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Cristiana Allievi

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Charlotte Rampling: «Non posso nascondermi».

21 sabato Gen 2017

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Miti, Moda & cinema

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45 anni, Andrea Pallaoro, Charlotte Rampling, Cristiana Allievi, Dlarepubblica, IoCharlotte Rampling, Jean-Noel Tassez, Jonathan Anderson, Loewe, Stardust Memories, The Whale, Woody Allen

SCELTA DAL CINEMA (HA CINQUE FILM IN USCITA NEL 2017) E DALLA MODA, A 70 ANNI CHARLOTTE RAMPLING RESTA UNA DELLE PIU’GRANDI, RESISTENTI E AUDACI ICONE DI SEMPRE. E UNA DONNA NON FACILE DA INCONTRARE.

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Charlotte Rampling, 71 anni (courtesy of Loewe)

Capelli corti tirati indietro. Trucco drammatico. Mani appoggiate sul volto. Osservi le foto che Jamie Hawkesworth le ha scattato nel cuore di Parigi, con primi piani in cui le rughe del volto si contano una a una, e non ti capaciti di come quei due occhi verdi abbiano ancora una forza magnetica. È un’icona fashion apparsa in tonnellate di foto che oggi fa la stessa impressione di sempre: con la sua bellezza fredda e distaccata Charlotte Rampling ti mette ancora in soggezione. A 70 anni suonati Jonathan Anderson l’ha scelta per la campagna della sua collezione primavera 2017. Il direttore creativo di Loewe deve aver pensato alle foto con cui l’ha lanciata Helmut Newton, o a film culto come Il portiere di notte di Liliana Cavani, Stardust Memories di Woody Allen, Sotto la sabbia di François Ozon fino a 45 anni, che l’anno scorso le ha fatto vincere l’Orso d’argento al festival di Berlino e le ha regalato la prima candidatura agli Oscar. Fra tutte le espressioni che poteva scegliere per definirla, lo stilista irlandese ne ha usata una che colpisce: “crudezza”. E va detto, non è una donna simpatica. Precisa e creativa nelle risposte, è assolutamente incapace di mettere l’interlocutore a proprio agio. Conosce questo tratto di se stessa, quando dice con un velo di sarcasmo “diventi più interessante quando la gente sa che non può averti”.

Figlia di un ex colonnello dell’esercito due volte medaglia d’oro alle Olimpiadi e di una pittrice ereditiera, la modella, attrice e cantante inglese racconta che le linee e le forme audaci l’hanno sempre attratta, come il coraggio di sperimentare. «Le creazioni di Jonathon di quest’anno erano teatrali, colorate e stravaganti, un vero azzardo. È l’approccio che preferisco, per questo ho accettato la sua offerta di indossarle. E anche perchè con quei capi addosso ho sentito che diventavo me stessa all’ennesima potenza».  Sul come si veste nella vita di tutti i giorni, l’entusiasmo si smorza. «Non sono molto avventurosa, so che mi stanno bene le cose semplici e abbastanza maschili, ed è quello che indosso più spesso».

Aveva 17 anni quando è iniziata la sua carriera di modella, poi è arrivato il cinema e da Georgy Svegliati a oggi ha girato più di 100 film, ha cantato e ha sempre lavorato anche in teatro. Ma soprattutto, ha mostrato un’inclinazione per la provocazione. «Dopo le prime commedie che ho girato la mia vita è cambiata radicalmente, e i ruoli che ho scelto hanno rispecchiato questi cambiamenti». Per quanto parli, con lei è difficile stabilire un reale contatto. Non stupisce, la sua non è stata un vita felice, e con i sette traslochi in 13 anni con la sua famiglia deve aver imparato a non attaccarsi a niente. Ma la radice dell’attaccamento è stata estirpata in modo ben più drastico, come ha finalmente fatto sapere al mondo la scorsa estate grazie alla biografia Io, Charlotte Rampling. Nel libro scritto a quattro mani con Christophe Bataille trova finalmente una spiegazione quel feeling di dolore e shoc che l’ha sempre accompagnata: a 23 anni, subito dopo essere diventata madre, l’amatissima sorella Sarah con cui da ragazza si esibiva nel cabaret, si è tolta la vita in Argentina, e questo lei lo ha scoperto molti anni dopo l’accaduto. Da lì in avanti la storia della Rampling è venata di fatica. Ancora giovanissima inizia una relazione a tre col fotografo Randall Lawrence e con il pubblicitario Bryan Southcombe, con cui si sposa. Dopo quattro anni di matrimonio incontra a una festa a Saint Tropez il musicista Jean Michel Jarre e va avivere con lui a Versailles. Ma soffre di depressione e scoprire che il suo uomo la tradisce non migliora questo continuo oscillare tra alti e bassi. Evidentemente la stoffa della Rampling è parecchio resistente, va avanti a lavorare finchè nel 2000 non torna una star grazie a François Ozon di cui diventa la musa e con cui girerà tre film. La morte della madre, nel 2001, la incoraggerà a uscire allo scoperto e a iniziare a scrivere la famosa biografia di cui sopra.

Uno dei grandi paradossi di una donna che è fisicamente esposta da cinquant’anni è che è molto riservata quando si tratta della sua anima. «Finchè non mi sono accorta che è quasi impossibile nascondersi. Essere fotografata è parte della mia vita, le cose cambiano, evolvono, ma nell’essenza tutto rimane lo stesso. Grazie al mio lavoro mi consegno a un film, mi do completamente all’arte. Qualsiasi sia il mezzo con cui la condivido, fotografie, cinema, tv, condivido la mia vita interiore. E in tutto quello che ho fatto ho voluto creare una continuità visibile: la faccia è cambiata, sto invecchiando, ma è riconoscibile».

Ha un talento tutto suo nel rappresentare in modo naturale persone reali e nel trasmettere una vulnerabilità. «Entri in contatto con le tue emozioni vere vivendole sin dall’inizio in modo appassionato e senza paura. A quel punto le puoi veicolare attraverso il corpo e gli occhi, per restituirle allo schermo. È quando invecchi che processi le cose, se non lo fai iniziano i problemi». Perchè I suoi ruoli più recenti sono più vulnerabili? «Mostrano l’accumulo di una vita dedicata alla ricerca della verità, in questo modo si diventa sempre più vulnerabili».

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L’attrice sul set di 45 anni, il film di Francois Ozon che le ha regalato la prima candidatura agli Oscar.

Alla sfilza di cose spiacevoli che la vita le ha messo davanti c’è da aggiungere la morte del suo partner da vent’anni, il businessmen francese Jean-Noël Tassez, mancato lo scorso anno dopo una relazione durata quanto il matrimonio con Michel Jarre.  Ma la sua vita a Parigi è quella di prima: nuoto, yoga e meditazione, «Non sono regolare, perchè odio fare le stesse cose tutti i giorni». Quando le fai notare che nel 2017 la vedremo in ben cinque film, tra cui The Whale diretto da Andrea Pallaoro («è il ritratto di una donna che vive uno sconvolgimento emotivo»), sdrammatizza a modo suo. «Non sono tutti ruoli principali, va detto. Tutto quello che ho fatto nel passato mi ha portata a questo momento, e adoro le possibilità che ancora oggi ho davanti». Sarà merito anche della stoffa atletica ereditata dal padre, fatto sta che se la chiamano tutti significa che c’è qualcosa in lei che è ancora molto vivo. «Ci ho lavorato su, non capita per caso. Devi essere disponibile per la vita, tenerti aperta, perché le cose succedano. E con i pensieri debilitanti c’è una sola strategia da attuare: imparare trucchi per rimandarli da dove vengono».

Articolo pubblicato su D La Repubblica il 14 gennaio 2017

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Gaspard Ulliel: «La sensualità non va controllata».

30 mercoledì Nov 2016

Posted by Cristiana Allievi in Festival di Cannes, Moda & cinema, Personaggi

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È solo la fine del mondo, Blue, Chanel, Gaspard Ulliel, The dancer, Xavier Dolan, Yves Saint Laurent

tumblr_lsxmu9Q5Z61qmei7mo1_500.pngL’amico di un amico della madre apre un’agenzia di casting e cerca belle facce. È così che Gaspard, ancora bambino, inizia a lavorare per la tv. È un gran curioso, e pur non prendendo quel mondo sul serio, si concede due lavori all’anno in modo da non saltare mai la scuola. Un passo dopo l’altro, dalle piccole parti passa alle grandi, quindi al cinema. All’università studia per diventare regista, ma ha troppe richieste come attore e il destino ha la meglio. È così che finisce a lavorare con i registi più chic in circolazione (Bertrand Bonello, André Thechiné), vince il Cesar (l’Oscar dei francesi) e fa della bellezza e dello stile un tratto distintivo. Sarà che ha sempre un taglio di capelli perfetto, sarà lo sguardo azzurrissimo a cui è difficile resistere, fatto sta che Gaspard è diventato un’icona recitando in Yves Saint Laurent e prestando il volto allo spot del profumo Chanel. E anche nelle relazioni sentimentali la bellezza è il suo marchio di fabbrica: ha avuto per fidanzate Cécile Cassel, sorella di Vincent la modella Jordan Crasselle, e da tre anni è legato alla modella Gaelle Pietri, con cui otto mesi fa ha avuto il primo figlio. All’ultimo festival di Cannes è stato una star assoluta, con un film presente nella sezione Un certain regard e un secondo in competizione. E proprio questo film vedremo dal 7 dicembre, quando sarà uno scrittore omosessuale a cui rimane poco da vivere, l’uomo al centro del nuovo film del regista di culto Xavier Dolan, È solo la fine del mondo, gran premio alla regia all’ultimo Festival di Cannes. Da gennaio sarà in Vietnam per tre mesi sul set del film di Guillaume Nicloux, un film d’epoca sulla guerra in Indocina nel 1945. E sempre il prossimo anno lo vedremo in The dancer, biopic non convenzionale sulla danzatrice americana Loie Fuller e magnifico esordio dietro la macchina da presa di Stephanie Di Giusto.

La sensualità è elemento cha ha molto a che fare con la sua immagine. Come la vive? «Non so se ne sono consapevole, è qualcosa di organico che non dovresti controllare. Nessuno dovrebbe cercare di avere un’idea precisa della propria sensualità, perderebbe di forza».

Il suo volto è associato a un notissimo profumo, da attore non ha mai avuto timore di questo tipo di esposizione? «Quando mi ha chiamato Chanel ero un giovane attore, ci ho pensato a lungo prima di accettare. Quando ti sei affermato puoi fare quel che vuoi, ma io non ero ancora conosciuto, avrebbe potuto essere pericoloso. Invece è andata benissimo, mi ha reso indipendente economicamente, libero di scegliere i film che volevo davvero girare, e ormai è parte della mia immagine. Da attore mi piace essere associato a una fragranza, non è come fare pubblicità per una scarpa o una borsa. Il profumo è qualcosa di astratto, è poesia, è un’essenza».

Parlando di sensi, cosa preferisce mangiare e bere? «Quando mi sento sensuale non mi viene in mente il cibo, mentre sono ossessionato dal vino. In questo periodo gli do una tale importanza che mi capita di sceglierlo per primo e poi gli accosto il cibo più adatto. Ho appena scoperto un vino spagnolo che mi ha stregato, il Vega Sicilia Unico. È difficilissimo da trovare in Francia, ne ho acciuffata una bottiglia vintage del 2004 su ebay. Per fortuna ci sono persone che non sanno cosa stanno vendendo, e capitano dei veri affari».

 Il suo cocktail preferito? «L’Old fashion, il migliore l’ho bevuto in un piccolo bar di Lisbona».

Diceva che non bisogna essere troppo consapevoli della sensualità, vale anche per lo stile? «Quello è dato da come cammini, ti muovi, sorridi. È la combinazione di molti fattori, ed è più importante della moda: lo stile resta per sempre, la moda cambia».

Lei ha due genitori che vengono da quel mondo… «Mio padre era un fashion designer e mia madre una stylist, ci è voluto molto tempo prima di potermi vestire come volevo! Mia madre sceglieva cosa mettermi quando andavo a scuola, ogni mattina. Tutt’oggi dice qualcosa su quello che indosso, ma ormai ho il mio stile e non la ascolto più (ride, ndr)».

(….continua)

Intervista pubblicata su D La Repubblica del 19/11/2016

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

 

 

Tom Ford: «Vi racconto la nostra paura di viverci fino in fondo».

04 domenica Set 2016

Posted by Cristiana Allievi in Moda & cinema

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A single man, Amy Adams, Back to Black films, Cristiana Allievi, GQitalia, Jake Gyllenhaal, Nocturnal Animals, Tom Ford, Venezia 73

Il senso delle scelte, la capacità di capire «chi sono le persone che contano, per tenercele strette», la necessità di ascoltarsi e «avere fiducia in se stessi» ma anche l’arte ironica di «goderti l’assurdità del mondo che ti sei scelto». Il regista couturier regala Nocturnal Animals, un altro film esteticamente perfetto e insieme profondo

Risultati immagini per Tom Ford Venezia 2016

Il regista, produttore e stilista texano Tom Ford, 55 anni.

Dopo aver visto Nocturnal Animals non stupirebbe scoprire che Tom Ford sa anche cantare, perché è una delle poche cose che non lo abbiamo (ancora) visto fare.
Sul fatto che sappia dirigere e scrivere una sceneggiatura, ormai nessuno può avere più dubbi, e si scoprirà anche se vincerà la nuova sfida di produttore, avendo creato da poco la sua Back to Black Films.

Il secondo film da regista dello stilista texano, presentato oggi in concorso alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia e applauditissimo dalla critica, presenta un apprezzabile lavoro di adattamento del libro Tony and Susan di Austin Wright, del 1993.

È la storia di una donna, Susan (Amy Adams), gallerista di New York, che a un certo punto riceve un manoscritto. Lo ha scritto il suo ex marito Tony (Jake Gyllenhall), un aspirante scrittore che finalmente colpisce nel segno. Il libro si chiama “Nocturnal Animals”, ed è violento fino all’horror, con uno scopo: far rivivere a Susan la sua vita con l’ex marito, con tutta la sua incapacità di amarlo includendo le sue fragilità.

Leggendo quelle pagine Susan rifletterà su tutta la sua vita, e sulla propria incapacità di accettare se stessa e la propria natura, tratto che l’ha portata a vivere una vuota vita borghese.

«Il senso di questa storia è capire chi sono le persone che contano, nella nostra vita, per tenercele strette», racconta il regista.
«Ma si tratta anche di avere fiducia in se stessi. Il personaggio di Amy Admas, Susan, è vittima della propria insicurezza, cade in quello che gli altri volevano che fosse, nello specifico sua madre, invece che in se stessa. Rappresenta la mia parte femminile, mentre Jake, che recita un uomo che viene dal Texas, e che non è il tradizionale macho ma è sensibile, rappresenta il mio maschile. Ed è un uomo che alla fine, perseverando sulla propria strada, diventa più forte».

La sequenza di apertura del film, con donne grassissime alla Botero, che ballano vestite solo di stivali e cappello da majorettes, catturano prepotentemente l’attenzione dello spettatore. «Volevo ambientare la storia in un mondo contemporaneo, ed enfatizzare alcune delle sue assurdità. Di solito non amo quando nei film l’arte è falsa, così ho dovuto inventare la scena iniziale, e l’ho fatto mettendo la testa in un immaginario di artista. Ho vissuto gli ultimi 27 anni in Europa, così ho pensato a un artista europeo che esagera, con queste donne cariche di dettagli americani, grasse ed eccessive. Mentre giravo mi sono innamorato di loro, erano così belle, felici, libere perché hanno abbandonato tutte le convenzioni culturali su come le donne dovrebbero essere. Bisogna lasciar andare l’idea di come dovremmo essere per trovare chi siamo davvero», continua Ford.

Uno stilista sul set, Tom Ford e la coppia Gyllenhaal-Adams: "Un tuffo dentro l'io"

Il regista (al centro) con il cast di Nocturnal Animals, film in concorso alla 73° Mostra d’arte cinematografica di Venezia.

Il film è esteticamente perfetto, come il precedente, e si mantiene in un equilibrio pericoloso e straordinario, estetizzando anche i momenti più brutali della storia, come quello in cui si vedono i cadaveri di due donne perfettamente adagiati su un divano rosso, in mezzo a una discarica. «Per me lo stile deve servire la sostanza, sempre, in particolare nei film. Il personaggio di Susan dice a Jake “dovresti scrivere di te stesso”, e lui le risponde “nessuno scrive di altro che non sia se stesso”. Lei in quel momento è sdraiata su un divano rosso, e lo fa arrabbiare moltissimo. Per questo quando lui nel libro la “uccide”, torna di nuovo il divano rosso: l’uomo vuole far provare alla ex moglie quello che ha provato lui, e io lo restituisco visivamente».

Nel film si conversa anche sul fatto di non essere felici del proprio lavoro e della propria carriera, che si porta avanti solo per dovere. «Da giovane sei ottimista», prosegue il regista, «e sei attratto da cose che sembarno meravigliose ma solo superficialmente. È così che crescendo ti trovi intrappaolato, perchè devi pagare le bollette e mandare i figli a scuola. A quel punto non ti resta che goderti l’assurdità del mondo che ti sei scelto».

Il film non ha un lieto fine, e per Ford questo è un bene. «Non sapremo cosa farà la donna protagonista, di certo però non tornerà alla sua vita: il suo passato è definitivamente alle spalle, in questo senso il film contiene una trasformazione».

Alla domanda se vuole dedicare più tempo alla regia, in futuro, compatibilmente con tutti i suoi impegni, risponde sorridendo. «Non vedo l’ora di girare il prossimo lavoro, ma non è ancora il momento di rivelarne i dettagli. Posso solo dire di essere old fashion, il mio intento quando dirigo una storia è sempre farmi domande sulla mia vita. E se lo spettatore lascia il cinema senza essersi fatto domande, vuol dire che il film che ha visto ha fallito…».

 

Articolo pubblicato da GQItalia sett 2016

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Cara Delevingne: «Ragazze, imparate a dire no».

24 mercoledì Ago 2016

Posted by Cristiana Allievi in Moda & cinema

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Anna Karenina, Annie Clark, Cara Delevingne, Cristiana Allievi, David Ayer, Faudel-Phillips, Karl Lagerfeld, Luc Besson, St. VIncent, Suicide Squad, Tom Ford, Tulip fever

 

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L’attrice e modella Cara Delevingne, 24 anni (courtesy of Grazia Italia).

“Chi sono io? Chi sto cercando di essere? Non me stessa, chiunque ma non me stessa…”. Parole che colpiscono, quelle di Cara Delevingne, specie se affiancate a dichiarazioni altrettanto forti, come l’ammissione di aver sofferto di depressione e di aver voluto diventare modella per cercare una scappatoia a questa gabbia. Ma facciamo un passo indietro. A 17 anni questa londinese cresciuta nel quartiere di Belgravia abbandona la scuola e firma un contratto con la Storm Management, e di colpo è catapultata nel mondo delle campagne pubblicitarie. Tutti la vogliono, da Burberry a Victoria’s Secret, da Mango a Fendi a sua maestà Karl Lagerfeld, che le fa aprire la sfilata di Chanel a Parigi. Non bastasse, Tom Ford la mette nuda tra le orchidee per il suo profumo, Black Orchid. Riceve due volte il titolo di modella dell’anno ai British fashion Awards, Forbes la indica come la seconda modella più pagata al mondo (a pari merito con la Lima), con nove milioni di dollari l’anno. Ma questo non cambia il suo stato interiore, finchè l’anno scorso annuncia al Time di volersi ritirare dalle passerelle, a soli 23 anni, per dedicarsi alla recitazione. Motivazione ufficiale, un tale stress che le ha probabilmente provocato la psoriasi. Quelle di cui sopra sono le parole che ha usato per descrivere il proprio stato d’animo dal microfono di Women in the World Summit, davanti a un Rupert Everett maestro di cerimonie. Non un caso, forse, che abbia condiviso proprio con lui una confessione a cuore aperto. Se Everett è un discendente della famiglia degli Stuart, infatti, Cara proviene da parte di madre dai baroni Faudel-Phillips; e come Rupert, Cara ha fatto outing l’anno scorso, raccontando a tutto il mondo di essere innamorata della musicista Usa Anna Clark, nota come St. Vincent. Alta, magra, con quelle sopracciglia importanti che sono un marchio di fabbrica, è cresciuta in una famiglia privilegiata ma tutt’altro che perfetta. La madre, Pandora, sta scrivendo un libro di memorie sulla sua dipendenza dall’eroina, e per madrina ha Joan Collins, mentre il padre è un uomo di successo nel campo immobiliare. Cara suona la batteria e canta, e il cinema è sempre stato il suo vero amore, ma per essere credibile in una nuova veste ha dovuto lottare, e parecchio. L’abbiamo vista in Anna Karenina di Joe Wright accanto a Keira Kniegtly, in London Fields con Johnny Depp e Amber Heard. E in Tulip fever condivideva il set nientemeno che con Judi Dench e Christoph Waltz. E considerato che in Suicide Squad sarà insieme a Jared Leto e Will Smith, nelle sale dal 18 agosto, possiamo affermare con cognizione di causa che Cara è una di quelle modelle a cui la transizione ad attrice è riuscita per davvero, come a Charlize Theron. O come ha detto un celebre critico di Variety, a giudicare dal suo lavoro, Cara è una arrivata sulla scena per restarci, considerato anche che il suo prossimo ruolo è nella science-fiction di Luc Besson, Valerian. Intanto possiamo godercela in Suicide Squad, il cui racconto si basa sui personaggi della DC Comics. Nel film lei è l’Incantatrice e fa parte di una banda di super cattivi a cui viene fornito il più nutrito arsenale immaginabile dal governo, il tutto per sconfiggere un’entità sconosciuta. Quando scopriranno il vero motivo per cui sono stati scelti si troveranno a dover decidere se combattere ancora insieme o se fare ognuno per sé.

L’Incantatrice è un antico essere malvagio che si risveglia nell’esploratrice June Moone dopo un lungo periodo di prigionia. Come si è preparata a questo ruolo? «Sono una donna cattiva e contorta che fa saltare in aria i corpi, e li fa a pezzi… Mi ci sono preparata immaginando silenziosamente modi per uccidere i miei amici (ride, ndr), a quanto pare funziona!».

Lei sarà una strega. «Il mio personaggio è fuori dal mondo, o almeno da questo mondo. Ma la genialità di David Ayer (che ha scritto e diretto il film, ndr) è stata rendere tutto molto radicato e reale, ha voluto che incarnassi una persona potente, quasi prepotente, di cui sfugge sempre un pezzo. Si scoprirà che si tratta di una donna ferita e molto vulnerabile, ed è questo aspetto che la rende umana e con cui tutti potranno relazionarsi».

 Non è facile avere bei ruoli al cinema, specie agli inizi, come ha reagito quando David Ayer l’ha scelta? «L’ho incontrato due anni fa e mi ha solo dato la sua visione generale del personaggio, attraverso immagini che aveva trovato in rete. Tutto il progetto era segretissimo, ha scatenato la mia immaginazione, dal momento in cui mi ha parlato dell’Incantatrice e del mondo etereo di cui fa parte ho detto subito di sì. Più avanti ci siamo parlati ancora al telefono, mi ha chiesto pareri sulla salute mentale, un argomento che mi interessa molto».

Lei ha sorpreso molte persone, l’anno scorso, annunciando di abbandonare le passerelle… «Eppure quello di fare la modella non è mai stato il mio sogno, a quattro anni volevo già recitare, ho sempre preferito essere un’altra, sin da bambina. C’è stato un momento della mia vita in cui ho letteralmente vissuto attraverso la macchina fotografica, e il problema è che quello è un mondo in cui vieni usata: ti spremono come un limone, poi ti buttano via per la prossima che arriva. Quel lavoro stava uccidendo la mia anima, ho iniziato a farlo per sfuggire alla depressione di cui ho sofferto sin da ragazzina».

Lo stress le ha causato una forte psoriasi, ha dichiarato anche di essere arrivata a odiare il suo corpo, e a sperare che qualcuno arrivasse da fuori a fermarla, perché lei non ci riusciva… «È stata Kate Moss a farlo. Sapendo a che pressione siamo sottoposte, vivendo sempre per soddisfare le aspettative altrui, mi ha consigliato di rallentare. Così mi sono dedicata allo yoga e al rilassamento, mi sono ricaricata per il passo successivo: fare quello che volevo davvero della mia vita».

Ci sono attrici che arrivano dal mondo della moda che si lamentano dei ruoli che vengono offerti loro come attrici, poco credibili. «Anche a me hanno chiesto di interpretare la modella svedese o inglese, che muore sempre, o la ragazza scema, come in American Pie 27, con scene di sesso gratuite. Non sa quante volte sono andata in crisi declinando ruoli, perché tutto quello che volevo fare era recitare… Ma ho capito che la mia dignità era più importante anche di questo».

Qual è la cosa che oggi trova più sfidante di questo lavoro? «Imparare a tenere fuori dal set le distrazioni della mia vita. Ed essere innamorata aiuta, quando lo sei stai con quella persona come se nella stanza non ci fosse nessun altro. Recitare è un po’ lo stesso, quando guardi in faccia un altro attore non deve esistere nient’altro».

Il suo primo ruolo è stato in Anna Karenina, quattro anni fa: come lo ricorda? «Ho passato ore tra trucco e capelli, per girare una grande scena, ero così nervosa… Poi è arrivato il regista e mi ha detto “Smettila di fare la modella, e smettila di cercare di sembrare bella!”. È successo qualcosa dentro di me».

Ha superato la paura di essere incasellata e poco credibile? «La gente può incasellarmi in qualsiasi modo, come modella e com quello che vuole. Ma se semplicemente vado avanti e faccio le cose al meglio, cosa che spero succeda, so di poter dimostrare di valere molto».

Suicide Squad è uno di quei film che si girano in gruppo, com’è andata con i colleghi? «Abbiamo avuto un mese di prove, prima di girare. È stato molto divertente perché fuori dal set ci scatenavamo come bambini. È ovvio che noi non siamo i personaggi che interpretiamo, ma in qualche modo incontrandoci ci trasformavamo in ragazzacci pestiferi. Ha presente quando a scuola ci si sedeva in fondo al pullman, a cantare a squarciagola? Eravamo così. Ma una volta sul set la situazione cambiava al volo, volevamo tutti rendere al meglio quando arrivava David».

 

Ha una scena preferita? «Direi quando ho incontrato me stessa la prima volta, nell’essenza, ovvero quando June incontra per la prima volta l’Incantatrice.  Ho recitato le due parti in due giorni diversi, proprio per costruire il momento in cui i due personaggi arrivano a incontrarsi vis a vis».

Nel film ha un look straordinario, ha collaborato con la costume designer Kate Hawley nel costruirlo? «Il dipartimento che si è occupato di trucco e costumi era così straordinario che sarei stata ridicola a pensare di dare un contributo! Da parte mia ho sentito che creare il personaggio, e giocare sulla sua fisicità e l’accento, era abbastanza».

Prima parlava di essere innamorata, è stata coraggiosa quando ha dichiarato di essere legata alla musicista Annie Clark, nota ai fans come St. Vincent… «A un certo punto è meglio rivelarsi per chi si è davvero, e la mia sessualità non una fase passeggera, come qualcuno pensa».

Il prossimo anno ha vari film in uscita, ma davvero non la vedremo più in passerella? «Farò ancora la modella, ma in modo molto selettivo. Adoro dire di no, e finora non lo avevo fatto. Questo mi ha rubato molta salute e felicità, e non riaccadrà mai più».

Ha quattro milioni di follower su Twitter e 20 su Instagram: cosa consiglia alle ragazze che vogliono fare le modelle? «Perché non sognare alla grande, per esempio di diventare delle politiche di successo? Scherzi a parte, il mio consiglio è: qualsiasi cosa vogliate fare, state bene con voi stesse, perché con voi stesse ci dovrete stare un bel po’ di tempo».

Articolo uscito sul n. 33 di Grazia

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«La mia Cenerentola si veste a Como», parola di Sandy Powell

27 venerdì Feb 2015

Posted by Cristiana Allievi in Moda & cinema

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Cate Blanchett, Cenerentola, Christian Dior, John Galliano, KEnenth Branagh, Lindsay Kemp, Martin Scorsese, Sandy Powell

È arrivata a realizzare i costumi della favola più famosa del mondo, e lo deve a due persone: sua madre, che da bambina la incoraggiava a creare abiti per bambole, e il coreografo Lindsay Kemp, che l’ha presa sotto la sua ala. 34 anni dopo Sandy Powell, 55 anni, londinese, come costume design è praticamente imbattibile. Nove volte candidata agli Oscar, ne ha vinti tre (per Shakespeare in Love, The young Victoria e The aviator) ed è la preferita di registi come Martin Scorsese e Neil Jordan, e Kenneth Branagh l’ha voluta per la sua sfavillante Cenerentola, nelle sale dal 12 marzo. Un compito immenso, confrontarsi con la favola animata che nel 1950 ha trasformato la Disney in una forza di punta dell’industria cinematografica: 3 milioni di dollari di budget, è arrivata a guadagnarne 34, entrando nel gotha dei 10 più grandi film di animazione di tutti i tempi. Branagh è stato chiarissimo nelle direttive creative: nessun trucco di moda, si scommette sul classico e lo si rende contemporaneo. Risultato? Un gioco di abiti sontuosi dialoga con le straordinarie scenografie di Dante Ferretti e con l’abilità interpretativa di Cate Blanchett (la matrigna), Lily James (Cenerentola), Richard Madden (il principe) e Helena Bonham Carter (la fata).

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Sandy Powell, costumista. Tre gli Oscar all’attivo, nove le nominations.

Quanto ci è voluto, per confezionare tutti quegli abiti? «Due anni. Capito l’universo che voleva riproporre Branagh, ho visionato tonnellate di immagini storiche e di dipinti. Mi sono ispirata ai ritratti reali che Franz Xaver Winterhalter ha fatto in giro per l’Europa, ma anche ai lavori di Boldini e Sargent. Avendo deciso di ispirarmi agli anni Quaranta, ho studiato i John Galliano e Dior quell’epoca».

Lei definisce i personaggi con il colore degli abiti. «È la legge, nelle favole i bambini distinguono così i loro eroi, e anche se il film è per tutti mi sono attenuta alla regola. La matrigna sul verde, il principe è bianco, le sorellastre sono fucsia e arancione…».

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Una scena della Cenerentola di Kenneth Branagh. Un lavoro manieristico a cui hanno collaborato Dante Ferretti per le scenografie e Sandy Powell con i suoi magnifici costumi.

L’abito di Cenerentola è azzurro, da manuale. «Avevo pensato di cambiargli colore, ero libera di farlo. Ma ho capito che niente avrebbe funzionato meglio. Per le sete mi sono rifornita come sempre a Como, spendendo moltissimo (ride, ndr). Ma altri tessuti arrivano da posti molto più economici, c’è un certo equilibrio».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Panorama del 4 marzo 2015 

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Agnes B.,«Vi racconto i bambini che non hanno mai visto il mare»

04 domenica Gen 2015

Posted by Cristiana Allievi in Moda & cinema

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Agnes B., Basquiat, cinema, Cristiana Allievi, David Lynch, incesto, Io donna, Je m'appelle hmmm..., Moda, Quentin Tarantino

Ha iniziato vendendo le sue creazioni al mercato delle pulci, oggi ha un impero da 332 negozi. Poi, a 70 anni, Agnes B. ha girato il primo film. Che parla di una fuga da un incesto. E di avventure on the road, come racconta lei stessa 

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La stilista e regista Agnes B. (Photo courtesy of agnes b. & Patric Swirc)

Céline ha 11 anni e un padre incestuoso e disoccupato. Così, alla prima occasione, scappa di casa, finendo sul camion di un autista scozzese che ha perso moglie e figlie. I due avranno un’avventura on the road dagli esiti imprevedibili. Lascia di stucco, l’esordio alla regia di Agnes B. – Agnès Troublé fuori dalle passerelle e dalle sue boutique. Je m’appelle Hmmm… è un film forte, girato tra la sua vera casa, Bordeaux e le spiagge di Biarritz. La cosa non dovrebbe sorprende, in effetti. Nata e cresciuta a Versailles in una famiglia borghesissima, a 21 anni Agnes aveva già alle spalle un matrimonio con un editore più vecchio di lei e due figli. Senza un soldo in tasca, scovata da una redattrice di Elle al mercato delle pulci, con le sue creazioni di moda e il suo stile solido e libero ha creato un impero: 332 negozi tra gli Usa e il Giappone, una casa di produzione cinematografica, un atelier e tre gallerie d’arte. Quentin Tarantino ne ha immortalato gli abiti in Pulp Fiction e Reservoir Dogs ed è un suo fan. Basquiat la adorava, lo stesso dicasi per artisti contemporanei che ha sostenuto di tasca propria, come i registi Claire Denis a Gaspare Noé, passando per l’eccentrico Vincent Gallo. La incontro in un hotel nel cuore di San Pietroburgo, per parlare di cinema, moda e vita, in occasione dell’International Media Forum in cui ha presentato il suo film che è in giro per i festival del mondo. In nero integrale, capelli biondo miele, mi colpisce subito per quel calore che emana e un senso di empatia verso il genere umano.

L’incesto come tema del proprio esordio registico: una scelta che lei fa a testa alta. «Ho scritto personalmente la storia, ci ho messo dieci anni. La cosa che mi ha colpita di più è che il film è esattamente ciò che ho scritto e che volevo raccontare. Non ho più produttori alle spalle e faccio davvero le cose spontaneamente. E non avendo fatto una scuola, non ho il senso di cosa si può fare o meno, sono molto libera».

La storia che racconta nel film la riguarda personalmente? «Diciamo che ne ho esperienza, ma non è stato con mio padre, né sono scappata, come fa Céline nel film. Leggo Le monde ogni giorno, sono storie frequenti anche se le persone non vogliono parlarne».

Visivamente molto sofisticato, il suo lavoro alterna stati onirici a una natura straordinaria, musica contemporanea di David Daniels e Sonic Youth e arie d’opera. «Sono figlia di Godard, la relazione tra suono e immagine è molto importante per me. Ho sempre fatto la fotografa e ho girato corti per raccontare le mie collezioni, non sono pubblici perché i diritti valgono solo per una stagione, poi non puoi più mostrare le modelle. Ne avrò almeno 25 all’attivo, è così che ho imparato a girare, devo moltissimo alla mia piccola macchina da presa giapponese, una Harinezumi che non mi lascia mai».

La scena dei danzatori di Butoh, tutti bianchi, immersi nella foresta, è un altro omaggio al Sol Levante? «In realtà quell’immagine viene dalla mia infanzia. Sono nata e cresciuta a Versailles, nel parco c’erano tutte quelle statue bianche. Ricordo che un giorno le ho immaginate mentre si muovevano, una visione che evidentemente non mi ha abbandonata».

Ha una predilezione per il blu? Si rintraccia nelle auto come nei mobili, ma anche nella casa della nonna della bambina… «Quella che cita è casa mia e il tavolo che si vede è del mio studio! I colori che preferisco sono il rosso e il blu pallido. Volevo una grande differenza cromatica tra la vita della bambina e quella della donna adulta».

 La natura e la strada hanno una parte enorme nella sua visione. «Sa che in Francia il 25 per cento dei bambini non ha mai visto il mare? Da non credere. Quando viaggiavamo e avevo solo 10 anni mio padre mi metteva nel sedile accanto a lui, non è un caso che la strada e l’osservare le cose mi affascinino così tanto».

Si può dire che in strada sia nata la sua fortuna. «Avevo 20 anni, senza un soldo in tasca, mi vestivo mischiando pezzi di Monoprix. Un giorno, al mercato delle pulci, qualcuno di Elle magazine mi ha visto e ha detto “lei è vestita in modo bizzarro…”, e mi ha portata al giornale. Tutto è incominciato così».

Oggi grandi artisti indossano i suoi capi. «Sono 25 anni che David Lynch sceglie maglie e giacche disegnate da me, e Tarantino mi chiede di rifargli le stesse giacche di Pulp Fiction, le consuma (ride, ndr)».

A quarant’anni dall’apertura della sua prima boutique, a Parigi, saprebbe dire qual è il suo talento? «Mi è sempre piaciuto aiutare le persone a sentirsi bene, all’inizio stavo personalmente in negozio per questo. Ma dovremmo parlare di più del talento, e di come usarlo, oggi sento solo la parola “fama”… Le persone che credono troppo in se stesse di solito non sono le più dotate, del talento di cui sopra. Chi dubita è meno arrogante».

Da dove viene la sicurezza che trasmette? «Da una natura molto positiva e serena, mi piace ridere e parlare con i miei amici. E quando esco non è per fare shopping, non voglio sapere cosa propongono gli altri, voglio restare libera. Sa che non ho mai fatto una pubblicità in vita mia, per Agnes B.?».

In un’epoca di narcisismo sfrenato, il suo è un comportamento vintage. «La stampa mi ha sempre aiutata, in Giappone come in Cina, forse perché hanno visto qualcosa di diverso, la possibilità di uno stile che le persone creano da sole, abbinando come vogliono quello che propongo. Amo i capi che durano una vita e non mi piacciono le cose troppo costose, che poi si usano due volte… Ma più di tutto, mi piace che la gente abbia fiducia in me».

Io Donna,  14 dicembre 2014

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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La locandina del film di Agnes B., Je m’appelle hmmm… (courtesy of allocine.fr)

Frédéric Tcheng, lo scienziato che racconta la moda (quella di Dior in particolare)

21 domenica Dic 2014

Posted by Cristiana Allievi in Moda & cinema

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Christian Dior, cinema, Cristiana Allievi, Dior and I, Frederic Tcheng, Moda, Raf Simons, San Pietroburgo

Raf Simons è diventato il designer di Dior e, in appena due mesi, ha lasciato il segno in una delle sfilate cruciali degli ultimi anni. Il regista francese Frédéric Tcheng l’ha convinto a portare sullo schermo questa avventura a metà tra invenzioni, tradizioni ed emozioni. E a Flair, per la prima volta, svela tutto quello che è successo dietro le quinte.

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Frédéric Tcheng, regista francese di Dior and I, incentrato sulla figura dello stilista tedesco Raf Simons.

Bianco e nero. L’ombra di una donna che gira su se stessa con la gonna a ruota viene catturata sui marciapiedi di Parigi. Gli inviti per la sfilata sono scritti a mano. I paparazzi sono aggrappati sui cancelli della maison. La polizia contiene la folla a fatica. Su queste immagini parla una voce fuori campo, quella di Dior, raccontando della presenza di due gemelli siamesi. C’è l’uomo che presiede alle sfilate, che lavora con i suoi dipendenti, che parla con la stampa. E c’è il suo gemello, che predilige la casa di Granville, frequenta pochi amici e soprattutto detesta i cambiamenti repentini. Cinquantacinque anni dopo, colore. La macchina da presa inquadra immagini straordinarie di tetti parigini poi si insinua fin su, in cima al palazzo, nel cuore pulsante della maison Dior. Alle pareti le foto elegantissime del couturier che ha rivoluzionato la moda campeggiano negli algidi corridoi. I sarti indossano camici bianchi e sembrano chimici in un laboratorio, però qui confezionano abiti preziosissimi. I lavoratori, persone semplici, sono chiamati a raccolta nel salone centrale per un grande evento: l’incontro con Raf Simons, il nuovo stilista della maison. L’uomo che deve materializzare una collezione in due mesi quando normalmente ce ne vogliono sei. Dior and I è ghiaccio bollente, un film emotivo nei contenuti e freddo visivamente. Bastano tre minuti di visione per capirne i punti di forza: la sovrapposizione tra passato e presente e la tensione. 36 anni, tre ottavi di sangue cinese nelle vene (suo nonno era cinese, la nonna solo per metà), Frederic Tcheng aveva un sogno: girare un film sulla prima collezione di Simons per Dior. Lo ha realizzato nel 2012, quando il designer belga si è insediato nella casa di moda, e si può dire che l’opera abbia superato se stessa, mostrando l’incontro fra due uomini (tre, se si include Dior) legati da vere e proprie affinità elettive. Quante, lo si capisce incontrando Tcheng di persona, in occasione della presentazione di Dior and I (che è ancora inedito in Italia) alla prima edizione dell’International Mediaforum di San Pietroburgo.

“Sono sempre a caccia di parallelismi tra la moda e il cinema”, l’ho sentita dire poco fa. Perché la interessano? «Il paradosso è che vengo da tutt’altro mondo. Sono un francese cresciuto a New York, mi sono trasferito a Parigi a studiare ingegneria, poi è arrivato il mio grande momento di crisi: non mi vedevo a lavorare come ingegnere per il resto della vita. Nel 2001 ho preso un anno sabbatico, mi sono iscritto a varie scuole di cinema finchè nel 2001 mi hanno accettato a quella della Columbia University».

Un ingegnere che torna all’Università a studiare cinema, questa è la notizia. «(ride, ndr) Ero molto felice di ricevere una formazione valida, dopo la quale è arrivato il progetto Valentino, l’ultimo imperatore. Il mio amico Matt Kapp era produttore del film, stavano andando a Parigi a girare nel castello dello stilista e mi ha chiesto di fargli da assistente di produzione. Mano a mano che le cose procedevano ho curato anche l’editing, alla fine ci ho lavorato cinque anni. È stato il mio ingresso nel mondo della moda».

Poi è venuta la nipote di Diana Vreeland. «Lisa aveva visto il film su Valentino, quando l’ho incontrata. Ha voluto che girassimo insieme Diana Vreeland, The Eye has to travel. A film finito, durante un footage a Parigi per vip ho incontrato Olivier Bialobos, capo della comunicazione di Dior. Gli ho chiesto se le voci che circolavano e che volevano Simons come successore di Galliano fossero vere. In quel momento nemmeno lui lo sapeva».

Aveva lavorato per Jil Sander ma non era molto noto ai media. «È vero, ma ho sempre avuto la percezione che fosse un designer interessante e in qualche modo lo sentivo vicino. E avevo un sogno, fare un film su Simons e la sua prima collezione per Dior».

Come ha reagito Raf alla proposta di ritrovarsi una telecamera tra i piedi, oltre allo stress già considerevole? «Non voleva assolutamente che facessi un film. Non è timido di persona ma non sopportava di stare davanti a una telecamera nè l’idea di uscirne come una star. L’ho tranquillizzato spiegando che ero interessato alla creatività, non a trasformarlo in qualcosa che non è. Mi ha risposto “non riesco a dire né si né no… Vieni una settimana, facciamo una prova”. Colpito dalla mia discrezione, non mi ha chiesto di andarmene. Una settimana è diventata due mesi, venti ore al giorno insieme».

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Raf Simons prepara la sua prima sfilata per Dior

Raf ne emerge come un uomo emotivo e allo stesso tempo molto ingegneristico nel lavorare. Studia, analizza, riflette… «È proprio così, non ci si crederebbe ma ha studiato industrial design, quindi non la moda ma materie pratiche. E la coincidenza è che anche Dior era un architetto, avrebbe voluto fare quella professione, prima di incontrare la moda».

Lei come si è calato nel mondo Dior? «Mi hanno mandato dozzine di libri di foto che ho ignorato. A catturarmi è stato un volumetto grigio, Christian Dior and I, uscito nel 1956, un anno prima della morte. Si capisce dall’incipit che Dior aveva una relazione alienata con la sua immagine e ne parlava allo stesso modo di Raf, che infatti mi ha confessato di aver smesso di leggere il libro dopo tre pagine, era uno specchio troppo forte».

 

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La sfilata così come ripresa nel film Dior and I di Tcheng

(continua…)

 Intervista esclusiva pubblicata du Flair, Novembre 2014

© Riproduzione riservata

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