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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi della categoria: Miti

Sean Penn, di padre in figlia

01 venerdì Apr 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Miti, Personaggi

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actors, cinema, DEad man walking, directors, Dylan Penn, festival, figli, Flag Day, genitori, Milk, padri, red carpet, Robin Wright, Sean Penn, Usa

di Cristiana Allievi

L’attore, regista e produttore Sean Penn sul set del nuovo film da lui diretto e interpretato Una vita in fuga (Courtesy Lucky Red)

ARRIVA NELLE SALE UNA VITA IN FUGA, E RACCONTA LA VITA DEL PIU’ GRANDE FALSARIO DELLA STORIA USA. È IL DEBUTTO DI DYLAN PENN, PRIMOGENITA DI SEAN, CHE PER QUESTA VOLTA LA SEGUE MOLTO DA VICINO.


Ci sono almeno due volti di Sean Penn. Il primo è quello del (due volte) premio Oscar che si presenta all’intervista con le guardie del corpo. E quando entra dalla porta crea un misto di imbarazzo e meraviglia che fermano l’aria. Poi c’è l’altro Penn, quello della foto che ha fatto il giro del mondo nelle ultime settimane: cammina da solo con il suo trolley, sulla strada che dall’Ucraina lo porta in salvo in Polonia. A guidare entrambi i Penn è l’istinto, non fa differenza che si trovi a raccontare l’invasione russa in Ucraina, come sta facendo in questo momento, o i fili emotivi e misteriosi che legano un padre a una figlia, come vedremo nel suo Una vita in fuga (Flag Day) dal 30 marzo, dopo essere stato in Concorso a Cannes. È la storia del più noto falsario conosciuto in Usa, John Vogel, raccontata dalla figlia Jennifer nell’autobiografia Flim-Flam Man. Vogel (Penn) è un padre che insegna a vivere una vita avventurosa a Jennifer, ma man mano che lei cresce, le sue storie si scoprono sempre meno credibili e più dolorose, fino al tragico finale. A interpretare Jennifer è Dylan, la figlia che il divo americano ha avuto con la ex moglie Robin Wright.  Quando parla di lei papà Penn si illumina.

Cos’ha di personale la storia di Una vita in fuga? «Ho sempre fallito nel rispondere a questa domanda, me ne sono accorto dopo svariati giorni da sobrio. È come spiegare perché mi piace quella donna, non ci riesco. Ho pensato raccontasse qualcosa che volevo approfondire, e quando mi è venuto in mente il volto di Dylan ho visto una grandiosa storia di verità e inganno,  tutti aspetti dello stesso flag day (la festa che celebra la bandiera americana a stelle e strisce adottata il 14 giugno 1777, ndr).

È il primo film in cui recita e dirige insieme, oltre a guidare l’esordio di Dylan. Cercava una nuova sfida per i suoi sessant’anni?  «Il multitasking mi ha sempre attratto e messo in ginocchio allo stesso tempo, non dirigermi era stata una specie di scelta religiosa. Sapevo che mi avrebbe fatto impazzire, e infatti è stata la cosa più dura che abbia mai fatto in vita mia».

L’ha anche costretta ad analizzare i suoi fallimenti come padre? «Da genitore devi riesaminare tutti i giorni il rapporto con i tuoi figli, è la cosa più vera che posso dirle. Ma sapevo dal primo giorno di riprese che sarei stato orgoglioso di Dylan, e che non sarebbe stato un fallimento».

Cosa, invece, non sapeva? «Quanto fosse sofisticata, quanta profondità avrebbe portato al racconto».

John Vogel amava molto la figlia, ma non riusciva ad essere sincero con lei… «La parte che ci siamo goduti io e Dylan riguarda certi aspetti della relazione, le cose che da padre vorresti credere che tua figlia conosca di te, e altrettante cose che una figlia vorrebbe che un padre capisse e sapesse di lei, nel bene e nel male». 

Dylan Penn, interprete del film, al suo esordio da attrice e diretta dal padre Sean (courtesy Lucky Red)

(…continua)

Intervista pubblicata su Vanity Fair del 6 aprile 2022

©Riproduzione riservata

Dario Argento: «Mi sono sempre ispirato ai miei pensieri»

15 martedì Mar 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, Berlinale, cinema, Miti

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Asia Argento, Berlinale 2022, Dario Argento, Ilenia Pastorelli, Occhiali scuri

di Cristiana Allievi

Qui l’intervista al regista maestro del brivido e a sua figli Asia Argento per Vanity Fair

©Riproduzione riservata

Mathieu Amalric che immagina le vite degli altri

08 martedì Feb 2022

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Miti

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famiglia, Il sole 24 Ore, interviste illuminanti, lutto, Mathieu Amalric, perdita, Stingimi forte, Vicky Krieps

Il suo film “Je reviens de loin” ha per protagonista Vicky Krieps

di Cristiana Allievi

L’attore Mathieu Amalric sul set del suo sesto film da regista, Stringimi forte, con la protagonista Vicky Krieps.

«Nanni Moretti ha apprezzato molto il mio film e mi ha chiesto di presentarlo al Cinema Nuovo Sacher, il 4 Febbraio». Famoso come compagno di James Bond in “Quantum of Solace”, e come l’uomo dalla sindrome locked-in nel capolavoro di Julian Schnabel, “Lo scafandro e la farfalla”, in realtà Mathieu Amalric considera la recitazione un secondo impiego. Il primo è essere un regista, e ce lo ha fatto  capire con la pellicola che lo ha reso famoso, “Tournée”. Ed è già la sesta volta che si mette dietro una macchina da presa, con quel “Stringimi forte”, presentato allo scorso Festival di Cannes, un’esplorazione delle radici del lutto. Tratto da una piece teatrale di Claudine Galea, “Je reviens de loin”, la trama ambigua (ma solo fino al quarantesimo minuto) ha per protagonista un’ottima Vicky Krieps che ci fa viaggiare a ritroso nei meandri di un’anima ferita a causa di uno strappo lacerante.  «L’ho incontrata a Parigi, non avevo ancora scritto il film», racconta il regista francese. «Era il 2019, l’avevo vista solo tre mesi prima in “Il filo nascosto”. Proprio le prime scene del film di Paul Thomas Anderson l’hanno impressa nella mia mente. Fa la cameriera, e a me capita spesso di immaginare le vite che ci sono dietro le facce delle persone che incontro, soprattutto nei ristoranti e nei caffè».

 “Stringimi forte” si ispira a un testo teatrale. «Claudine lo ha scritto 15 anni fa, ma non è mai stato rappresentato.  È immaginato per il palcoscenico, ma molte frasi sono dialoghi interiori, e anche il tempo e lo spazio sono incerti. La storia  è nata da un sogno, dalla visione della mano di una donna su una porta, non era chiaro se fosse viva o morta».

La musica  è un “mezzo” importante, nel film. «Da bambino ho studiato pianoforte, ho smesso a 17 anni quando me ne sono andato da Mosca lasciando la casa dei miei. Ho scritto la colonna sonora del film ricordandomi quello che avevo studiato allora, la Sonata n. 1 di Beethoven, Gradus ad Parnassum di Debussy… Ho continuato la vita di pianista che non avevo vissuto allora, perché sono pigro».

Vive da sette anni con la direttrice d’orchestra e soprano Barbara Hannigan. «Mi ha fatto scoprire Ligeti, con cui ha lavorato personalmente. Nel film c’è quella nota “la” ripetuta che troviamo in “Ricercata 1”. Poi è arrivato Rameau suonato da Marcelle Meyer, una delle prime pianiste a suonare su un vero pianoforte, negli anni Trenta».

Dove vivete, lei e la Hannigan? «In Bretagna, dove ho scritto il film, fra vento, mare, sole e pioggia. Leggendo la storia ho pianto molto, poi sono partito  dalla lista degli oggetti menzionati nella piece teatrale, l’accendino, la macchina, il cavallo… Chiudevo gli occhi per mettere la storia in ordine e per immaginare cosa mostrare sullo schermo e cosa affidare sole alle parole».

Conosce da vicino quel dolore che fa diventare matti? «Come tutti noi. Quando finisce un amore diventiamo pazzi, è come se esplodesse una bomba, tutto diventa frammentato… Immaginiamo cose che non esistono, sentiamo perfino l’odore del corpo dell’altro, che non c’è. E devi trovare un modo per mettere un piede davanti all’altro. Chiamiamolo spiritismo, o spiritualità: tutti dobbiamo  credere in qualcosa, per andare avanti».

Intervista pubblicata su Il sole 24 Ore

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Sophie Marceau, Il tempo delle scelte

14 venerdì Gen 2022

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È andato tutto bene, eutanasia, Francois Ozon, Il tempo delle mele, interviste illuminanti, Sophie Marceau, Vanity Fair

NEGLI ANNI OTTANTA CI HA CONQUISTATI CON IL PRIMO BACIO. ORA AL CINEMA SOPHIE MARCEAU CI FA RIFLETTERE SULL’EUTANASIA. MA IL TEMPO NON L’HA CAMBIATA (O FORSE L’HA MIGLIORATA)

di Cristiana Allievi

L’attrice e produttrice Sophie Marceau come l’avevamo conosciuta nel film cult degli anni Ottanta, Il tempo delle mele. Si racconta nell’intervista uscita su Vanity Fair il 5 gennaio 2022.

Si avvicina con passo deciso. Quando me la ritrovo davanti fatico a credere che abbia 55 anni: ne dimostra dieci di meno. Avvolta in un tailleur color panna,  l’attrice che negli anni Ottanta era l’idolo delle ragazzine grazie a Il tempo delle mele, accavalla le gambe in un modo che riesce solo alle dive francesi. Tra i suoi fan più appassionati c’è persino il regista Francois Ozon, che è riuscito ad averla in un suo film al terzo  tentativo.  La vedremo dal 13 gennaio in È andato tutto bene, adattamento del bellissimo libro di Emmanuèle Bernheim (Einaudi) in cui l’autrice condivide una parte di storia personale vissuta con suo padre. In Concorso all’ultimo festival di Cannes, il film vede Marceau interpretare la figlia di un uomo pieno di carisma e di successo, che però è stato un pessimo genitore. E dopo aver scoperto di essere malato,  le gioca un ultimo colpo basso chiedendole di aiutarlo a morire.

Francois Ozon l’ha inseguita per anni. «In realtà prima di questo progetto ci eravamo incontrati di persona solo altre due volte. Non ho mai accettato di recitare per lui perché non mi sentivo a mio agio nei ruoli che mi proponeva. Ma amo i suoi film dal primo che ha diretto (Sitcom, la famiglia è simpatica, del 1998, ndr). Quando mi ha mandato la sceneggiatura di È andato tutto bene mi ha colpita la nettezza, quel non perdersi nelle emozioni.  Abbiamo girato per due mesi, e anche se da attrice non sai mai quale sarà l’esito del tuo lavoro la collaborazione con Francois è stata perfetta».

Avete discusso di eutanasia, prima di girare questo film? «Certo, è importante sapere come la pensa un regista perché si possono vedere le cose molto diversamente.  Ho provato ad approcciare il tema dal lato psicologico, visto il tema. Ma lui mi rispondeva “si ok, che cosa stavamo facendo?”. Ozon è un uomo che vede e capisce tutto, ma è di poche parole». 

Però la ama: ha addirittura inserito nel suo lavoro precedente la scena de Il tempo delle mele in cui Pierre Cosso le mette le cuffiette del walkman… «Non lo ha fatto per me, semplicemente perché era innamorato dell’epoca incarnata dal film. È stata la nostalgia di quando eravamo giovani a ispirarlo, sappiamo tutti di cosa si tratta».

Oggi come vede Il tempo delle mele? «È stato un film super, grazie al quale abbiamo poi viaggiato in giro per il mondo. Non è stato solo turismo, in realtà ricordo molte stanze d’albergo. Però ho incontrato tante persone diverse, dal Giappone all’Italia, con cui discutere di un argomento universale: il primo bacio».

Anche in questo caso il tema è universale, se vogliamo… «Quello era il primo bacio, questa è la prima morte. Diciamo che è stato meno leggero da girare (ride, ndr)».

Che tipo di emozioni ha portato a galla, la morte? «Uno tsunami di emozioni, dalla risata alla disperazione. La perdita di una persona cara cambia gli equilibri delle vite di chi resta».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 17/12/2021

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Vicky Krieps, «Il mio posto».

10 venerdì Dic 2021

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cinema, Il filo nascosto, interviste illuminanti, Mia Hansen-Love, Sull'isola di Bergman, Vanity Fair, Vicky Krieps

PER LE DONNE IL TEMPO DEGLI SFORZI E DELLE GIUSTIFICAZIONI È FINITO: DEVONI PRENDERSI IL LORO SPAZIO PROPRIO COME FANNO GLI UOMINI, DICE VICKY KRIEPS. LEI LO HA FATTO, E ODPO UN PERIODO DI CRISI TORNA AL CINEMA, PASSANDO DALL?ISOLA DI UN GRANDE MAESTRO SVEDESE

di Crisitiana Allievi

L’attrice lussemburghese Vicky Krieps, 38 anni, protagonista di Sull’Isola di Bergman (foto courtesy Mubi).

Tiene le braccia incrociate, mani all’insù e gomiti appoggiati sul ventre, per un lungo lasso di tempo. È una presenza  calma e rassicurante, apaprentemente  in contrasto con quel lato punk che, quando aveva 20 anni, l’ha portata in Africa a fare volontariato per evadere da un puntino sulla carta geografica chiamato Lussemburgo. «È il paese più piccolo che ci si possa immaginare, una specie di fiaba, lì nessuna persona è più importante di un’altra…», dice senza inflessioni nella voce, dando lo stesso peso a ogni parola. Madre tedesca e padre a capo di una casa di distribuzione cinematografica, racconta di essere cresciuta in mezzo ai boschi, parlando con gli alberi. E così ti spieghi perché dopo il clamore suscitato da Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson invece di cedere alle lusinghe hollywoodiane sia ritornata in Europa, rinunciando a offerte di lavoro importanti. Le ci sono voluti due anni a riprendersi da quella che definisce un’esperienza traumatizzante: una costante esposizione allo sguardo pubblico e una campagna mediatica per gli Oscar in cui le veniva ripetuto che con la stampa si lasciava andare a troppe opinioni personali.  È fuggita, cercando di ritrovare un po’ di pace. Il 2021 è stato l’anno del grande ritorno, soprattutto per il film della regista francese Mia Hanson-Love, Sull’isola di Bergman, uno dei due titoli che l’hanno vista protagonista all’ultimo Festival di Cannes. Nei cinema italiani dal 7 dicembre,  con Tim Roth come altro protagonista, racconta la storia di una coppia di registi che cerca ispirazione fra le pieghe della propria relazione, in un gioco di realtà e finzione, ma anche di creatività e competizione, sull’isola di Faro, nel Baltico, dove il cineasta svedese a cui si riferisce il titolo ha girato alcuni dei suoi capolavori e ha vissuto l’ultima parte della vita. «Sono legata a Mia da un ricordo importante», dice a proposito della regista. L’ho vista da spettatrice, prima che lei vedesse me. Recitava in Fin aout, debut septembre. Ricordo che alla fine della proiezione dissi ai miei amici cinefili “è la prima volta che rintraccio una direzione, che vedo la messinscena dietro il film”. Fu un’esperienza molto forte, ero ancora una ragazzina».

Poi è cresciuta, e le è arrivata la proposta per questo film. «È stata molto dura per me accettare quella proposta. Uscivo da un successo frastornante e da un momento affatto facile da attraversare».

Ci spiega perchè? «Ero diventata un’attrice che alcune persone conoscevano, e prima non era così. Mi sembrava di non poter tornare a casa, da dove venivo, perché qualcosa era cambiato dentro di me. Il punto è che non mi vedevo a fare le valigie e andare a vivere in California. Ero davvero persa. Quando mi ha cercata Mia avevo appena programmato una vacanza con i miei due figli, e mi sono trovata nel conflitto, fra vita privata e lavoro».

Guarda il caso, la regista le offre la storia di una donna che si emancipa e si prende la libertà di trarre ispirazione creativa da ciò che le piace e la circonda.  In Sull’isola di Bergman il mondo è ancora dominato dagli uomini, e il femminile cerca uno spazio proprio… «Ci augureremmo di non doverne nemmeno parlare in questi termini, ma non possiamo ignorare il tema a cui allude, perché non è superato. Fino a poco tempo fa non c’erano nemmeno registe donne, e anche se la situazione sta cambiando dobbiamo continuare a ricordarcelo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 15 dicembre 2021

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Sharon Confidential

15 lunedì Nov 2021

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura, giornalismo, Miti, Personaggi

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Basic Instinct, biografia, D La repubblica, Hollywwod, interviste illuminanti, malattia, Sharon Stone, vita, ZFF

Premiata con il Golden Icon Award al Festival di Zurigo, la star americana Ms. Stone si racconta. Un’infanzia difficile, problemi di salute, gli abusi, un divorzio. Il segreto del suo successo? Proprio i fallimenti, che «diventano il fondamento delle nostre grandi riuscite». E un padre che le ha detto dall’inizio: «Devi imparare a vincere, vincere, vincere!»

di Cristiana Allievi

  • L’attrice e produttrice americana Sharon Stone, 63 anni, appena premiata con il Golden Icon Award al Festival di Zurigo.

È bellissima, e molto magra. Ha tagliato i capelli biondi, passando dal caschetto al corto più deciso, una mossa vincente. Il lamè del tailleur che indossa rafforza la luce che emana il viso. Eppure Sharon Stone vuole dare a chi la incontra la versione migliore di sé, al di là dell’aspetto fisico. «Sono molto timida, e ogni giorno dico sempre la stessa preghiera. Chiedo di essere usata per fare il bene migliore al maggior numero di persone possibile, e di essere guidata nel mio scopo del giorno. E poi permetto a me stessa di essere completamente presente». È quando apre bocca, infatti, che la Catherine Tremell di Basic Instinct da il meglio di sé. 63 anni, nei primi 40 ha conosciuto il successo che ti toglie la libertà. Quella di andare al supermercato, di farti un weekend al mare o semplicemente due passi con le amiche. Un prezzo impegnativo da pagare anche per una ragazza cresciuta in Pennsylvania con una madre cameriera e un padre che dopo un’esplosione ha perso tutto (nel business del petrolio). Ma per Sharon Stone, la “donna che piange a comando”, come ha detto di lei un regista per descriverne le doti, il successo è stata solo una delle tante cose da attraversare. La più radicale è avvenuta dopo un’emorragia cerebrale che ha messo a tappeto matrimonio, carriera ed economia. «Il mio cervello ha sanguinato per nove giorni, poi ho avuto un ictus. Avevo poche possibilità di sopravvivere, un figlio di un anno e un matrimonio per nulla meraviglioso». Solo che invece di chiamarlo disastro, lei lo definisce un “risveglio”.  «È stato difficilissimo. I miei genitori sono venuti a stare con me, mio padre mi ha molto aiutata. All’epoca non c’erano cure per l’ictus e avevo molti strascichi, distorsioni visive, problemi a camminare, dall’orecchio sinistro non sentivo quasi più nulla, la gamba sinistra era irriconoscibile a livello di sensibilità. Poi il mio amico Quincy Jones mi ha invitata a cena durante le vacanze di Natale. Era guarito da molti problemi grazie a un medico,  il dottor Hart Cohen, e voleva che lo incontrassi anch’io (è quello che ha guarito anche la leggenda del country Glen Campbell, ndr).  Quando non pensavo più che sarei riuscita a tornare a lavorare, ha fatto la diagnosi giusta». E delle 16 medicine che prendeva ogni giorno, le ha dato l’unica che le sarebbe servita. «È stata una disintossicazione dura, mia madre mi ha assistita in questo difficile processo». Il periodo di convalescenza è coinciso con un divorzio (da Phil Bronstein), e con l’arrivo di altri figli. Dopo il primo (Roan Joseph, adottato insieme a Bronstein) ha adottato Laird Vonne. E poco dopo è arrivata la terza, Quinn Kelly, dopo una chiamata che la informava del fatto che era la sorella di Laird Vonne. «All’improvviso avevo tre figli, che oggi hanno 15, 16 e 21 anni». No molto tempo dopo il divorzio, la Stone ha avuto anche un infarto. «E stata un’esperienza forte, che non ha voluto vivere invano. Non avrei fatto un buon lavoro se non mi fossi chiesta quale fosse il senso di quello che mi era successo. Ho sentito di avere finalmente un’opportunità,  affermare ciò che contava davvero per me.  Ed è quello che sta accadendo più in generale a noi donne: non solo è ok dire cosa non ci va più bene, ma è ok anche smettere di farci manipolare». Il festival di Zurigo le ha appena assegnato il  riconoscimento più importante, il Golden Icon Award, e la sua empatia ha scorrere lacrime in platea, per esempio mentre parlava di successo. «Non esiste successo senza fallimento, e non possiamo crescere senza provare cose nuove, che implicheranno a loro volta degli sbagli.  Ma è così che impariamo, che facciamo esperienze anche molto sottili, che poi diventano l’essenza del nostro successo. I fallimenti, in molti casi, diventano il fondamento delle nostre grandi riuscite».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su D La Repubblica del 13 Novembre 2021

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Tony Robbins «Sicuri (e felici) alla meta»

06 mercoledì Ott 2021

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, Cultura, Miti, Personaggi

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benessere, crescita personale, Cristiana Allievi, interviste illuminanti, life coach, life strategist, peak state, Tony Robbins, Unleash the power within, UPW, Vanity Fair

RAGGIUNGERE “PEAK STATE” VUOL DIRE POSSEDERE QUELLO SLANCIO CHE GARANTISCE LA RIUSCITA IN OGNI CAMPO. TONY ROBBINS, IMPRENDITORE E STRATEGIST, LO HA PROVATO SU SE STESSO E LO INSEGNA AGLI ALTRI. PRIMA LALE FOLLE DAL VIVO, ORA AI SUOI WORKSHOP ONLINE

di Cristiana Allievi

Ci sono presidenti degli Stati Uniti che lo chiamano la notte prima di un processo per impeachment, come Bill Clinton. Ma anche Lady D, Leonardo DiCaprio, Madre Teresa, Nelson Mandela e una sfilza di atleti ai vertici del ranking mondiale hanno fatto ricorso alle sue doti di strategist, definizione che preferisce a quella di coach. Imprenditore, autore di best seller come Money – Master the game, filantropo, Tony Robbins ha guidato cinquanta milioni di persone a raggiungere i propri obiettivi. Tanto da perdere la voce. Tanto che Netflix gli ha dedicato un docufilm, Tony Robbins- I am not your guru, di Joe Berlinger, il cui titolo la dice lunga sul suo carisma. Travolgente oratore, impegnato in settanta business diversi con fatturati stellari, è una  montagna d’uomo specializzata nel creare “peak state”: stati d’animo in cui si riesce a superare le paure che separano dai propri obiettivi. Per raggiungere un’indipendenza finanziaria che, nella sua visione, va oltre il semplice denaro. Prima della pandemia viaggiava in 15 paesi ogni anno, trovando folle ad attenderlo negli hotel sede dei suoi workshop. Lo scorso marzo ha  tenuto il primo esperimento di mega workshop virtuale: Unleash The power within (a cui chi scrive era presente),quattro giorni non stop con cinquantamila partecipanti da 136 paesi. Un bagno di energia e di gioia.

(…continua)

L’intervista integrale è pubblicato su Health di Vanity Fair Italia del 23 giugno 2021

©Riproduzione riservata

Tony Robbins, strategist e life coach, trainer di celebrities, autore di best seller e conduttore di seminari di self empowerment.

Omar Sy: «Il mio Lupin è l’eroe degli invisibili».

15 martedì Giu 2021

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Miti, Netflix, Personaggi, Senza categoria

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Cannes film festival, interviste illuminanti, ladro gentiluomo, Ludivine Sagnier, Omar Sy, Quasi amici, Serie tv, Spike Lee

Crescere con la pelle nera nella periferia francese. Sentire gli sguardi degli altri addosso. Insegnare ai suoi figli che è l’amore a rendere uguali gli esseri umani. L’attore Omar Sy torna in tv con la seconda serie sul ladro gentiluomo e racconta a Grazia che cosa lo lega a un personaggio divenuto un simbolo per chi si sente escluso

di CRISTIANA ALLIEVI

L’ATTORE FRANCESE OMAR SY, 43 ANNI, DALL’11 GIUGNO È SU NETFLIX CON LA SECONDA STAGIONE DI LUPIN.

A volte le star hanno modi molto normali di sorprendere. Omar Sy, attore e comico francese di origini senegalesi e mauritane, 43 anni, lo fa parlandomi del suo thiebu dieune. Se vi state chiedendo di cosa si tratti, l’ho fatto anche io prima di scoprire un piatto amatissimo della cucina senegalese. Subito dopo passa a raccontarmi della moglie, Helene, con cui vive da vent’anni e condivide ben cinque figli. Parlare di famiglia con lui è molto naturale, sta al centro della sua vita e anche della trama di Lupin, la serie tv Netflix di cui è l’interprete. La rivisitazione della storia del ladro gentiluomo è un grande successo della scorsa stagione e dall’11 giugno sono in onda i nuovi episodi. Me lo racconta direttamente dal sud della Francia, da una stanza della sua casa. «Nella prima stagione avevamo scherzato», racconta, «con la seconda le cose si fanno serie».  Come serio sarebbe stato il suo destino, se fosse finito in fabbrica come suo padre, un senegalese migrato in Francia che ha lavorato tutta la vita come operaio. Invece Omar, il quarto di otto figli, accompagna un amico a fare un provino in radio, con il risultato che li prendono entrambi. Dalla radio a Canal +, finché dieci anni fa esatti Quasi amici, uno dei più grandi successi della storia del cinema francese, gli apre le porte di Hollywood grazie al personaggio di Driss, il badante che assisteva l’aristocratico tetraplegico interpretato da Francois Cluzet. Quindi i grandi blockbuster, come X Men, Jurassic World e Il codice da Vinci. Non meraviglia che oggi sia al centro di un altro successo mondiale.

Che differenza c’è fra il successo avuto con Quasi amici e quello che sta avendo con Lupin? «La differenza è che sono più vecchio, e con questo intendo anche che ho più esperienza. Dieci anni fa Quasi amici (pronuncia il titolo in italiano, ndr) mi aveva preso alla sprovvista.  Era stato scritto per me, mentre sono stato più coinvolto nel processo di sviluppo di questa serie, e forse ero anche più preparato».

Guardare al passato è una sua abitudine?  «Non lo faccio mai, è il modo migliore per farsi male. Cerco sempre di vivere il momento presente e di fare il meglio che posso. Voltarti indietro a considerare quello che è stato è qualcosa che fai quando ti fermi, e io mi sto ancora muovendo, non voglio sprecare tempo».

Quando ha sentito arrivare il grande momento, quando tutto cambia per sempre? «Non è mai semplice individuare quel punto. Vedo la vita come un passo dopo l’altro, niente succede all’improvviso. Ho sempre avuto la sensazione di procedere perché quello era ciò che volevo. Tutt’oggi sto ancora  muovendomi nella mia avventura, non sono a un punto in cui dire “ecco, questo è quanto”. E mi piace questo continuare a progredire».

Quest’anno il regista afroamericano Spike Lee sarà presidente di giuria al festival di Cannes. Vi conosce di persona? «L’ho incontrato a Los Angeles in un momento favoloso della mia vita. I suoi film sono stati fondamentali per noi neri, ci hanno aperto la mente e fatto pensare in modo diverso. Perché crescendo in Francia non sai cosa significa essere un nero in altri paesi del mondo, come gli Usa. E con film come Malcom X abbiamo imparato molto anche su cosa è successo nel passato».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 10/6/2021

©Riproduzione riservata

Paola Cortellesi, «Siamo tutte figlie di Nilde Iotti»

01 lunedì Mar 2021

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura, giornalismo, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Come un gatto in tangenziale, Grazia, interviste illuminanti, Iwonderfull, La befana vien di notte, La reggitora, Leonilde, Nilde Iotti, Paola Cortellesi, Peter Marcias, Riccardo Milani, Sky

In tv legge le lettere e i pensieri della prima presidentessa della Camera, la pioniera di tante battaglie femministe. «L’ho sempre ammirata» , racconta a Grazia l’attrice, «perchè grazie a lei la politica non ha più potuto ignorare le donne»

di Cristiana Allievi

  • L’attrice e sceneggiatrice Paola Cortellesi, 47 anni, sul set di Nilde Iotti, il tempo delle donne (foto di Francesca Cavicchioli)

Paola Cortellesi ha usato bene questa pandemia. Ha appreso cose nuove di sè. Ha rivoluzionato le sue abitudini. Ha superato i propri limiti. Me lo racconta in questa chiaccherata in cui sembra che la primavera, intesa non solo come stagione,  si affacci alla finestra.   «Ci stiamo allenando a vivere le alternative nel quotidiano, a pensare con un’altra testa. La prima volta il lockdown ci aveva presi alla sprovvista, adesso ci stiamo abituando al fatto che non si può programmare troppo», racconta con tono pacato, «e a tratti si può anche essere meno produttivi. Io ho imparato ad amare la calma, e ora voglio conservarla». È questa la promessa che fa a se stessa l’attrice record d’incassi come La Befana vien di notte  e Come un gatto in tangenziale. Un’artista che ormai è anche sceneggiatrice dei suoi progetti, in questi giorni impegnata proprio nella revisione del testo di Petra 2 – la serie tv Sky in cui è single  e anaffettiva – e nelle prove di abiti e trucco della stessa serie, poco prima di iniziare le riprese. Nel frattempo il docu film di Peter Marcias che sarebbe dovuto uscire in sala a novembre si fa largo in rete (il regista firma anche un libro con prefazione di Cortellesi, La Reggitora, edito da Solferino). Nilde Iotti, il tempo delle donne è già disponibile sulle piattaforme di #Iorestoinsala, e dal 25 febbraio lo sarà anche su quelle di #IWONDERFULL, infine dal 10 aprile arriverà su Sky Tv.  In questo straordinario omaggio a Nilde Iotti, prima donna a diventare presidentessa della Camera, nel 1979, Cortellesi ci restituisce il suo pensiero facendo da cerniera fra le immagini contemporanee, con testimonianze delle amiche più care e di figure di spicco della cultura e della politica di quegli anni, e le magnifiche scene di repertorio. E quando riapriranno i cinema la vedremo nel sequel di Come un gatto in tangenziale, diretta dal marito Riccardo Milani con cui ha una figlia, Laura, 9 anni.

Nilde Iotti è una figura importantissima, raccontarla dev’essere stato impegnativo. «Avevo già raccontato Iotti nello spettacolo teatrale Leonilde. Narrava le vicende anche personali, che diventarono presto di dominio pubblico. Peter Marcias aveva visto lo spettacolo e mi ha voluta come filo conduttore nel suo documentario, per dar voce alle sue lettere personali».

Sono testi struggenti.  «Privatissimi e inaccessibili per 40 anni. Strappano il cuore, per la bellezza e la cura con cui pesava ogni parola».

Iotti ha ha precorso molte battaglie femminili. Nel 1956 fondò l’Associazione delle donne e iniziò a combattere per una settimana lavorativa di quattro giorni, la parità nella visione, l’aborto e il divorzio. «Diciamo che ha combattuto per la parità, anche dei coniugi, quando per le donne non c’erano nemmeno i diritti di base. Ci sono lettere in cui racconta come veniva guardata in quanto figura di potere, con tanto di commenti che facevano su di lei. Sentiva di avere addosso un giudizio costante, ma non voleva scimmiottare un uomo per essere credibile».

Si innamorò perdutamente di Palmiro Togliatti e fu uno scandalo: lui era un uomo sposato, lei pagò la scelta sentimentale. Oggi sarebbe uguale? «Sarebbe diverso, proprio grazie alle sue battaglie».

Che ricordi aveva di questa politica? «Essendo nata nel 1973, è stata il primo Presidente della Camera che ho conosciuto. Ricordo che avevo un forte senso di rispetto per lei, per le sue dure battaglie e per quel suo rischiare la vita, senza alzare mai la voce. La cosa che trovo straordinaria è quel modo di muoversi e di parlare che, seppur morbido, non toglieva un grammo di forza all’efficacia delle sue azioni. Soprattutto, Iotti era una donna che sapeva ascoltare gli altri».

Paola, lei è stata una delle prime donne a firmare il manifesto “Dissenso comune”, tre anni fa esatti, in tempi di #Metoo contro gli abusi e le molestie. È servito? «Il #Metoo è nato come denuncia e reazione davanti a molte cose non dette e che andavano denunciate, come assalti e violenze. Noi ci siamo ispirate ai diritti della donna in generale, a tutto ciò che viene prima di arrivare alle azioni più deprecabili. Per quanto mi riguarda mantengo alta l’attenzione, e non mi riferisco solo agli uomini ma a come ci muoviamo nella società, perché c’è un problema culturale,negli atteggiamenti e nelle parole, difficilissimo da scardinare».

(continua…)

L’intervista integrale è pubblicata su Grazia del 25/2/2021

© Riproduzione riservata

George Clooney, «Prendo sul serio il lavoro, non me stesso».

23 mercoledì Dic 2020

Posted by Cristiana Allievi in cinema, giornalismo, Miti, Netflix, Personaggi

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Tag

Cristiana Allievi, Donna Moderna, George Cooney, Hollywood, interviste illuminanti, The midnight Sky

di Cristiana Allievi

È stato appena eletto, per il secondo anno consecutivo, attore più sexy del mondo. Dirige e interpreta un kolossal ambientato nello spazio. Ma con noi ha rievocato gli anni in cui doveva lottare per un ruolo. E i fiaschi che si sono alternati ai successi. Come quella volta in
cui gli dissero di cantare…

THE MIDNIGHT SKY (2020) George Clooney as Augustine and Caoilinn Springall as Iris. Philippe Antonello/NETFLIX

È sorridente, abbronzato. E come spesso accade, in vena di scherzare. «Questa conversazione è la mia prima uscita dal lockdown, una specie», esordisce dalla sua casa di Los Angeles. Subito dopo aggiunge «sento mia suocera parlare nell’altra stanza…». Quasi una battuta a far dimenticare le voci di crisi del suo matrimonio con Amal.  L’attore nato nel Kentucky 59 anni fa e diventato famoso grazie al pediatra Ross di E.R. e a una vita da single impenitente, oggi ha due gemelli, Ella e Alexander, che riposano nella stanza accanto, non lontani dalle due prestigiose statuette vinte agli Oscar. Oggi la sua è una carriera densa di film, davanti e dietro la macchina da presa, eppure il 23 dicembre riuscirà a esordire di nuovo, con una prima regia di un film nello spazio. Netflix gli ha messo a disposizione un budget stellare per The Midnight Sky, basato sul romanzodi fantascienza del 2016 di Lily Brooks-Dalton, La distanza fra le stelle, che dirigerà e interpreterà a tre anni di distanza da Suburbicon. Sarà Augustine, un brillante astronomo con barba da Babbo Natale, capelli corti e occhi spesso sgranati, che nel mezzo di un’ambigua catastrofe globale manda messaggi disperati alla terra da un remoto avamposto nel Circolo polare artico in cui vive. Crede di essere solo, finché non incontra Iris (Caoilinn Springall), una bambina di otto anni, figlia misteriosamente abbandonata da un genitore scienziato.

(continua…)

L’intervista integrale è su Donna Moderna del 24 dicembre 2020

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