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~ Interviste illuminanti

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Vincent Lindon padre in crisi di due ragazzi in «Noi e loro» «Racconto il dramma di tanti, quel muro che divide dai figli»

24 lunedì Feb 2025

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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attori, capitalismo, Coulin, Cristiana Allievi, estrema destra, famiglia, Fratelli, genitori, interviste illuminanti, IWonderPictures, nazismo, Noi e loro, red carpet, Titane, Vincent Lindon

L’attore francese, protagonista del film delle sorelle Coulin da giovedì 27 febbraio nei nostri cinema: «La responsabilità in queste situazioni è sempre per metà loro e per metà dei genitori»

di Cristiana Allievi

Noi e loro è ispirato alpluripremiato romanzo Quello che serve di notte di Laurent Petitmangin e vede Lindonaffiancato da due giovani talenti del cinema francese, Benjamin Voisin (Estate ’85, Illusioni Perdute) e Stefan Crepon (Peter von Kant, Lupin). È uno di quei film che sembrano un vestito comodo da indossare per il Vincent di Francia, che ultimamente è stato padre convincente anche in Titane (Palma d’Oro a Cannes). In questo caso, poi, la forza recitativa si alimenta anche di circostanze di attualità. «Nel film sono un uomo vedovo che ha due figli maschi. Uno è molto bravo a scuola, andiamo a Parigi a iscriverlo al Politecnico. L’altro figlio invece se la spassa con un gruppo di uomini di estrema destra. Arriverà a uccidere qualcuno, finirà in carcere e io mi ritroverò a cercare di aiutarlo».
«Con il cinema cerco di risvegliare le coscienze»

Lei è padre di due figli, immagino si interroghi da anni su come non finire in una situazione come quella descritta da Noi e loro.


«Nel film uno dei miei due ragazzi si radicalizza per seguire un percorso di estrema destra con un gruppo, un fatto che oggi vediamo accadere spesso nel mondo. In questo caso parliamo di politica, ma è un fatto che potrebbe succedere con la religione, con una setta, con la dipendenza da droghe o alcol. La domanda è come si arriva a questo punto? Perché io, da genitore, ho il 50 per cento di responsabilità, l’altro 50 è di mio figlio. E qui la storia si allarga».

E include tutta una famiglia.
«Sempre nel film, la madre dei miei figli è morta, e per un figlio rimanere senza madre è la sofferenza più grande al mondo. Ma non è solo la loro madre, è anche mia moglie. Quindi anche io ho perso l’amore, e il mio modo di sopravvivere è stare il più possibile in fabbrica, poi andare a farmi una birra per non tornare a casa e ricordare come era la mia vita prima, con tutta la famiglia. L’altro figlio, invece, reagisce alla perdita della madre studiando e cercando di spostarsi dalla provincia a Parigi, per avere successo. E qui entra nella storia un altro aspetto, il capitalismo».

(continua…)

Intervista integrale su 7 Corriere della Sera

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Sawyer Spielberg: «Non mi manda papà»

19 mercoledì Giu 2024

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attori, Cannes film festival, Christmas Eve at Miller's Point, Cristiana Allievi, figli, indipendenza, interviste illuminanti, Kate Capshaw, padri, Quinzaine, Salvate il Soldato Ryan, Sawyer Spielberg, Steven Spielberg

Non è facile essere “figli di”. Specie di un certo Steven. Ma Sawver Spielberg, professione attore, ha saputo cavarsela (anche se a Cannes faceva lo sbandato). In questa intervista ci racconta come

di Cristiana Allievi

Intervista pubblicata su Oggi del 20/6/2024

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Matthias Schoenaerts: «La forza non conta, a muovermi è il cuore»

27 giovedì Lug 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura

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A time to die, attori, interviste illuminanti, Kursk, Kusrk, Matthias Schoenaerts, Movies Ispired, nuovi uomini, registi, Thomas Vintenberg, Un sapore di ruggine e ossa, uomini

DA BAMBINO ADORAVA MIKE TYSON, DA ADULTO DIETRO AL FISICO POSSENTE NASCONDE UN ANIMO SENSIBILE. COSI’ L’ATTORE BELGA HA CONQUISTATO I REGISTI PIU’ IMPORTANTI. E UNA SCHIERA DI ATTRICI (GRAZIE A SUA MADRE)

di Cristiana Allievi

È entrato in scena anticipando il futuro. Quando ancora non erano iniziate le rivendicazioni di genere, Matthias Schoenaerts rappresentava già un nuovo prototipo d’uomo: forte fisicamente e sensibile nell’animo. Alto, occhi chiarissimi, durante la nostra conversazione si beve un centrifugato. Penso che nonostante la prestanza notevole, ha basato la riuscita dei suoi personaggi sull’empatia. E per imparare lo standard hollywoodiano non ha nemmeno  dovuto volare Oltreoceano: ad Anversa, la sua città, aveva per mentore il padre Julien  Schoenaerts, attore di grande talento misto ad eccentricità (e a disagi psichici). Degli esseri umani, dentro e fuori dallo schermo, lo ha sempre attratto la fatica di stare al mondo, a partire da quella del suo idolo di bambino Mike Tyson. C’è un solo argomento su cui ammutolisce (a differenza di quanto faceva in passato) e sono le sue relazioni sentimentali. È stato fidanzato per cinque anni con l’avvocatessa Alexandra Schouteden, ha avuto una relazione con Pia Miller, modella, ma del presente non parla. Però nel nuovo film di  Thomas Vintenberg, con cui aveva già girato Via dalla pazza folla, sarà un uomo sposato e in attesa di un figlio che non incontrerà mai. La storia tratta dal romanzo A time to die di Robert Moore e che vedremo al cinema dal 27 luglio è basata sul reale incidente di K-141 Kursk, il  sottomarino russo affondato nel mare di Barents il 12 agosto 2000. Lui è  il comandante del Compartimento 7 del Kursk e lotta per salvare i suoi marinai mentre le ventitre famiglie a terra combattono contro l’orgoglio russo e le lentezze burocratiche.

È vero che è stato lei a suggerire a Thomas Vinterberg questo film? «Ho letto la sceneggiatura e ho pensato che fosse il regista giusto. Poco dopo lui ha pensato a me per il ruolo del personaggio principale (ci sono anche la Palma d’Oro Lea Seydoux, nei panni di sua moglie, e il premio Oscar Colin Firth in quelli della marina britannica ndr). Mi ha colpito questa lotta contro il tempo, un tema universale con cui tutti facciamo i conti».

Come si entra nello stato mentale di chi sa di avere ancora poco da vivere? «Il desiderio di farcela è più grande dell’accettazione della morte. Se ti arrendi è la fine, e vuoi sopravvivere per le persone che ami, per la tua famiglia. Questa storia dimostra che per amore puoi tirare fuori una forza che nemmeno immagini di avere».

Una storia girata in spazi ristretti come gli interni di un sottomarino è più difficile da sopportare? «Stare in uno spazio angusto con 25 attori, più altrettante persone della troupe, per sei settimane, è un’esperienza molto forte. Se non diventi matto ne esci trasformato, comprendi molti aspetti incomprensibili in altre circostanze».

Ad esempio? «Ho scoperto la mia grande forza d’animo, o forse è meglio dire che l’ho riscoperta. Anche al cinema, mi ha sempre interessato più il coraggio della brutalità».

Eppure lei è diventato famoso mostrando una forza fisica sexy e brutale.  Ha avuto paura che la trasformassero in un cliché, anche grazie al suo fisico imponente? «Sono fenomeni incontrollabili. Io mi muovo dal cuore, se una storia mi tocca la scelgo, altrimenti no. E a dirla tutta, odio quando vogliono farmi sembrare il bello di turno, preferisco essere brutto quando interpreto un ruolo».

A otto anni lei era già sul palco con suo padre, l’attore di teatro Julien Schoenaerts. «C’è chi sa di voler fare un lavoro da quando è bambino, io non sono così. Da adolescente suonavo, dipingevo, se ce n’era una cosa che non volevo fare a nessun costo era recitare. Certo, per non paragonarmi a mio padre, un uomo da cui sono stato molto distante. Poi, quando è mancato, le cose sono cambiate».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 20 Luglio 2023

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Colin Farrell, l’Oscar del cuore

03 venerdì Feb 2023

Posted by Cristiana Allievi in Academy Awards, Attulità, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Oscar

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actors, attori, Brendan Gleeson, Colin Farrell, F magazine, GLi spiriti dell'Isola, Hollywood, interviste illuminanti, Martin McDonagh, men, red carpets, style, uomini

È A UN PASSO DALLA SUA PRIMA STATUETTA, MA A 46 ANNI INSEGUE ANCORA L’OBIETTIVO PIU’ IMPORTANTE PER LUI: «ESPRIMERE CON ONESTA’ E AMORE I MIEI BISOGNI, NELLE RELAZIONI SENTIMENTALI, CON GLI AMICI, CON I MIEI FIGLI». PER FARE PRATICA INTERPRETA UN EREMITA A CUI È RIMASTO SOLO UN ASINO

di Cristiana Allievi

Intervista all'attore Colin Farrell che racconta la sua vita, i suoi figli e la sua esperienza nel film Gli spiriti dell'isola.
L’attore irlandese Colin Farrell, 46 anni, vicino all’Oscar per la sua interpretazione in
Gli spiriti dell’isola (courtesy F Magazine).

Da una parte concede pochissime interviste. Lo fa per non rileggere ogni volta un passato che si è impegnato molto a lasciarsi alle spalle. D’altro canto però, l’uomo che ha flirtato per vent’anni con i guai (alcol e droghe, paparazzi e video hard finiti in rete), quando parla è un torrente impetuoso, pieno di mulinelli, gorghi e vortici. Colin Farrell è un uomo ricco di vita e di cose belle da condividere, e il giorno della nostra intervista è vestito con colori chiari, ha i capelli corti ed è di ottimo umore.
L’uomo che è stato così paparazzato da decidere di indossare una maglietta con la scritta “Leave Colin Alone” – un successo tale da diventare una linea di abbigliamento  – oggi è arrivato a una verità importante, che lo rende anche più maturo: «la solitudine è sempre più essenziale per me, e l’ho scoperto grazie alla pandemia». Proprio nella solitudine di Inishmore Island, la più grande isola dell’arcipelago irlandese delle Aran, ha girato il film che gli è già valso la Coppa Volpi a Venezia e un Golden Globe, e con molta probabilità a marzo lo porterà a vincere il suo primo Oscar.  Gli spiriti dell’Isola racconta la vita  in un luogo in cui non c’è molto, a parte tanta erba verdissima, un pub e una comunità chiusa e bigotta. In questo scenario Padraic (Farrell) è un uomo che si prende cura da anni del suo asino, e Colm (Brendan Gleeson) è l’amico di una vita che all’improvviso non vuole più né vederlo né parlare con lui.

«Non ti voglio più bene», «Non sono più tuo amico» sono frasi che feriscono profondamente. Cosa pensa di una comunicazione così diretta?


Credo che le persone usino un linguaggio “brutalmente onesto” per giustificare il loro essere crudeli e meschini. D’altro canto trovo ci sia anche una bassezza nel non comunicare la verità di quello che sentiamo.
In questo cammino verso la comunicazione dei propri sentimenti, lei a che punto è?
Anche se ho 46 anni, sto ancora imparando a esprimere i miei pensieri e i miei bisogni, e vale per le amicizie, le relazioni sentimentali e quelle con i miei due figli. Voglio essere onesto ed esprimermi con amore, ma questo non rende le cose più facili, al contrario.


La cosa più importante che ha capito delle relazioni umane?


Troppo spesso ci dimentichiamo che la responsabilità di un rapporto ricade al 50 per cento su di noi: se manchiamo questo concetto, perdiamo il punto.


Tagliare fuori una persona, o una situazione, o cercare di trasformarla dall’interno: quale via sceglierebbe?


Non sono un grande fan degli opposti,  del “giusto” e “sbagliato”. Siamo tutti d’accordo sul fatto che non sia indicato fare coscientemente del male a qualcuno e godere del dolore causato. Ma credo anche che a volte, se faccio davvero la scelta migliore per me non è detto che questa sia in sintonia con quello che le persone della mia vita  vorrebbero. ¶


Un equilibrio delicato.

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su F Magazine del 7/2/2023

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Timothée Chalamet: «È l’unica ragazza per me».

05 martedì Nov 2019

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attori, Beautiful Boy, Chiamami col tuo nome, il re, Lady Bird, Lily-Rose Depp, thimothèe Chalamet, Venezia 2019

AL CINEMA INTERPRETA SEMPRE RAGAZZI TORMENTATI E AFFASCINANTI. STAVOLTA VEDREMO TIMOTHÉE CHALAMET NEL RUOLO DI UN PRINCIPE RIBELLE E DONNAIOLO CHE DEVE CRESCERE IN FRETTA. E ACCANTO A LUI TROVERÀ PROPRIO LILY-ROSE DEPP, LA SUA VERA FIDANZATA

di Cristiana Allievi

Thimothée Chalamet sul red carpet di Venezia 2019 in Haider Ackermann.

Il mio nome si pronuncia Timo – tay, con la “a”, ma è un po’ antipatico precisarlo, ne sono consapevole, quindi di solito non lo faccio notare». Precisazioni a parte, si coglie dall’accento che Timothée Chalamet è ancora sotto l’influenza del duro lavoro fatto per Il re, dal 1° novembre su Netflix. Per il film di David Michod che lo ha visto protagonista dei tappeti rossi all’ul- tima Mostra del Cinema di Venezia insieme con la fidanzata, l’attrice Lily-Rose Depp, Chalamet ha dovuto piegare il suo americano facendolo diven- tare più british, e inventarsi un nuovo modello di autorevolezza maschile. Nel film interpreta il prota- gonista, il giovane Hal, principe ribelle e donnaiolo che vive tra il popolo e detesta il padre sovrano. Ma quando si tratterà di succedergli sfodererà una grinta inattesa, regnando sull’Inghilterra dal 1413 al 1422 e diventando uno dei più popolari sovrani del Medioevo: Enrico V. Con Chiamami col tuo nome, prima nomination agli Oscar, Lady Bird e Beautiful Boy, l’attore franco- statunitense ha totalizzato ottimi film che farebbero invidia a chi oggi ha il doppio dei suoi 23 anni. Eppure «il sogno di un attore è recitare la parte di un re, andare a cavallo e brandire una spada», dice lui, «e con questo Enrico V mi sono tolto una grande soddisfazione».

Enrico V è un uomo che le piace?

«È un uomo solo. Come dico nel film: “Un re non ha amici, ha solo seguaci”. Bisogna fare un salto indietro, tornare alla sua epoca per capire che cosa contava per le persone, che cosa poteva ispirare un giovane a quei tempi, qual era il linguaggio del coraggio, il senso dell’onore, l’orgoglio naziona- listico. Interpretare un uomo come lui è stato un super regalo».

Perché?

«È un personaggio molto complesso, io mi sono concentrato sull’esplorazione della sua lotta inte- riore, sullo stress causato dal non essere ascoltato. Soprattutto su che cosa può significare attraversare tutto questo in giovane età».

Il taglio di capelli ha avuto un impatto virale sui social, l’hanno addirittura paragonata a Marlon Brando.
«È stato scioccante, ma inevitabile, non mi è piaciu- to per niente, ma poi mi sono abituato. Quel taglio era importante perché è il look di quel periodo e soprattutto perché segna il passaggio da ragazzo a uomo, dal correre dietro alle ragazze al camminare verso l’altare per l’incoronazione».

(continua….)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 31 Ottobre

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Giuria Cannes 2019

30 martedì Apr 2019

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attori, Attrici, Cannes 2019, CAnnes 72, festival

Eccola!

Président

Alejandro Gonzalez Iñárritu

Réalisateur, producteur & scénariste / Mexique

Elle Fanning

Actrice / États-Unis

Maimouna N’Diaye

Actrice, réalisatrice / Burkina Faso

Kelly Reichardt

Réalisatrice, scénariste & monteuse / États-Unis

Alice Rohrwacher

Réalisatrice & scénariste / Italie

Enki Bilal

Auteur de bandes-dessinées & cinéaste / France

Robin Campillo

Réalisateur, scénariste & monteur / France

Yorgos Lanthimos

Réalisateur, scénariste & producteur / Grèce

Paweł Pawlikowski

Réalisateur & scénariste / Pologne

Matthias Schoenaerts, Il cercatore d’oro

18 martedì Dic 2018

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attori, Close Enemies, Cristiana Allievi, giardinaggio, GQ Italia, interviste illuminanti, journalism, Julian Schoenaerts, Matthias Schoenaerts, Mustang, Radegund, Star

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L’attore belga Matthias Schoenaerts fotografato per GQ Italia da Max Vadukul.

DAL PADRE, UOMO DALLA VITA COMPLICATA, HA EREDITATO IL TITOLO DI “MARLON BRANDO FIAMMINGO”. E BASTA: PERCHE’ A MATTHIAS l’ETICHETTA DI ATTORE TORMENTATO NON INTERESSA. PREFERISCE DIPINGERE, CURARE LE SUE PIANTE, PRENDERSI CURA DI SE’. E SFORZARSI DI VEDERE, NELLE PERSONE, SEMPRE IL MEGLIO

«È facile vedere il peggio nelle persone. Io preferisco essere quello che trova l’oro. Non è altrettanto facile, ma è un intento nobile, uno scopo per cui vale la pena fare quello che faccio». Se c’è un’abilità indiscussa in Mattias Schoenaherts è quella di incarnare animali feriti, maschi che vivono tempi duri con se stessi e con gli altri. Lo ha dimostrato sin dagli esordi, da gangstar invischiato nel commercio illegale di carni rinforzate dagli ormoni in quel Bullhead-La vincente ascesa di Jacky che è stato candidato agli Oscar facendo parlare di lui. E di nuovo nei panni di un pugile con un figlio piccolo, in Un sapore di ruggine e ossa: è stato quell’uomo che combatteva per sopravvivere a lanciarlo a livello internazionale e ad assicurargli ruoli di spessore a un ritmo inarrestabile, dal 2012 in poi. Faccia a metà fra Bjorn Borg e Bob Sinclair, all’ultima Mostra di Venezia, dove ha presentato Close Enemies di David Oelhoffen, inizia una conversazione in due tempi proseguita a Parigi, dove è stato scattato il servizio di queste pagine. In entrambe le situazioni arriva in ritardo, e menziona spesso due parole, spontaneità e libertà, che raccontano molto di lui. E che evocano anche quel cocktail esplosivo di eccentricità, disagi psicologici e talento del padre, Julien, star soprattutto del teatro belga, che non ha mai sposato la madre di Matthias, la costume designer Dominique Wiche, mancata due anni fa: cresciuto un po’ da lei ad Anversa, e un po’ dalla nonna a Bruxelles, non meraviglia che a 41 anni declini l’invito a parlare della sua storia famigliare. «Mio padre è morto 12 anni fa, ho fatto pace con una certa parte del mio passato, con cui ho dovuto confrontarmi mentre crescevo».

Aveva nove anni quando recitò sul palcoscenico nel Piccolo principe di Saint-Exupery, di cui Julien era regista e interprete. E nel 1992 il suo esordio sul grande schermo è stato sempre accanto a lui in Padre Daens, di Stijn Coninx, anche se non condividevano alcuna scena.  Un legame fortissimo, giocato sulle affinità. Basti pensare che Julien era noto come “il Marlon Brando fiammingo” e che in seguito il Telegraph descrisse Matthias come “il Marlon Brando belga”. «Non penso al passato, né al futuro, ho bisogno di stare collegato al momento presente. Se vogliamo è una filosofia molto buddista, vivo così anche quando sono su un set. Funziona, semplifica la vita». E considerata la mole vertiginosa di film che lo vede impegnato, gli serve. Attualmente sul set di The Laundromat, di Steven Soderbergh, nel 2019 lo vedremo in quattro pellicole.  Di nuovo diretto da Thomas Vintenberg in Kursk, tragica vicenda del sottomarino russo  affondato 18 anni fa durante un’esercitazione. «Stare con 25 persone in uno spazio ristrettissimo per sei settimane è un’esperienza radicale. Diventi matto, però aiuta a capire chi sei quando esci dalla zona di comfort». In Mustang, di Laure de Clermont-Tonnerre, sarà Roman, un criminale in prigione da 15 anni. «Il film è ambientato in un carcere e racconta un programma di riabilitazione davvero esistente che utilizza i cavalli selvaggi per far tornare in contatto con se stessi». Poi c’è Radegund, di Terrence Malick, in cui indagherà le motivazioni di Franz Jagestatter, un austriaco che decide di non unirsi ai nazisti per combattere con loro la Seconda Guerra mondiale. «In carcere ha scritto molte lettere alla moglie, ed è stato dopo averle lette che Mohammed Alì ha deciso di non andare in Vietnam a uccidere innocenti». Da marzo tornerà al cinema diretto da Oelhoffen, con quel genere banlieue movie in cui esercita al meglio la sua capacità di trovare una luce anche nell’oscurità. È da qui che parte la conversazione.

(continua…)

Storia di copertina di GQ di dicembre 2018

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Elio Germano: «Un figlio ti cambia prima di nascere».

21 mercoledì Nov 2018

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Festival di Cannes, Personaggi

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Alba Rohrwacher, attori, Elio Germano, Gianni Zanasi, Madonna, relazioni, sopranaturale, Troppa Grazia

Sullo schermo ci ha abituati a personaggi di ogni tipo. Disadattati sociali, delinquenti, poeti leggendari, figli di ricchi contemporanei. L’ultimo è il ragazzo con il codino di Troppa grazia, ostinato nel cercare di tornare con la fidanzata che lo ha piantato da tempo, che è tormentata dalle apparizioni mistiche. Al confronto, la sua vita fuori dal set è molto meno avventurosa: sta da tre anni con Valeria, maestra di sostegno, di cui sappiamo pochissimo. Se non che nel 2017 è nato il loro primo figlio.  Attore e musicista, leader da vent’anni del gruppo rap Bestierare, tempo fa aveva detto: “Non potrei mai stare con una che fa il mio stesso mestiere. Quando torno a casa devo staccare”. Sulla paternità, invece, riusciamo a strappargli solo una battuta: «Mio figlio è ancora piccolo, ma in generale credo che non sia un bambino a cambiarti. Succede prima, quando decidi di diventare genitore». Fine delle confidenze, si torna a parlare dell’ultimo film, nelle sale dal 22 novembre.

Arturo, il personaggio che interpreta in Troppa Grazia, non ha figli. Ma le somiglia, almeno un po’? «Con il lavoro che faccio mi sembra di assomigliare a tutto e al contrario di tutto, mi dimentico di come sono fatto. Non lavoro razionalmente sulle similitudini fra me e i personaggi che interpreto. Arturo è un uomo in balia della sua donna, di cui è innamorato nonostante lei lo abbia lasciato da tempo. È molto ancorato alla realtà, ha problemi assurdi e non si fa contagiare dai sognatori che lo circondano».

Si riconosce, almeno nella sua determinazione? «Nell’ossessione direi, soprattutto quando lavoro. In un certo senso inventarsi un mondo che non c’è, relazioni che non si hanno, pensare che sei a letto con tua moglie o in stanza da solo a sognare, mentre di fronte a te vedi macchinari che si muovono mossi da operai, è roba da autistici e ossessionati».

Il film inizia con una discussione fra il suo personaggio e quello di Alba,  sul tradimento e come i maschi lo affrontino solo con il corpo… «È una voluta sequenza di stereotipi, dimostra quanto sia difficile non cadere in concetti pre masticati da qualcun altro, invece di pensare con la propria testa. Ci appoggiamo a dei sentiti dire che strutturano la nostra vita, e questo riguarda anche questioni più gravi, come la violenza sulle donne, che si stanno ampliando».

A cosa si riferisce? «Al #MeToo, per esempio. In questi mesi si sono creati stereotipi da entrambe le parti, ora è difficile arrivare a un dialogo davvero costruttivo. Si passa alle generalizzazioni, ho letto che in Francia ci si chiede se fare l’amore con la propria donna, mentre dorme, sia una forma di stupro o meno».

Nemmeno gli stereotipi sul tradimento sono solo veri, secondo lei? «Non c’è differenza fra uomini e donne su un argomento simile, dipende da come si imposta la propria vita e su cosa si basa un rapporto. Ho visto coppie che si definiscono aperte, composte da donne, uomini o da entrambe i sessi, e anche che stanno in tre, in quattro… Sono questioni private, è difficile generalizzare».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su F del 28 Novembre 2018.

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Vincent Lindon, In guerra

20 martedì Nov 2018

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attori, Cristiana Allievi, D La repubblica, Francia, In guerra, interviste illuminanti, La legge del mercato, lavoro, scioperi, sex symbol, Vincent Lindon

DA SEX SYMBOL A MILITANTE, CONVERSAZIONE CON UN ATTORE CHE NON MA (MAI) ACCETTATO COMPROMESSI. E SI VEDE

«Non faccio pubblicità di profumi. Compro le mie giacche e nessuno mi dice come dovrei vestirmi. Non vado alle feste nè agli show televisivi che non mi piacciono, non rispondo a giornali che odio. Quando ha deciso di seguire queste regole? Quando sono nato». Ecco la ricetta della libertà secondo Vincent Lindon, che da sex symbol di Francia è diventato l’attore più impegnato che la sua nazione possa vantare. Lo si era capito con quei 15 minuti di applausi per la sua interpretazione di un primo ministro in Pater, al Festival di Cannes, un film illuminante in fatto di amministrazione della cosa pubblica. Con La legge del mercato, di Stephane Brizé, in cui è un cinquantenne che ha perso il lavoro ed è costretto ad accettarne uno che lo mette moralmente in crisi, ha vinto la Palma d’oro come miglior protagonista. E diretto dallo stesso regista, dal 15 novembre lo vedremo in un confronto molto più radicale. In guerra, proiettato in anteprima mondiale a Cannes, racconta due mesi di sciopero dei 1100 lavoratori della Perrin Industries e la lotta del loro portavoce con un management che vuole licenziare tutti nonostante i profitti. «Non è un documentario, nonostante il realismo. Lo spettatore non capisce cosa sta succedendo, la drammaturgia è molto forte, e questo è puro cinema», racconta l’attore. «Sappiamo che Amédéo, l’uomo che interpreto, si prende cura della moglie e della figlia, ma di fatto è un uomo in uno stato di guerra: con uno sciopero le persone occupano un posto, non perdono energie su altri aspetti della vita, non dormono, sono focalizzati su una quesitone di vita o di morte. E il film fa lo stesso». Nella vita vera, Lindon è un aristocratico con idee chiare su cos’è lo stile. «Da piccolo chiedevo a mia madre com’era vestito qualcuno, lei mi rispondeva  “con pantaloni e giacca, ma era molto chic”. Per me significa indossare qualcosa che indossano gli altri, ma in modo completamente diverso. A un congresso in Russia una signora ha chiesto a Yves Saint Laurent come essere fatale, attraente e distinta. Lui le ha risposto “ci vogliono una giacca, una gonna nera e un uomo che la ami”. Per un uomo vale lo stesso: bastano una giacca nera, una camicia bianca e una donna lo ami».

(continua…)

Articolo pubblicato di D La Repubblica del 17 novembre 2018

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Adam Driver: «Nel cuore resto un soldato».

21 venerdì Set 2018

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Adam Driver, attori, cinema, Cristiana Allievi, Don Chisciotte, Julliard, Spike Lee, Star Wars, Terry Gilliam

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L’attore Usa Adam Driver, 34 anni, attualmente nelle sale con due film. 

DA UNA PARTE AFFRONTA I RAZZISTI DEL KU KLUX KLAN, DALL’ALTRA I MULINI A VENTO, COME DON CHISCIOTTE. A NOI PERO’ RACCONTA LA SUA CARRIERA E LA SCELTA DI ARRUOLARSI NEI MARINES. PERCHÈ AVEVA CAPITO CHE NEL CINEMA VINCE CHI SA RESISTERE SOTTO PRESSIONE

«Sento la pressione di ogni lavoro. Temo che non funzionerà, che fallirà o che non sarò abbastanza bravo. Anche per questo mi rende più entusiasta lavorare con persone che hanno cercato di portare a termine un progetto per vent’anni, la loro tenacia nel resistere mi assicura che salterà fuori qualcosa di interessante». Adam Driver è altissimo. Come nelle altre occasioni in cui l’ho incontrato,  indossa jeans, t shirt e camicia aperta. A differenza del solito, invece, la nostra conversazione sarà più intensa.

31 anni, californiano cresciuto nell’Indiana, Driver era un ragazzino quando ha tentato di entrare alla prestigiosa Julliard di New York, senza riuscirci. Disorientato, dopo l’11 settembre si è arruolato nei Marines, e trascorsi due anni in Afganistan lo hanno congedato perché si è rotto lo sterno in un incidente in mountain bike. Depresso, è tornato all’attacco alla Julliard, e ce l’ha fatta. Poi, con Girls, serie tv dell’HBO, è diventato un volto a Hollywood, e da lì in avanti non si è più fermato.  All’ultimo Festival di Cannes è finite nel fuoco incrociato dei fotografi perché era il protagonista di due dei film di punta sulla Croisette. E anche se sei Kylo Ren, diciamolo, accusi il colpo. I due film sono entrambi nelle sale dal 27 settembre. Uno è BlaKkKlansmen di Spike Lee, in cui interpreta la spalla di John David Washington, primo poliziotto nero che nel 1979 si è (davvero) infiltrato nel Ku Klux Klan. Una vicenda mantenuta segreta fino a quando l’ex agente Ron Stallworth ha scritto il libro da cui è tratto il film. L’altro film è L’uomo che ha ucciso Don Chisciotte, ispirato al personaggio del classico della letteratura di Miguel de Cervantes. Un film che il suo regista, Terry Gilliam, ha impiegato 30 anni a portare a termine, funestato da ogni possibile disavventura produttiva. Qui Driver è Toby, cinico regista pubblicitario che si ritrova intrappolato nelle bizzarre illusioni di un vecchio calzolaio spagnolo che crede di essere Don Chisciotte. Inaspettatamente, nel film Driver è più sexy come mai, nonostante debba affrontare milioni di peripezie e confrontarsi con il proprio passato. «Don Chisciotte è un sognatore, idealista e romantico, che non vuole accettare i limiti della realtà e che continua a camminare nonostante gli ostacoli», continua.

A proposito di idealismo, cosa si impara lavorando con un regista che non cede, nonostante nove tentativi andati male? «Terry è una persona molto stimolante sul set, lo affronta come una catarsi. Non avevo mai lavorato con lui prima, quindi non so come è stato girare Il Barone di Munchausen o La leggenda del re pescatore. So che è difficile vederlo sulla sedia del regista, è sempre in piedi al monitor che recita la scena con te. E non ha nessun filtro per mascherare quello che sente».

 Se qualcosa non gli piace si vede, insomma. «È così. E considerato che i cavalli guardano sempre nel verso sbagliato, le pecore si muovono da tutte e parti e sul set si parlavano sette lingue diverse,  sul set avrebbe potuto esserci un’atmosfera dittatoriale, ma Terry non è così. Pensava a questo film da più di 25 anni, eppure ha mantenuto quell’atteggiamento possibilista che ho notato non solo in lui, ma in altri grandi registi».

Che cosa ci racconta del suo personaggio? «È un uomo che cerca disperatamente di avere il controllo della situazione. Io sono sia Sancho Panza sia Don Chisciotte, cerco  di essere radicato nella realtà e di avere il controllo ma sono anche  Chisciotte, che è tutto ispirazione ed è totalmente libero,  seduttivo. Certo, l’ispirazione può essere tossica, se non è gestita correttamente».

Lei fa un lavoro strano, sta dicendo questo? «Di sicuro recitare è uno strano modo di incontrare e conoscere le persone. Sei sotto una grossa pressione per dodici, quindici ore al giorno, per quattro mesi, a volte sei. Poi quando finisce il film sei nel vuoto, all’improvviso: non potrai mai tornare indietro ed essere la stessa persona che sei stato con quei colleghi».

(… continua)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 20 Settembre 2018 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

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