Cannes di cui è protagonista e che a fine giugno sarà nelle sale di tutta la Francia. È il ritorno di Vanessa Paradis dopo un periodo di assenza dallo schermo, alla vigilia di un evento speciale: in luglio si sposerà (per la prima volta) con il regista e sceneggiatore francese Samuel Benchetrit, in una cerimonia per pochi intimi sull’isola di Ré, Francia. Per la ex signora Depp è il primo sì della vita: lei e Johnny non si sono mai sposati, nonostante due figli insieme, Lily-Rose e John. Dopo 14 anni di vita insieme, sei anni fa si sono separati bruscamente, quando il Pirata dei Caraibi, in piena crisi di mezza età, è stato travolto dalla passione per Amber Heard, vent’anni meno di lui. Come poi sia andata a finire (male), è storia nota. Difficile ignorare tutto questo, mi dico. Ma Vanessa è in ritardo, ho tempo per riordinare i pensieri. A 14 anni, con il tormentone Joe le taxi, Vanessa è finita al n. 1 delle classifiche francesi (ma anche al n.3 in Uk e al n. 4 in Italia). Poi ha cantato con artisti come Lenny Kravitz, con cui è stata fidanzata, e Serge Gainsbourg, che le ha scritto il secondo disco. E Be my baby, canticchiata un milione di volte, è una sua hit. «Mi scuso moltissimo per il ritardo», dice in modo diretto e sincero sapendo che la aspetto da 30 minuti. «La mia vita è un frullatore, e ogni volta che vengo a Cannes è un’avventura molto intensa, ormai l’ho capito». Indossa una camicia kimono di seta bianca a fiori, con il bordo color giallo intenso, portata sui jeans. Si accende una sigaretta, mi da subito l’impressione di essere una donna femminile e molto forte. «Ha visto il film? Spero non alle 8 del mattino…». Il motivo della preoccupazione è la trama di “un coltello nel cuore” (questa la traduzione del titolo originale francese), che la vede nel ruolo di una produttrice di film porno gay negli anni Settanta. Lesbica, bionda platinata, e soprattutto distrutta per la fine dell’amore con la sua editor e amante (Kate Moran), cerca di riconquistarla girando il suo film più ambizioso. Ma i suoi attori vengono uccisi uno dopo l’altro, e la sua vita è messa sotto sopra.

In Knife+heart ha ruolo a dir poco sorprendente. «Lo so, è un film folle. È stato un grande regalo per me. Quando fai cinema vuoi essere trasportata lontano da te stessa. Un personaggio con cui posso giocare è una gioia, per questo motivo non ho mai dubitato della mia eroina underground, che è ispirata alla figura di una regista veramente esistita. Ma so che tutti sono stupiti dalla mia scelta».

Si è chiesta perché tanta meraviglia? «Credo che non lo sarebbero se avessi accettato il ruolo di una serial killer, o di una zombie. Ma qui si tocca la sessualità, e peggio ancora l’omosessualità fra persone ai margini, tutte cose che in fondo si pensa non dovrebbero esistere».

Lei fa spesso scelte provocatorie. Il suo secondo disco, Variations sur le meme t’aime, lo aveva scritto il cantautore più dannato di Francia, Serge Gainsbourg.  «Amo le persone, amo viaggiare e amo la vita. Sono irresistibilmente attratta da chi non ha il mio background, mi piace la diversità».

Diversi ma il top, considerato che ha lavorato con icone  come Alain Delon e Jean Paul Belmondo ed è ambasciatrice della maison da quasi tre decadi. «Sono stata molto fortunata, molti eventi del mio lavoro dipendono dal desiderio altrui. Altre attrici provocano le cose, acquistano i diritti di un libro, scrivono una sceneggiatura, io non sono così. Il film con Delon è arrivato perché Patrice Lecomte voleva dirigerlo, e poi ha scelto me».

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia n. 25 del 7/6/2018

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Anna Mouglalis: «Il dolore che mi porto dentro».

03 domenica Giu 2018

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Cultura, Moda & cinema

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abusi sessuali, Anna, Anna Mouglalis, cinema, Cristiana Allievi, Grazia, interviste

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L’attrice francese Anna Mouglais, 40 anni. 

Silenziosa, sta dietro la sua Rolleiflex a scattare immagini. Ma non si tratta né di foto di vacanze né di ritratti di moda. La donna dietro l’obiettivo sta facendo un reportage sulla prostituzione in Asia, e rompe il silenzio solo per fare domande alle giovani donne che ha davanti. La sua indagine sul turismo sessuale e sul traffico di esseri umani la farà finire nelle mani dei gangster locali, e da testimone di orrori passerà  ad essere rapita, torturata e stuprata. «Abbiamo girato Anna tra Montréal e la Tailandia», racconta del film di Charles-Oliver Michaud, in cui curiosamente attrice e protagonista del film hanno lo stesso nome.  Anna Mouglalis lo racconta con quella voce profondissima che all’inizio della carriera qualcuno le ha suggerito di trasformare con un’operazione. Occhi liquidi e scurissimi, non sfugge mai con lo sguardo durante la conversazione. «Quando ho letto la sceneggiatura ho accettato subito il film. Poi mi sono chiesta perché l’ho fatto, sapendo che mi sarei dovuta dedicare alla sofferenza per un bel po’ di mesi. Anche se si tratta di recitazione, devi metterti in uno stato emotivo credibile, soprattutto quando sai che il tuo lavoro deve rendere giustizia a vittime vere». L’Italia sarà il primo paese europeo a mostrare questo film, nelle sale dal 31 maggio dopo l’anteprima avvenuta ben due anni fa. «Pensi che in Francia non è ancora uscito, ma sono molto toccata dal lavoro che stanno facendo i distributori. Oggi le persone sono più pronte ad ascoltare storie simili». Padre greco e madre bretone, Mouglalis è nata a Nantes, nella Loira atlantica, poi si è trasferita a Parigi, dove di sera faceva la modella e di giorno studiava al Conservatorio d’arte drammatica. Inizia la carriera di attrice dal teatro, finché Chabrol la lancia sul grande schermo come la pianista di Grazie per la cioccolata. Poco dopo incontrerà Karl Lagerfeld che la sceglierà come testimonial di Chanel. In Italia conosciamo Anna Mouglalis per ruoli ad alto tasso erotico, prima come torbida amante in Sotto falso nome, di Roberto Andò, poi prostituta in Romanzo Criminale, di Michele Placido, quindi pedina in un intrigo d’amore in Mare Nero, di Roberta Torre. E prima che  Mario Martone la scelga per Il giovane favoloso, ottiene due ruoli super iconici: la più ambiziosa delle stiliste, in Coco Chanel & Igor Stravinsky, di Jan Kounen, e Jiuliette Gréco in Gainsbourg (vie eroique) di Joann Sfar. Viste le donne altamente sofisticate a cui ci ha abituate, nel nuovo film sorprende vederla senza un filo di make up e addirittura sfigurata.

Anna è basato su fatti realmente accaduti? «I casi delle ragazze sono tutti veri e frutto di ricerche giornalistiche che hanno indagato la rete di prostituzione che collega Montréal all’Asia. Prima di fare il regista, Charles-Oliver ha passato molto tempo in Asia e, come occidentale, è sempre stato sollecitato sul tema prostituzione. È così che ha fatto le sue ricerche».

Lei come si è preparata al ruolo? «Ho letto molto sulla Thailanda, la politica e la prostituzione.  Alla fine ho capito che quest’ultima non è un fenomeno legato a luoghi specifici, i clienti sono ovunque, appartengono a un mondo capitalistico e barbarico. Il governo, i militari, tutti sanno chi è coinvolto in questo traffico di vite umane, e lo agevolano, per questo il film non ha un happy end all’americana».

È stato facile per lei vedersi trasandata? «È molto interessante, Anna non è una modella né un’attrice, eppure il regista ha scelto me per interpretarla, che sono entrambe le cose. È stato un gesto forte».

Una riflessione sulla bellezza femminile? «In Thailandia è una maledizione nascere bella, perché i tuoi genitori ti venderanno, quindi  per quelle ragazze la bellezza corrisponde all’essere usata, e quando fai parte di un’industria come la moda fai le stesse riflessioni. Il corpo delle donne dovrebbe essere un bene solo loro, non appartenere a nessun altro. Dobbiamo cambiare il modo in cui vediamo noi stesse, abbandonare la vecchia visione che ci relega a delle specie di oggetti».

La sua esperienza personale con la violenza? «La peggiore è stata la paura che ne avevo prima ancora di subirla. Da parte di mio padre c’è una storia di violenza verso le donne, mentre la madre di mia madre è stata violentata ed è rimasta incinta così dei suoi figli, sono cose che mi porto nelle cellule. Le donne in casa mia giustificavano i lividi dicendomi che erano inciampate nelle scale, o che avevano picchiato la testa contro un mobile».

Ricorda il suo stato d’animo? «Ero congelata, sono cresciuta con la paura della sofferenza fisica, che di per sé è quasi peggio della violenza stessa. È terribile da dire, ma la prima volta che l’ho subita mi ha liberata da quell’incubo teorico che porta a vivere lontano dalla realtà».

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia del 31/5

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Alba Rohrwacher: «Un giorno imparerò a gioire».

29 martedì Mag 2018

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Cultura, Festival di Cannes

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Alba Rohrwacher, Alice Rohrwacher, Cannes 2018, cinema, Cristiana Allievi, Grazia, Lazzaro Felice, Personaggi, Troppa Grazia

SULLA CROISETTE ALBA HA VINTO DUE VOLTE: CON IL FILM DIRETTO DALLA SORELLA E CON TROPPA GRAZIA. EPPURE LEI NON RIESCE ANCORA AD ABBANDONARSI AL SUCCESSO

Cannes, Maggio 2018. Entro nella suite all’Hotel Carlton che affaccia sul mare della Croisette. Mi saluta con gentilezza, e una volta che mi sono accomodata sulla poltrona mi chiede se voglio un caffè, che mi prepara lei stessa. La sera prima del nostro incontro Lazzaro Felice (nelle sale dal 31 maggio) il film diretto dalla sorella Alice e passato in Concorso al Festival di Cannes, ha avuto una standing ovation di 10 minuti. Lei, che è fra i protagonisti, è ancora emozionata. Non sa che a breve il film vincerà il premio per la miglior sceneggiatura e che anche l’altro lavoro presente a Cannes, Troppa grazia, di cui è protagonista assoluta, sarà votato miglior film della Quinzaine. Insomma, ho di fronte a me la vera protagonista del Festival più importante del mondo, che è stata anche sul tappeto rosso con Cate Blanchett in una simbolica Montèe des marches, a “chiedere” un cambiamento della condizione delle donne nel cinema. Del resto è una della attrici più talentuose che abbiamo, e ultimamente il cinema francese ce la scippa volentieri, vedere alle voci La meccanica delle ombre e I fantasmi d’Ismael. Non parla, quasi sussurra, tanto che farò quasi fatica a riascoltare le sue parole nel registratore. Ma non importa, perché a rimanermi nel cuore, di Alba, sono i sorrisi, che quando si palesano le fanno strizzare gli occhi, proprio come fanno i gatti.

Come l’ha fatta sentire l’accoglienza del pubblico? «Non dimenticherò mai la sensazione alla fine della proiezione di Lazzaro felice, è stata straordinaria. E avrebbe dovuto succedere tante altre volte, perché le cose mi sono andate molto bene, sono fortunata. Invece l’unica volta che mi sono sentita come ieri sera è stata dopo Hungry Hearts».

Cosa mi sta dicendo? «Che devo, voglio imparare a gioire delle cose belle. Per me è difficilissimo e so che è un limite».

Perché fatica a gioire dei successi? «Penso sempre di non meritarmeli, è il mio carattere».

Nel caso di Hungry Hearts c’era  anche la regia del suo compagno, Saverio Costanzo… «Ricordo di aver avuto una sensazione molto chiara, mi sono svegliata la mattina e ho detto “sono felice, e non è un peccato esserlo”. Ho capito che me ne dovevo prendere la responsabilità».

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia n. 23 del 24/5/2018

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Anastacia: «Ho imparato a volermi bene».

06 domenica Mag 2018

Posted by Cristiana Allievi in Musica, Personaggi

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Anastacia, Cristiana Allievi, donne forti, Evolution, Grazia, interviste, music, pop music

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La cantante Usa Anastacia, 49 anni (Courtesy Urban Post). 

«Ho cambiato casa discografica, mi sono sposata, ho divorziato, ho avuto il secondo cancro ed è stato davvero un colpo durissimo. Diciamo che sono arrivata a toccare il fondo e ho dovuto ricominciare daccapo». Parole, queste, che mi fanno sobbalzare sulla sedia. Poi faccio due conti, e mi accorgo che gli incontri con Anastacia sono sempre stati di questa intensità. È una donna molto forte, vulcanica, e le interviste con lei vibrano della stessa energia. Mi torna in mente l’ultima volta che l’avevo incontrata, mi aveva detto di aver scoperto il primo cancro al seno grazie alla voglia di ridurlo di due taglie, «mi dava fastidio, anche quando salivo sul palco, e per fortuna grazie a questo mio disagio i medici sono intervenuti subito, asportando il male e riducendomi il seno di un terzo del volume». Credevo fosse tutto, invece dieci minuti dopo, ascoltando i suoi riferimenti temporali,  mi ero accorta che i conti non tornavano: è stato il suo modo di raccontarmi che aveva sempre mentito sulla sua età: «Non ero mai stata in clinica per disintossicarmi, non ero una bad girl, avevo una voce da nera in un corpo da bianca, non sapevano come “etichettarmi”… Mi hanno detto “Vai bene, ma dovresti avere 23 anni…”. Togliermi sei anni è stato l’unico compromesso che ho accettato, e non intendo più farlo». E oggi ride con quella voce portentosa che si ritrova e un timbro che le è valso 30 milioni di dischi venduti, forse più. Le ricordo questi episodi del passato e lei prende la palla al balzo: “la prima parte della storia è sempre la stessa, adesso le racconto la seconda…”. La scusa è l’uscita di Evolution, a 18 anni dal suo debutto discografico, disco che l’artista di Chicago porterà in un tour che passerà presto dall’Italia: prima data a Brescia, il 6 maggio.

Evolution viene dopo Resurrection, una conseguenza logica, in effetti. «Pensi che il mio nome significa proprio “resurrezione”, ma Evolution è stato un passo successivo, un ritrovare davvero me stessa. Nel 2006 mi ero persa nel business, avevo davvero bisogno di staccare la spina perché  dopo il primo cancro avevo corso troppo. Invece non l’ho fatto,  e nel 2013 me ne hanno diagnosticato un secondo tumore, lì sono crollata».

Cambiamenti alla mano, negli ultimi 10 anni lei ha vissuto praticamente tre vite… «Diciamo che sono arrivata a toccare il fondo ( ha contribuito anche il divorzio da Wayne Newton, il suo bodyguard, con cui è stata sposata dal 2007 al 2010, ndr), ho dovuto ricontattare davvero la mia parte femminile e ricostruire tutto di me, eccetto la voce. Mi sono accorta che con il disco precedente stavo cercando di mantenermi occupata, lavorare era un modo per dirmi che non era finita. Adesso sono una donna nuova, anche se questo album contiene ancora elementi del 2007».

Si sarà confrontata con varie paure. «Soprattutto ho dovuto realizzare che non ero una vittima, e che se vuoi essere sana e vivere una vita gioisa devi accorgerti che la maggior parte delle volte l’ostacolo sei tu stessa. Mi sono guardata dentro e ho fatto un inventario di quello che stavo permettendo, mangiando, pensando».

Precisamente? «Mangiavo male, un’italiana come lei inorridirà a sentire che facevo fuori i ravioli direttamente dalla lattina, non ci facevo nemmeno caso. Il problema è che quando hai il morbo di Chrones bruci tutto, quindi mi bastava ingerire calorie, non sapevo di fare cose terribili per il cancro. Oggi sono molto più intelligente col cibo e da cinque anni non bevo più alcol».

Altri aspetti guariti? «Oggi mi accorgo delle cose sbagliate, prima non ero brava a scegliere i collaboratori giusti, e nemmeno gli uomini. Quando sono stata tradita ho scritto nelle canzoni che non me lo meritavo, ma se mi volto indietro vedo che stavo accontentandomi degli scarti, senza saperlo. “Voglio davvero avere il cuore a pezzi?”, mi sono chiesta, e la risposta era no, quindi dovevo cambiare strada».

 Come? «Non ripetendo gli stessi errori, è così che le cose cambiano».

Quando ci siamo incontrate l’ultima volta aveva scritto in una canzone, “non amerò mai più così”, e quando le ho chiesto cosa intendesse dire mi ha risposto che non avrebbe mai più vissuto un sentimento così intenso. «All’epoca ero sposata, quando divorzi scopri più verità rispetto a quello che credevi essere l’amore. Io ho scoperto che quello che avevo davanti non era ciò che desideravo per il futuro, anche se ero più che grata a quella persona: è anche merito suo se sono arrivata fin qui».

 

(…continua) 

Intervista pubblicata su Grazia del 3/5/2018 

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