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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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C’era una volta a Hollywood, di Quentin Tarantino

22 mercoledì Mag 2019

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Brad Pitt, C'era una volta a Hollywood, Cannes 2019, CAnnes 72, DiCaprio, Margot Robbie, Quentin Tarantino

Dopo tanta attesa, poche ore fa sulla Croisette abbiamo assistito all’anteprima mondiale di C’era una volta… a Hollywood di Quentin Tarantino. Nella sala Lumiere, alle 16.30, è stato letto un messaggio ufficiale del regista: “Cari giornalisti amanti del cinema, vi preghiamo di non diffondere dettagli sul film che ne rovinerebbero la visione. Fate che sia la stessa che avete avuto voi”. Solo a lui è concesso di fare certe cose, diciamolo, e non meraviglia, perché per il regista che 25 anni fa ha vinto qui la Palma d’Oro per Pulp Fiction sulla Croisette c’è un tifo da stadio. E alla fine della proiezione si contano sei minuti di standing ovation per lui e il cast presente.

Questo è forse il film più tarantiniano di Quentin Tarantino, che ne è regista, scrittore e produttore. Ci ha messo dentro il suo adorato western e il cinema dei generi, i suoi ricordi da giovane, le serie tv di culto come FBI, i produttori, le star di un tempo, i set di Hollywood. A distanza di poche ore da Nicolas Bedos, che anche lui con il suo ottimo La belle Epoque ci ha fatto vedere il cinema dentro il cinema.

L’ambientazione, senza spoilerare, è nel 1969 e precede noti fatti criminali  avvenuti a Hollywood. La storia ruota intorno a Rick Dalton (uno straordinario Leonardo DiCaprio), idolo della tv, che vive un momento di cambiamento  nella carriera. Al suo fianco c’è il compagno storico, il suo stunt Cliff Booth, interpretato da Brad Pitt (un figurino, con abbronzatura californiana). I due sono molto amici e cercano di cavarsela nell’ultima fase della golden age di Hollywood, con Rick che vive in una casa sulle colline e ha come vicini di casa i Polanski, mentre Cliff ha come dimora una roulotte con il cane e la tv. Dopo aver girato un grosso western, Rick accetta di andare in Italia a girare lì quattro film con Sergio Corbucci (che Tarantino ama e che ha omaggiato con Django). Torna quindi a Los Angeles con moglie italiana e un bel po’ di soldi. Una volta a casa lui e Cliff si ritrovano per una memorabile serata di sbronze che culmina in un tripudio di cinema destinato a passare alla storia (e che non riveleremo per rispettare la richiesta del regista).

Il racconto è pieno di salti temporali, in avanti e indietro, e come al solito porta cambiamenti alla storia. Sul set si incrociano personaggi favolosi interpretati da Al Pacino, Dakota Fanning, Kurt Russell, e Luke Perry poco prima della sua scomparsa. Per godere della presenza di tutti occorrerà aspettare il 19 settembre, mentre gli Usa anticipano al 26 luglio, esattamente  a distanza di 50 anni dai terribili fatti di cronaca che racconta.

Leggi cosa mi è piaciuto del film e cosa meno nel mio articolo per GQ.it

Pubblicato il 22 maggio 2019

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Antonio Banderas, «Adesso divento Pedro»

16 giovedì Mag 2019

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Antonio Banderas, Cannes 2019, CAnnes 72, Dolor Y Gloria, GQ Italia, interviste illuminanti, Pedro Almodovar

Nella lunga conversazione avuta con Antonio Banderas a Madrid, l’attore e produttore mi ha parlato della sua esperienza con la morte, per prima cosa. Ovvero di quando, due anni e mezzo fa, ha subito tre interventi al cuore e ha toccato la morte da vicino. Fatto, questo, che lo ha riavvicinato alla vita e che ha lasciato tracce visibili in lui. E mentre l’icona latina di Hollywood faceva i conti con quello squarcio apertosi su qualcosa di vertiginoso, sulla scena della sua vita si ripalesava un mentore. Anzi, il mentore, Pedro Almodovar, a sua volta pronto per un film epocale. È così dopo essere stato Dalì, Pancho Villa, Picasso e Mussolini -solo per citare i personaggi realmente esistiti che ha incarnato- Antonio Banderas si è trovato a interpretare l’uomo che 37 anni prima lo aveva notato, fuori da un caffè di Madrid.  Hanno fatto sei film insieme, Banderas è diventato una star europea. Ma lui voleva di più, voleva Hollywood. Così è volato Oltreoceano, costringendo Almodovar a incassare un duro colpo. E dopo anni di successi clamorosi al botteghino, deve aver sentito il richiamo della profondità dei personaggi di Pedro, così i due si sono ritrovati in Dolor Y Gloria, nelle nostre sale dal 17 maggio, in contemporanea con la proiezione al Festival di Cannes, in Concorso. Una prova di recitazione minimalista ma della massima efficacia, la materializzazione di una connessione fra anime per cui Banderas interpreta Pedro stesso. E per cui, ne siamo certi, entrambi avranno riconoscimenti importanti. La nostra conversazione è avvenuta il giorno dopo la visione di Dolore e Gloria a Madrid.

L’intervista è pubblicata sul GQ Italia, numero Maggio/giugno 2019

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Giuria Cannes 2019

30 martedì Apr 2019

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attori, Attrici, Cannes 2019, CAnnes 72, festival

Eccola!

Président

Alejandro Gonzalez Iñárritu

Réalisateur, producteur & scénariste / Mexique

Elle Fanning

Actrice / États-Unis

Maimouna N’Diaye

Actrice, réalisatrice / Burkina Faso

Kelly Reichardt

Réalisatrice, scénariste & monteuse / États-Unis

Alice Rohrwacher

Réalisatrice & scénariste / Italie

Enki Bilal

Auteur de bandes-dessinées & cinéaste / France

Robin Campillo

Réalisateur, scénariste & monteur / France

Yorgos Lanthimos

Réalisateur, scénariste & producteur / Grèce

Paweł Pawlikowski

Réalisateur & scénariste / Pologne

Nadine Labaki, dalla parte dei bambini»

14 domenica Apr 2019

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bambini, Cafarnao, D La repubblica, interviste illuminanti, Nadine Labaki, senza identità, Siria

Zain è un ragazzino che trascina dietro una tinozza legata a una corda.  Dentro c’è la sorellina Yonas, poco più che neonata.  Cammina nella miseria e solitudine di Beirut, e sembra che la vita si sia dimenticata di lui. È una delle tante immagini che restano impresse di Cafarnao, il terzo film della nota regista e attrice libanese Nadine Labaki. Un grido che, attraverso le vicende di Zain Al Rafeea, nato in Siria e trasferitosi in Libano, dà voce a quei 280 milioni di piccoli nel mondo che vengono maltrattati, abusati, picchiati, violentati, imprigionati, e di cui non si conosce nemmeno l’esistenza perché privi di identità.

«La storia lavorava dentro di me da tempo», racconta la Labaki, che dal 14 maggio al festival di Cannes sarà presidente di giuria nella sezione Un Certain Regard.  «Ci dicono di non dare denaro ai bambini per la strada, perché sono gestiti dalla mafia che li lascia di mattina e li riprendere alla sera, io volevo capire di più, cosa succede quando uno come Zain sparisce dietro l’angolo? C’è troppa tendenza a etichettare e disumanizzare questi bambini. E ho scoperto, fra le altre cose, che un piccolo non può andare a letto finché non ha procurato una certa quantità di denaro alla famiglia, quindi prima glieli diamo noi, quei soldi, prima andrà a dormire». I 123 minuti di immagini dalla forza dirompente che sono passati in Concorso all’ultimo festival di Cannes hanno suscitato reazioni nette. Qualche critico cinico ha gridato al misery porn, mentre il pubblico omaggiava con 15 minuti di standing ovation. E adesso è nelle nostre sale. Dopo Caramel e E ora dove andiamo?, con cui la regista ha avuto molto successo anche al botteghino, Cafarnao è il suo primo film apertamente drammatico. Segue la storia vera di Zain Al Rafeea, profugo siriano che porta i propri genitori in tribunale e gli fa causa. Il motivo? «Avermi messo al mondo».

(continua)

Articolo pubblicato su D la Repubblica del 10 Aprile 2019.

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Prime Visioni. Le donne del cinema conquistano visibilità

24 domenica Mar 2019

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cinema, Cinema Italiano, cinema tedesco, cinema Uk, cinema Usa, D La repubblica, donne, interviste illuminanti, Isabelle Giordano, Keri Putnam, Mariette Rissenbeek, Piera Detassis, Sundance, Tricia Tuttle

FORTI, PREPARATE, INNOVATRICI: LE DONNE DEL CINEMA CONQUISTANO VISIBILITA’, A PARTIRE DALLE STANZE DEI BOTTONI. COSI’, GUIDANDO FESTIVAL E KERMESSE INTERNAZIONALI, PUNTANO A UNA MAGGIOR PRESENZA FEMMINILE ANCHE NEI FILM

Le donne del BFI London Film Festival (courtesy D la Repubblica).

La fata dei cavoli. Un titolo che sembra un presagio, per il primo film girato dalla prima regista donna, nel 1896. Alice Guy, francese, fu poi l’autrice di altri seicento lavori, arrivando persino a dirigere studi cinematografici d’Oltreoceano. Ma finì dimenticata e in disgrazia, lasciando ai Lumiere tutti i meriti dell’invenzione del cinema.

Oggi le femministe francesi stanno lavorando perché Alice abbia il riconoscimento che merita e una strada intitolata a suo nome. Così, a mezzo secolo dalla scomparsa di Guy, l’occasione è giusta per fare il punto sulle donne (del cinema) con poteri e visioni forti. Per capire a che punto siamo sulla strada verso la parità fra sessi nel mondo di celluloide.  

«La Francia è il paese con la maggiore presenza di registi donne rispetto agli uomini, abbiamo anche molte produttrici e agenti di vendita», racconta Isabelle Giordano, ex madame del cinema di Canal+ dal 2013 direttrice generale di UniFrance, organismo che promuove il cinema d’Oltralpe all’estero. Con 300 film all’anno, e più di 60 coproduzioni internazionali: il primo in Europa. «Un dato strano, se si pensa che i francesi non hanno mai amato avere donne al potere. Ne parlavamo già 15 anni fa quando lavoravo in tv», aggiunge. «Abbiamo registe note in tutto il mondo, come Rebecca Zlotowski e Claire Denis, che però non hanno mai vinto una Palma d’Oro. Penso che occorre andare oltre il #metoo: la domanda da porsi non è più quante donne ci sono, piuttosto com’è la qualità del loro lavoro? E quanti film facciamo su di loro? Anche Bercot, Satrapi e la stessa Maiwenn girano film tosti, coraggiosi, ed è questo che occorre far capire a chi finanzia il cinema». Nel complesso  la Francia nel 2018 ha avuto un calo dello 0,5 di presenze nelle sale. «Il nuovo trend è avere tanta scelta, veloce e da casa, ma il cinema deve continuare a offrire spunti e richiedere tempo per riflettere. E dovrà lavorare accanto alle piattaforme, invece di far loro la guerra. Ci aspettiamo novità dal Festival di Cannes alle porte». L’unico box office europeo ad aver registrato un +0,6 per cento nel 2018 è quello inglese. «Negli anni Settanta in casa mia si andava al cinema almeno una volta alla settimana, se non due», ricorda Tricia Tuttle, nuovo direttore permanente del BFI London Film Festival, l’ente governativo che distribuisce i fondi per il cinema. «Oggi i costumi sono cambiati, ma invece di aumentare il costo dei biglietti abbiamo attuato una politica di flessibilità dei prezzi e ha funzionato». Laurea alla University of North Carolina, ha lavorato prima con Sandra Hepron, direttrice del London Film Fest, poi con Amanda Berry, amministratore delegato dei Bafta, e Claire Stewart, ex direttrice del BFI. «Sono tutte donne forti che puntano sull’avere intorno a sé persone creative a cui lasciar fare il proprio lavoro, dando molta importanza al contributo di ciascuno». Da Keira Knightley a Emma Thomson, da Helen Mirren ad Olivia Colman, da Rachel Weistz, Carey Mulligan ed Emma Watson, «le nostre sono professioniste versatili e dal forte appeal, non figurine messe lì per essere guardate. E fra le registe, l’anno scorso il 38 per cento erano donne, contro il 24 dell’anno precedente. Numero che precipita però quando si parla di grandi budget: dei 200 film ai vertici del box office nel 2018  solo 15 erano diretti da una donna», precisa Tuttle.

(continua…)

Articolo pubblicato su D la Repubblica del 23 marzo 2019

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Matt Dillon: «Nelle mente di un serial killer».

12 sabato Gen 2019

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Cristiana Allievi, D La repubblica, I regazzi della 56 strada, interviste illuminanti, La casa di Jack, Lars Von Trier, Matt Dillon, Rusty il selvaggio, serial killer, Uma Thurman

Con La casa di Jack Matt Dillon ha accettato il ruolo più scomodo, e anche doloroso, tra gli oltre sessanta della sua carriera. Interpretare un feroce assassino di donne, con la regia di Lars von Trier, è stato un rischio. Grazie al quale ha trovato la verità, come racconta in questa intervista esclusiva per D La Repubblica

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L’attore americano Matt Dillon, 55 anni, fotografato per D la Repubblica. 

Chi pensa che le star di Hollywood siano fatte con lo stampino, dovrebbe incontrare Matt Dillon. In completo blu di grisaglia con polo bianca, il ragazzo che ha faticato a smarcarsi dai paragoni con James Dean oggi sceglie il basso profilo. E approccia il pacchetto celebrità come farebbe un marziano appena atterrato sulla terra. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta è stato il sex symbol di Rusty il selvaggio e I ragazzi della 57° strada, il poster boy di tutte le adolescenti del pianeta, ma la cosa sembra riguardare un altro. Ed è strano, considerato che si è appena preso un rischio gigantesco, uno di quelli che si prendeva Marlon Brando: si è messo nelle mani di Lars Von Trier e ha accettato il ruolo di serial killer che uccide ogni donna che incontra, in certi casi anche con i rispettivi figli. La casa di Jack, il titolo del film, è un viaggio nell’inconscio dell’essere e presentato all’ultimo Festival di Cannes, che ha comprensibilmente creato scompiglio, con un centinaio di  spettatori che hanno lasciato la sala durante la proiezione. Il marchio di fabbrica del regista danese è il solito, sette anni fa era stato espulso dalla Croisette come “persona non grata” per alcune infelici uscite durante la conferenza stampa del suo Melancholia, frasi come “capisco Hitler”, seguite da “ok, sono un nazi”. Matt sapeva in cosa stava andando a ficcarsi. «Io stesso avevo parecchie riserve prima di accettare il ruolo, capisco se qualcuno si arrabbierà andando al cinema. Ma Lars ha voluto raccontare qualcosa di vero sui serial killer, non c’è niente di gratuito». Voce roca e profonda alla Tom Waits, sceglie le parole con molta cura, e la spiegazione non è solo da attribuire al suo carattere. Per comprendere le parole di Dillon, 54 anni, figlio di immigrati irlandesi a New York e secondo di sei fratelli, occorre addentrarsi nella storia che ha radunato sul set Uma Thurman, Bruno Ganz, Riley Keough, Siobhan Fallon Hogan e Sofie Grabol. Siamo negli anni Settanta in Usa, e nel mezzo di un bosco c’è Jack alla guida di un furgoncino. Una donna (Uma) ferma lo sconosciuto e gli chiede un passaggio. Lui non apre bocca, mentre lei sembra vaneggiare in un crescendo di tensione che termina con un repentino scatto dell’uomo, che afferra una spranga e la uccide con colpi violentissimi. Così lo spettatore si fa un’idea di cosa lo aspetta per i successivi 155 minuti in cui, seguendo il percorso di questo uomo intelligentissimo e colto, si rende conto del suo profilo di omicida seriale. «Ci sono stati momenti in cui guidando verso casa sono scoppiato a piangere, è stato un lavoro che mi ha scombussolato a livello emotivo. Se dovessi spiegare La casa di Jack a mia madre, cosa le direi? È una donna molto sensibile alla violenza, ma è anche una persona che comprende l’arte e quello che cercano di fare gli artisti».

Dillon era già arrivato a interpretare un personaggio estremo nel 2004, il poliziotto razzista di Crash diretto da Paul Haggis per cui si è aggiudicato candidature agli Oscar e ai Golden Globes. «Quello di Crash era un uomo molto oscuro ma che aveva ancora un barlume, i sensi di colpa», teorizza, «mentre per Jack ho capito che dovevo avere un vuoto là dove la maggior parte di noi sente. La sfida nel recitarlo è stata tagliare le emozioni, guardare qualcuno che stava soffrendo ed essere indifferente: io non sono proprio quel tipo di persona. Ho fatto fatica anche a girare la tremenda scena della caccia che coinvolge una famiglia intera, come quella nell’appartamento della ragazza bionda (la Keough), perché hanno a che fare con l’umiliare una donna. Lars voleva che diventassi Jack, e mi ha detto che i personaggi maschili dei suoi film sono sempre stati degli idioti, questo era quello che più si avvicina a chi è veramente il regista. Sappiamo tutti che non è un uomo violento, ma ama farsi condurre fino a dove lo guida la sua immaginazione».

(continua…)

Intervista di copertina pubblicata su D La Repubblica del 12 gennaio 2018

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Guillaume Canet, «Poveri noi, uomini».

05 sabato Gen 2019

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7 uomini a mollo, cinema, Cristiana Allievi, Grazia, Il gioco delle coppie, piccole bugie fra amici

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L’attore e regista francese Guillaume Canet, 45 anni.

«Tutti oggi vogliono essere belli, con denti bianchissimi, muscoli guizzanti e senza capelli grigi. Trovo spaventoso questo voler essere così uguali, e se penso che solo poco tempo fa avere un po’ di peso in più era simbolo di successo e di ricchezza, è un cambiamento incredibile». Guillaume Canet non è il classico bad boy che cerca di stenderti al primo colpo. È un uomo d’altri tempi che ha a cuore sentimenti, ragionamenti e amicizia, e il cui fascino ha ritmi più lenti.

Figlio di allevatori di cavalli, Guillaume avrebbe voluto fare il fantino di professione ma un incidente a cavallo lo ha fermato e costretto a cambiare direzione. Da attore ha più di 40 film all’attivo, fra cui Amami se hai il coraggio e Last Night, e ha appena completato il sesto da regista, continuazione di quel Piccole bugie fra amici che ebbe un tale successo da lanciarlo a livello internazionale. Ex marito di Diane Kruger, ed ex anche di Carla Bruni, oggi ha due figli con l’attrice premio Oscar Marion Cotillard. Abbiamo capito molto di che padre è guardandolo in Mio figlio di Christian Carion, nei panni di un uomo a cui avevano rapito il figlio. All’oscuro della trama del film, che il regista gli svelava passo a passo, ci ha mostrato le sue vere reazioni, mentre si trasformava in una specie di giustiziere.

E molto di lui c’è anche in 7 uomini a mollo di Gilles Lellouche, film corale applaudito all’ultimo festival di Cannes nella sale dal 20 dicembre. Qui è un manager con problemi di rabbia che gli sono costati il matrimonio, si iscrive a un corso di nuoto sincronizzato e con altri uomini, tutti ex maci a pezzi, inizia un percorso di amicizia e fratellanza che cambierà i loro destini.

Infine dal 3 gennaio sarà un intellettuale che specula sul futuro dell’editoria (e non solo) in Il gioco delle coppie, di Oliver Assayas. «Marion ha riso moltissimo ascoltando i miei discorsi nei panni di Alain, non potrebbe essere più lontano da come sono nella vita vera», racconta a proposito del film, in Concorso all’ultima Mostra di Venezia, che ironizza e fa riflettere sulla rivoluzione della comunicazione, lo strapotere dei social e l’agonia del cartaceo,  in un mondo in cui un tweet sembra più determinante della buona recensione di un intellettuale. Guillaume è un editore parigino di successo che sta con un’attrice (Binoche) ma ha una relazione segreta con Laure (Christa Theret), esperta di editoria digitale.

Partiamo dall’impatto che ha su di lei la rete. «Un grande impatto direi, oggi si sa che puoi suicidarti buttando una frase in rete, su Twitter o in Instagram. Fai una battuta e vieni subito frainteso, devi stare molto attento».

Come gestisce i suoi social, in questo quadro?«Mostro molto del mio lavoro e delle mie passioni, ma non la mia vita privata. Si sa troppo degli attori e il rischio è  pensare a cosa fanno nel loro salotto anziché guardare quello che stanno facendo su uno schermo. Ho visto persone che amo e che rispetto condividere tutto su Instagram,  ho pensato che si fossero rincretiniti».

Come se lo spiega? «Li vedo  spaventati all’idea di perdere il contatto con gli altri, e quando qualcuno è così spaventato è perché ha bisogno d’amore. Condividi la vita privata per sentirti amato, ma milioni di likes non bastano se non sei tu ad amare te stesso, e mi sembra che molti di coloro che vivono sui social non abbiano abbastanza rispetto per sé. Io preferisco che mi amino i miei figli, sinceramente. Allo stesso tempo la questione è delicata, sembra che tu debba essere parte di tutto questo, altrimenti svanisci».

L’anno scorso  ha fatto un film da regista che affrontava la fragilità dell’ego di un personaggio pubblico, Rock’n’ roll, protagonisti lei in versione nevrotica e Marion Cotillard sua compagna. «È iniziato tutto da un’intervista. Una giornalista mi ha elencato cose che era certa fossero accadute nella mia vita, e che in realtà non erano mai successe, e ha concluso dicendo “certo che fra moglie, figli e cavalli, non sei un tipo molto rock and roll…”. È scattato qualcosa in me, mi sono detto “sapete cosa? Volete vedere chi sono? Ora vi faccio entrare in casa mia e vi mostro chi sono”. Dopo tanti anni di proiezioni pubbliche su di me, ho voluto giocare io con la mia immagine».

E come è andata? «Chi ha letto la sceneggiatura mi ha detto che avrei rovinato la mia carriera, gli ho risposto che non avevo niente in contrario!  Nella prima parte ci siamo io e Marion che viviamo le nevrosi della celebrità, poi da metà film si scopre che è tutta una finzione. E sa una cosa? Molti hanno amato il film e chi non l’ha fatto curiosamente non ha apprezzato la seconda parte, quella in cui si capiva che era tutta una finzione».

Non è stata la prima volta in cui lei rischia grosso. Dopo Piccole bugie fra amici, un grande successo,  poteva girare la parte due, o una commedia, invece ha deciso di girare Blood ties… «Un film difficile, in inglese e negli Usa, dove nessuno mi conosceva. È stato ricevuto male da pubblico e critica  e nonostante sia molto critico nei confronti del mio lavoro, mi è sembrato davvero eccessivo, e mi ha mandato in depressione. Non volevo sentir più parlare di cinema, per un anno sono tornato ai miei cavalli, ho girato l’Europa facendo gare e dormendo nel mio furgone. Tempo dopo è arrivata la provocazione di Rock’n’roll».

Tornando ai social, come vi regolate con i vostri figli? «Per fortuna sono troppo piccoli, hanno 7 anni e 20 mesi, ma io sono già preoccupato. «Cerco di insegnar loro il giusto equilibrio, a essere focalizzati sin da piccoli sul positivo, considerato il numero di teeneger che si suicida perché non sopporta la mole di odio in circolazione è complicato. L’unico modo per proteggerli è mostrare loro le cose belle della vita, i fondamentali, fargli capire la differenza fra il mondo concreto e quello parallelo degli haters».
7 uomini a mollo mette in evidenza idee sui canoni estetici e lo fa per contrasto, mostrando fisici di uomini molto ordinari. La pressione sull’essere in forma è aumentata anche per gli uomini? «Non credo in particolar modo in Francia. Per le attrici è sempre stato difficile invecchiare, a causa del grande schermo, che amplifica, ma da un po’ le cose sono cambiate anche per gli uomini. So che in Usa attori famosi hanno già nei loro contratti la clausola secondo cui la produzione deve cancellare i loro difetti fisici, e visto che in Francia arriva tutto 10 anni dopo, stiamo a vedere: sta iniziando con le attrici, arriverà anche a noi. Comunque intorno a me vedo sempre più gente che cade in depressione, e i social, uniti a questa corsa continua che consuma tutto, non aiutano».

Ci stiamo avvelenando? «Dimentichiamo di vivere il presente, stiamo sempre a pensare a cosa faremo fra un minuto, e non respiriamo. Qualche giorno fa ero nel sud della Francia, stavo guardando mio figlio e mi sono perso a pensare a come sarebbe stato fare una serie di cose che dovevo fare i giorni successivi. Non mi sono nemmeno accorto del percorso fatto per arrivare nel bosco, per tutto il tragitto ero rimasto nella mia mente, non mi sono goduto niente del mio ultimo momento di verde.  Mi sono seduto su una panchina, e mi sono preso tempo per tornare al momento presente».

In che modo è utile? «Torni a respirare, a sentire i passi che facciamo, gli odori, a vedere i colori ci ricordano. Serve a tornare a coltivare il nostro istinto».

Cosa la aiuta in questo senso? «Ho iniziato a praticare Qi Gong, faccio 18 esercizi ogni mattina. Da quattromila anni in Cina sanno che quando hai un problema fisico è perché la tua energia è bloccata da qualche parte, e se non ci fai qualcosa ti ammalerai. Gli esercizi che faccio sono come respirare, e alla fine dei 20 minuti ho le mani che vibrano di energia e la faccia piena di vita. Sa una cosa? Se viviamo bene il chirurgo estetico non serve».

Intervista pubblicata su Grazia il 13 Dicembre 2018 

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Mads Mikkelsen, il sopravvissuto

03 lunedì Dic 2018

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Arctic, GQ Italia, Hannibal, interviste illuminanti, Joe Penna, Julian Schnabel, Mads Mikkelsen, Van Gogh- At eternity's gate

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Mads Mikkelsen, attore, 53 anni. 

Segui la sua lotta per la sopravvivenza fra i ghiacci attraverso le espressioni dei suoi occhi. Non si sa praticamente nulla di lui, se non che vive nella carcassa di un aereo che dev’essere precipitato in questo luogo remoto del circolo polare Artico. Lo vedi ogni giorno scavare nel ghiaccio per cercare pesce con cui nutrirsi, filtrare acqua da bere, disegnare un enorme SOS a terra per essere visto da qualcuno che passa su quel cielo. Il tutto a temperature proibitive. Dopo giorni arriverà un elicottero a recuperarlo ma finirà col cadere in una tormenta, come dev’essere successo a lui tempo prima. Da quel velivolo recupera una mappa che dovrebbe condurlo verso Nord, provando a raggiunge un avamposto, mentre lo spettatore non si è accorto che nel frattempo sono passate quasi due ore.

Mads Mikkelsen, 53 anni da poco, di Copenhagen, ha iniziato la carriera come ginnasta e ballerino e ha lavorato costantemente a teatro, in tv e al cinema per diventare una star in Scandinavia. Noto per il suo ruolo di protagonista di Hannibal, nei panni del psicologo e sociopatico  dottor Hannibal Lecter del romanzo di Thomas Harris, ha lasciato il segno nei panni di Igor Stravinskij che amava Coco Chanel, interpretando Rochefort in I tre moschettieri e il medico tedesco di Royal Affair. Per poi vedere riconosciuto il suo status nel 2016, quando il festival di Cannes lo ha voluto fra i membri della giuria.  Poi sono venuti i ruoli del cattivo di Dr Strange, accanto a Benedict Cumberbatch e Tilda Swinton, e quello dello scienziato di Rogue One: A Star Wars Story.

Arctic, passato in anteprima mondiale all’ultimo festival di Cannes, è l’esordio alla regia di Joe Penna, 30 anni,  youtuber brasiliano prima noto come “MisteryGuitarMan”.  E considerate le ottime critiche al film è inspiegabile la scelta di farlo uscire in Italia sono in homevideo, in data ancora non chiara. «”Radicale” è una delle mie parole preferite. Non puoi esserlo sempre, in tutto quello che fai, ma ogni volta che capita non perdo l’occasione: e in questo caso potevo davvero esserlo». Arctic ricorda film di sopravvivenza come All is lost, in cui Redford cercava di salvarsi dall’oceano, o 127 Ore, dove James Franco cerca di vivere nel buco fra le rocce in cui è finito. Mads è semplicemente grandioso nel rendere vero ogni gesto, ogni sguardo, ogni sospiro o urlo, nel ghiaccio e in una prova fisica importante. «Mi piace moltissimo, c’è molto dramma nella fisicità. Sono cresciuto amando Bruce Lee e sono un grande fans di Buster Keaton, era uno dei più grandi al mondo, basta guardare in che modo osservava le persone». Nel film i dialoghi sono inesistenti, e di nuovo il regista si avvantaggia del suo modo di usare gli occhi. «Quando non parli c’è chi dice che non succede niente sulla tua faccia e chi invece capisce molto. Ma che si parli o meno, il punto è che devi dire qualcosa, e anche nascondere le emozioni è un lavoro, per quanto divertente. Spesso si dice che noi nordici siamo più bravi in questo senso, ma potrei dire che nel sud dell’Europa amate un po’ troppo essere visti. Gli uomini sono teatrali, sembrano dire “guarda come sono arrabbiato…”. Ma in realtà quando ti comporti  così non sei davvero incazzato, cerchi di esserlo. La rabbia viene da uno spazio più profondo».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su GQ di Novembre 2018.

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Carey Mulligan: «Non voglio più scappare».

26 lunedì Nov 2018

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Carey Mulligan, Cristiana Allievi, esordio alla regia, giornalismo, Grazia, interviste illuminanti, Paul Dano, Wildlife

 

NEL FILM APPENA PRESENTATO AL FESTIVAL DI TORINO È UNA DONNA TORMENTATA CHE FUGGE DA SUO MATRIMONIO. E L’ATTRICE RACCONTA A GRAZIA DEI SUOI DUBBI E DEL MOMENTO IN CUI HA FINALMENTE CAPITO QUALE FOSSE IL SUO POSTO NEL MONDO

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L’attrice Carey Mulligan, 33 anni, fotografata da Richard Phibbs per Grazia.

«Farebbe questa domanda anche a un uomo?». Quando le rispondo che si, chiederei anche a un attore se l’arrivo di due figli ha cambiato il suo modo di scegliere ruoli al cinema, Carey Mulligan sembra sollevata. «L’unica cosa che è cambiata è che, ancor più di prima, lavoro solo se vale davvero la pena di stare lontano dai miei figli. Dev’essere tutto perfetto, per farmi venire la voglia di lasciarli». Quella parola, perfetto, mi colpisce, e presto capisco perché. Abito castigato sotto il ginocchio, blu a pois bianchi, e caschetto biondo decolorato, poco dopo mi dice di non rivedere mai i propri film. «È terribile, intercetto tutti gli errori e penso che avrei dovuto fare le cose diversamente. Guardarsi su uno schermo è un’esperienza strana, è come sentire la propria voce nella segreteria telefonica e confrontarla con quella vera». Il fatto di essere british rincara la dose, in fatto di perfezionismo. 33 anni, nata a Westminster da una madre lettrice universitaria e un padre manager di hotel, Mulligan è sposata con Marcus Mumford, il leader dei Mumford & Sons, con cui ha due figli, l’ultimo di poco più di un anno. Ha iniziato a recitare a scuola a sei anni, ma dopo il liceo non è stata accettata dalla scuola di teatro. Una parte in Downtown Abbey e quella in Orgoglio e pregiudizio hanno fatto partire la sua carriera, mentre a fare di lei una star del cinema è stato An education, con cui si è ritrovata catapultata di colpo sotto i riflettori. «Non mi ero mai vista così tanto tempo sullo schermo, ho pensato di essere veramente noiosa, ero tutta faccia e non facevo niente… Ho chiamato mia madre, prima dell’anteprima al Sundance, per dirle “è terribile, non voglio andarci, torno a casa”. Poi il film ha avuto un tale successo, le nomination agli Oscar… Mi spiace non essermelo goduto, ho iniziato a riconoscere il mio lavoro solo alla fine». Diciamo che non stupisce che non si sia fatta divorare dalla macchina della notorietà, anche perché protegge la sua privacy con determinazione. Parliamo del suo ultimo film, una storia ambientata nel Montana negli anni Sessanta che racconta di una giovane coppia con un figlio che va in crisi e di una madre, lei, che tenta di cambiare radicalmente vita.  Wildlife, esordio alla regia di Paul Dano, passato all’ultimo Festival di Cannes e sugli schermi del Torino Film Festival il 23 novembre,  è basato su un romanzo di Richard Ford. Lei è Jeanette, una casalinga che deve badare a se stessa e a suo figlio dopo che il marito (Jake Gyllenhaal) le pianta in asso per andare a spegnere un incendio forestale. Si imbarca in una relazione pericolosa che può stabilizzare la sua famiglia o distruggerla. Un altro personaggio molto sfidante, adattato dal regista e dalla sua cosceneggiatrice e compagna, Zoe Kazan.

In Wildlife mostra aspetti di una donna che non si vedono spesso al cinema. «È inusuale vedere donne che mandano tutto in malora, per un momento. E se sbagliano fanno solo quello, non sai mai chi sono davvero, da fallite. La donna che interpreto è una brava madre e una brava moglie, ma non vedi questo di lei, quanto i suoi lati più deboli».

Da mamma perfetta a donna che beve e che cerca un amante ricco, da cui porta anche il figlio: è stato un viaggio interessante? «Mi piace l’esplorazione di varie versioni di sé. Jeanette si accorge di colpo, a 34 anni, che non ne avrà più 21 e che le cose che si era immaginata di essere, da teenager, sono sparite: è ridotta a essere una madre e una moglie, ed è normale essere molto spaventate. E poi diciamo la verità, non ci piace vedere donne infedeli, mentre tolleriamo che lo siano gli uomini, quindi sono felicissima di averla incarnata io!».

Cosa le è risultato più difficile? «Le scene da ubriaca, sono difficili da recitare, mentre la guerra con mio marito è stata facile».

Crede che la situazione delle donne è cambiata, dagli anni Sessanta?  «All’epoca il tabù sui matrimoni che finiscono in divorzi era molto più grande, il divorzio era quasi innominabile in certi ambienti. Ma sotto la superficie, in termini di ciò che ci si aspetta dalle donne è abbastanza simile, c’è ancora molta pressione: ora si possono fare scelte leggermente diverse, ma che tu sia una casalinga o una madre che lavora devi essere tutto e fare tutto, ed è ciò a cui reagisce il mio personaggio».

In cosa le assomiglia? «Mi sono identificata con la reazione a quella sensazione del tempo che passa, il panico che hai quando ti rendi conto di quanto tempo è passato. Ho riascoltato una canzone che ascoltavo molto quando avevo 19 anni e mi ha fatto saltare il cuore, ho pensato “avevo 19 anni due minuti fa!”».

Nel film dice “ho 34 anni”, come se fosse vecchia. «All’epoca era così. Quando mia madre è tornata nella sua città natale, nel Galles, dalla Giordania in cui viveva, e ha detto che non era sposata, pensavano che fosse divorziata: non potevi essere celibe a 28 anni, ed erano gli anni Ottanta!».

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia del 22 Novembre 2018

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La grazia di Hadas (Yaron)

25 domenica Nov 2018

Posted by Cristiana Allievi in Cannes, Festival di Cannes, Personaggi

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cinema, Cristiana Allievi, D La repubblica, fede universale, festival, Gianni Zanasi, Hadas Yaron, interviste illuminanti, Madonna, Troppa Grazia

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L’attrice israeliana Hadas Yaron, 28 anni (foto di Gabriel Baharlia per D La Repubblica)

«Il mio nome tradotto nella sua lingua è quello di un fiore bianco, credo sia il mirto… Ha un profumo meraviglioso». Resta molto sorpresa quando le diciamo che, fra le altre cose, da quel fiore si distilla un liquore molto apprezzato. Un destino che Hadas Yaron, attrice israeliana di 28 anni, condivide con la bevanda, se si pensa a quanto l’Italia l’abbia premiata e adottata. Per La sposa promessa, di Rama Burshtein ha vinto la Coppa Volpi come miglior attrice a Venezia sei anni fa, e quando è tornata a casa le hanno dato l’Academy Award d’Israele.  Era solo il suo secondo film, poi è stata la volta di La felicità è un sistema complesso, di Gianni Zanasi, con cui ha girato di nuovo Troppa grazia, a distanza di tre anni, presentato in anteprima mondiale nella sezione Quinzaine dell’ultima edizione del  festival di Cannes.

Il suo personaggio è nientemeno che la Madonna, che appare a Lucia, una geometra (Alba Rohrwacher) che ha una figlia e si arrabatta fra mille difficoltà pratiche e sentimentali. La Madonna le ordina di far costruire una chiesa nel mezzo di quello che sembra (sembra) il nulla.  «La proposta del regista mi ha resa molto felice anche se non sono religiosa e non ho un’idea forte come l’avete voi sulla Madonna. Non sono cresciuta con questa figura, sapevo chi è in senso generale, ma leggendo la sceneggiatura ho capito che si trattava di qualcuno di più umano. Nel film c’è umorismo, si parla di avere fede ma non in senso religioso: è più un credere ancora, un fidarsi, un saper immaginare nonostante si sia adulti». Nel caso del film di Zanasi la figura interpretata da Hadas è una specie di sguardo netto e senza compromessi sulle cose, con un forte senso etico ed esistenziale. La Madonna è una parte di lei, la fa tornare ad avere fiducia in se stessa, e lo fa mettendola di fronte allo sconosciuto, che è sempre spaventoso. «Come Lucia, a volte anche preferiamo stare dove siamo, nonostante non ci faccia bene, invece di muoverci verso qualcosa di nuovo».

Troppa Grazia mescola temi importanti a momenti di grande ironia, come quando al primo incontro Lucia scambia la Madonna per un’extracomunitaria che vuole denaro, iniziando lei una conversazione con parole ebraiche.  Una metafora, questa, del non capirsi e non sentirsi capiti, quando si incontra qualcuno che parla un linguaggio diverso.  «Credo che ogni persona conosca quella sensazione, viaggiando accade spesso. Io ho imparato l’italiano, ma se vado in Francia mi sembra strano non poter parlare l’idioma locale. Vorrei il super potere di parlare tutte le lingue del mondo. L’ebraico per me è una specie di codice segreto: so che se scrivo qualcosa, in genere nessuno può leggerla».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su D La Repubblica del 24 Novembre 2018

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