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~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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Ecco come sono i film di Venezia 80

03 domenica Set 2023

Posted by Cristiana Allievi in Academy Awards, arte, Attulità, cinema, Cultura, giornalismo, Miti, Moda & cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Bastarden, Bradley Cooper, Comandante, DAvid Fincher, Dogman, donne, Ferrari, interviste illuminanti, Maestro, The Killer, Venezia 80

Superato il giro di boa è il momento di raccontare il meglio visto fino a qui sui film in Concorso, mentre mancano ancora film importanti

di Cristiana Allievi

COMANDANTE  di Edoardo De Angelis racconta l’impresa del Comandante della Marina militare Salvatore Todero (Favino), un uomo dall’intelligenza umana, prima ancora che strategica. È un racconto poetico che non rinuncia a intuizioni “zen” e a sottigliezze psicologiche. Nonostante siamo in guerra, nel 1943, e si spari alle persone, queste non smettono mai di essere viste e trattate come tali. Todero ha un modo estremamente creativo di  tenere alto l’umore e la fiducia dei suoi soldati, e lo fa con personalissimi stratagemmi come le patatine fritte (con lo strutto) e la recita dei nomi dei piatti di tutta Italia come fossero un mantra, quando il cibo finisce e nelle ciotole della truppa viene versata solo acqua. Raccontare un uomo che ha salvato in modo geniale un intero equipaggio belga mettendo comunque a rischio la propria vita e quella dei suoi uomini porta una gran bella luce sul nostro paese (va anche detto che il comandante, di quello che pensavano i fascisti delle sue decisioni, se ne infischiava). Certo, potevano risparmiarci il mandolino, clichè che molti italiani vorrebbero scrollarsi di dosso quando viaggiano nel mondo,  e questa è una scelta di sceneggiatura che resta un mistero. Però come altri film italiani di questa edizione veneziana, Comandante è caratterizzato da uno sforzo produttivo notevole e visibile, per cui si esce dalla sala con la sensazione di aver visto un film più competitivo a livello internazionale (Le Monde gli ha dato tre stelle e mezzo, per dire).

DOGMAN di Luc Besson racconta una storia familiare molto dolorosa con toni a metà tra la favola nera e l’horror. Il film apre con il motto “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”, e qui ce ne sono ben 100, dettaglio da cui si evince che la storia del personaggio principale è piuttosto dolorosa. A interpretarla un Caleb Laundry Jones in stato di grazia, e forse anche di Coppa Volpi. Però per quanto Besson sia chiaramente tornato ad alti livelli e gestisca la regia in modo perfetto, questo film dal cuore tenero a mio parere è carico di un eccesso emotivo dall’effetto boomerang.

FERRARI di Michael Mann è un ritratto senza sconti del commendatore  Enzo Ferrari (Adam Driver) e intreccia le vicende personali del manager a quelle delle corse della rossa fiammante. Siamo negli anni Cinquanta, a Modena, e la sceneggiatura si ispira al romanzo Enzo Ferrari: The Man and The Machine di Brock Yates, raccontando un uomo diviso fra la moglie Laura (l’ottima Penelope Cruz) e l’amante Lina Lardi (Shailene Woodley), con cui il commendatore ha un figlio non riconosciuto. Non è sereno nelle scelte aziendali, ma tira comunque dritto per la sua strada, nonostante dentro di lui lavori anche il dolore per il figlio morto, Dino. Riesce ad attirare l’attenzione della Fiat e a far rifluire denaro nelle casse vuote di Maranello, mette in riga i suoi piloti, batte la Maserati ed esce (vivo) dalle accuse per la morte di dodici persone a bordo strada durante la corsa Mille Miglia. Tutto accade nell’estate del 1957, un breve lasso di tempo che basta a farci innamorare dell’Emilia Romagna e dell’Italia intera.

BASTARDEN di Nikolaj Arcel è una storia tratta dal romanzo Kaptajnen og Ann Barbara di Ida Jessen che ruota intorno alla Danimarca e a un cocciuto capitano ostinato a coltivare la terra a patate  nonostante il terreno sia sterile e da bonificare e i nobili della zona lo vogliano lontano dalle loro proprietà, o morto, in alternativa.  Il re danese Nicola V, ubriaco e distratto, ha lo stesso desiderio spinto dal voler incassare tasse. Il film di Nikolaj Arcel ci trasporta nel Settecento con una fotografia e costumi magnifici. Ottima l’interpretazione di Mads Mikkelsen, ostinato nel voler ottenere anche un titolo nobiliare, idea che sarà messa a dura prova dalla presenza dalla ex cameriera di un perfido proprietario terriero.

Maestro. (L to R) Carey Mulligan as Felicia Montealegre and Bradley Cooper as Leonard Bernstein (Director/Writer) in Maestro. Cr. Jason McDonald/Netflix © 2023.

MAESTRO di Bradley Cooper è il film che ci racconta il genio di Leonard Bernstein con un taglio molto preciso, ovvero la relazione fra il compositore, musicista e direttore d’orchestra con la moglie Montealegre, interpretata da Carey Mulligan. Uno sforzo immenso, quello di Cooper nel doppio ruolo davanti e dietro la macchina da presa, con tanto di scrittura della sceneggiatura a quattro mani con Josh Singer. Stupenda è la ricostruzione degli ambienti dell’epoca, che contribuisce alla realizzazione dell’intento principale: rendere omaggio al grande cuore di questo artista di origini ebraiche, di cui contattiamo la complessa personalità. Cooper è uno a cui stare attenti perché ama schiacciare il piede sull’acceleratore delle emozioni e lasciare lo spettatore stordito (vedi alla voce A star is born), ma in questo film alza talmente l’asticella da riuscire a portarci con lui nel suo entusiasmo. E si capisce ancora di più questo lavoro mastodontico quando alla fine del film, insieme ai nomi dei produttori Spielberg e Scorsese, scorrono straordinarie immagini di repertorio del vero Bernstein: nel confronto diretto con il suo protagonista in carne ed ossa si comprende ancora di più la bravura dell’attore e regista. Bernstein è presente soprattutto grazie alla sua musica, ma il film vuole raccontarci altro, di lui, e riesce a dilaniare chi lo guarda, così diviso fra i sentimenti per una famiglia con tre figli, da una parte,  e gli uomini che ama dall’altra.  Cooper e Mulligan ci regalano due interpretazioni febbrili e da applausi, altro che protesi eccessive al naso (di lui).

The Killer. Michael Fassbender as an assassin in The Killer. Cr. Netflix ©2023.

THE KILLER di David Fincher, segna il grande ritorno di Michael Fassbender in una forma strepitosa. Si vede che ha fatto molto yoga e questo lo aiuta ad essere distaccato e glaciale come il sicario in cui sparisce. Un monologo fuori campo ci spiega tutto su cosa fa un professionista in attesa che arrivi la sua vittima, come tiene la mente allerta, come deve anticipare le mosse e non fidarsi di nessuno, come non debba nè esitare né improvvisare, e soprattutto mai empatizzare con la sua vittima. Ma la prima volta che un incidente lo fa fallire gli costa cara, la fidanzata a Santo Domingo finisce in terapia intensiva e lui inizia un cammino di silenziosa risalita che lo porterà fino al suo collega traditore. Affascinante l’archivio di passaporti imbustati, targhe false impilate, cartelli stradali per inscenare ogni professione che può essere necessaria (anche lo spazzino) per avvicinare la preda: sono tutti arnesi del perfetto killer contemporaneo. Affascinante anche l’occhio vitreo di Michael, che si ispira al fumetto originario. Sembra dare segni di cedimento solo alla fine, davanti a un’indimenticabile scambio con Tilda Swinton. Ma è solo una manovra diversiva.

LA BETE di Bertrand Bonello ci racconta un mondo del futuro dominato dall’Intelligenza Artificiale in cui, se le emozioni non sono in perfetto equilibrio, non è consentito trovare un impiego interessante. C’è una via per liberarsi da questo pericolo emotivo, si chiama purificazione, e consiste nell’indossare una tuta e immergersi in un liquido che ripulisce il dna dai traumi accumulati in diverse vite. Così vediamo una splendida Lea Seydoux attraversate tre epoche, spesso immortalata da primi piani, e mentre cambiano costumi e situazioni accanto a lei resta l’uomo che ama e che rappresenta l’amore, l’altrettanto bravo George MacKay (avrebbe dovuto esserci Gaspard Ulliel al suo posto, morto lo scorso anno).

Un’altra sfaccettatura della ricerca al femminile, così come accade nel film che descrivo sotto.

Kathryn Hunter and Emma Stone in POOR THINGS. Photo by Yorgos Lanthimos. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 20th Century Studios All Rights Reserved.

POVERE CREATURE di Yogor Lanthimos, film candidato alla vittoria del Leone d’Oro, ha una trama tratta dal libro omonimo secondo cui Bella Baxter (Emma Stone) è una donna che vive segregata in casa con un pezzo di corpo che le è stato “installato”. Si scoprirà presto che è il cervello del neonato di cui era incinta quando è morta, e che a trapiantarlo nel suo corpo è stato un dottore che ricorda Frankenstein (Willem Dafoe). Bella scappa di casa, si ribella, scopre il sesso e i suoi piaceri (con Mark Ruffalo), e in questa nuova versione di se stessa rende chi incontra dipendente da lei. Una sofisticata e nuova apertura sul mondo femminile, una sorprendente e accelerata evoluzione di Barbie, per citare il film che ha fatto resuscitare i botteghini di questa strana estate di grandi incassi e clamorose mancanze al Lido, giustificate dallo sciopero a Hollywood.

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Maiwenn: «Io, l’amore e Johnny Depp»

25 venerdì Ago 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, Cannes, Cultura, Miti

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Cannes 2023, corte, cortigiane, Cristiana Allievi, donne, interviste illuminanti, Jeanne du Barry, Johnny Depp, La favorita del re, Luigi XV, Maiwenn

UNA REGISTA IMPEGNATA (E FEMMINISTA). UN DIVO SCAPESTRATO (E DENUNCIATO DALLA MOGLIE). LA SCANDALOSA RELAZIONE FRA LUIGI XV E JEANNE DU BARRY. IN LA FAVORITA DEL RE NON POTEVA ESSERCI MIX PIU’ ESPLOSIVO. «COME IL SENTIMENTO CHE CI TIENE IN VITA, E CHE OGNI TANTO CE LA ROVINA».

di Cristiana Allievi

La regista e attrice Maiwenn in una scena del suo ultimo film, La favorita del re (courtesy Why not productions)

Attraverso le lenti fumè  intravedo gli occhi azzurrissimi. Ho intervistato almeno altre tre volte Maiwenn, attrice, sceneggiatrice e regista fra le più impegnate del cinema francese. Ma oggi mi riserva una sorpresa: niente inglese, si parla solo nella sua lingua madre. Immagino sia “colpa” di Johnny Depp: dopo settimane a dirigerlo sul set in Jeanne du Barry – La favorita del re, non senza attriti, vorrà limitare i rischi di fraintendimenti. Anche perché, come mi confesserà più tardi, le interviste la mettono a disagio. Il suo film sarà nelle sale il 30 agosto, è il sesto lungometraggio che dirige (ha aperto l’ultimo Festival di Cannes). Per sette lunghi anni è stata ossessionata dalla storia di Jeanne du Barry, una giovane dalle origini umili che grazie al suo fascino e alla sua intelligenza sale i gradini della scala sociale fino in cima, dove ad attenderla c’è il re Luigi XV. Ignaro del fatto che sia una cortigiana, se ne innamora perdutamente, ricambiato, e la porta a vivere a Versailles, creando uno scandalo in piena regola. Il sovrano è, come avrete capito, Johnny Depp, mentre Maiwenn, che da tempo non usa il cognome, LeBesco, a causa dei rapporti difficili con la famiglia,  ha tenuto il ruolo della favorita per sé.

Come mai ha impiegato tanto per realizzare il film?

«La scrittura della sceneggiatura è stata lunga, serviva un punto di vista interessante. I finanziamenti sono arrivati lentamente, e in mezzo c’è stato anche il Covid. Ci sono stati momenti in cui ho perso la speranza e la pazienza, ma questo tempo è stato necessario, mi ha spinta a giustificare le mie scelte e a fare riflessioni profonde».

La sensazione di essere illegittima, di tradire le proprie origini, di Jeanne Du Barry: perché la interessa? «Per me il tema centrale del film è l’impatto che ha il potere. Si parla spesso del potere del re e degli interessi di questa donna, la verità è che Jeanne du Barry esercitava un forte ascendente sul sovrano. E se di solito si racconta il potere con l’angolazione della politica o della finanza, credo che la seduzione, l’amore e il fascino siano potenti tanto quanto lo è un re. Il potere dell’amore è uno dei temi che mi interessano di più».

Perchè? «È la mia essenza, funziono sulla base di questo sentimento. Non ho mai creduto di essere abbastanza forte da rappresentarlo, ma se mi chiedo  cosa mi interessa filmare, sono i paradossi che derivano dalle cose che ci tengono in vita, e che ogni tanto ce la rovinano (Maiwenn ha conosciuto Luc Besson quando aveva 12 anni e lui 29, e a 16 ha avuto con lui una figlia, Shanna. A 20, durante le riprese di Il quinto elemento, lui l’ha lasciata per Milla Jovovich, ndr)

Cos’è l’amore per lei? «Il mistero più grande, la droga più grande. È ciò che ci da il coraggio di fare le cose che facciamo. E ho l’impressione che siamo abitati, pervasi, dall’amore».

Lei da l’idea di amare la libertà, come Jeanne du Barry: come l’ha fatta sentire calarsi in un contesto come quello di Versailles, in cui la spontaneità non era appropriata? «È stato l’aspetto più difficile. Adoro la spontaneità e ha molto carisma davanti alla macchina da presa. Jeanne ha portato aria di libertà, le persone che la circondavano avevano bisogno di una donna come lei, che ha anticipato molte cose che si sarebbero manifestate successivamente. Ma trattandosi di Versailles sapevo che se fossi stata troppo spontanea non sarei stata coerente con l’epoca: dovevo incarnare una donna che si trovava davanti a persone che pesavano ogni parola per non essere allontanate dalle grazie del re. Mi sono fatta un po’ di violenza, diciamo».

So che ha proposto la parte del re a molti attori francesi, fra questi c’era anche Timothée Chalamet? «Chalamet? Ma è un bambino! Mi va bene andare contro corrente, ma lui non avrebbe mai potuto incarnare questa storia». 

(continua…)

Intervista pubblicata su Donna Moderna del 24 Agosto 2023

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Eddie Redmayne: «All’ansia non penso»

02 mercoledì Nov 2022

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Miti, Netflix, Zurigo Film Festival

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Charles Cullen, Charles Graeber, Eddie Redmayne, Jessica Chastain, storie vere, The good nurse, tv

SI VIVE UNA VOLTA SOLA, DICE L’ATTORE. E ALLORA MEGLIO GODERSELA SENZA FARSI ASSALIRE DAI BRUTTI PENSIERI. E PRENDENDO ESEMPIO DA SUO PADRE: «NON SAPEVA NULLA DEL MIO LAVORO, MA MI HA SEMPRE SOSTENUTO».

di Cristiana Allievi

Siamo nel cuore di Zurigo, in un bell’hotel a bordo lago.  Mi viene incontro e dopo avermi salutata posa lo sguardo sul tavolo.  «Mi ricordo anni fa, quanto erano diversi questi dispositivi…». Mentre commenta il mio registratore e i segni del passare del tempo, il volto di Eddie Redmayne si allarga in un sorriso. Indossa un maglione color verde acqua, come i suoi occhi, e questo è il suo modo per alleggerire l’atmosfera. Ho appena visto l’anteprima europea di The good nurse al Zurigo Film Festival, e leggerezza è ciò che occorre. La storia su Netflix è quella vera e incredibile di Charles Cullen, un infermiere che ha ucciso 39 persone (questo il numero di quelle ammesse, ma si sospetta le vittime siano 400) passando di ospedale in ospedale, e agendo praticamente indisturbato. Finchè non ha incontrato sulla sua strada Amy (Jessica Chastain), un’infermiera del reparto intensivo molto empatica e coraggiosa, che si troverà nella scomoda posizione di amica e testimone di una sconcertante verità, e riuscirà a fermarlo. Diretto da Tobias Lindholm, il film si basa sull’omonimo libro di Charles Graeber. Ne parlo con il premio Oscar che ha studiato arte al Trinity College di Cambridge, dopo aver frequentato l’Eton college insieme al principe William. Oggi è padre di due figli, avuti con la moglie Hannah Bagshave, e la famiglia  vive a Londra, in un quartiere vicino al Borough Market.

Cosa sapeva di Charles Cullen, l’infermiere che interpreta in The Good nurse? «Non sapevo niente, l’ho scoperto leggendo la sceneggiatura, e non ho capito subito la portata di quello che ha fatto: quando ho avuto chiaro il quadro completo della vicenda sono andato in shock. La cosa più interessante era che non sembrava possibile classificare la storia in nessun genere, era la vicenda di un’eroina che riesce a vincere su un intero sistema che non riusciva a gestire la situazione? Era la vicenda di un folle, o la storia di un’amicizia?».

Come si è preparato? «Ero così intrigato dal capire cosa c’è dietro alla sua storia, che ho iniziato a scavare come faccio sempre. Il libro di Charles Graeber è in un certo senso basato su quello che è un sogno per un attore, perché raccoglie ogni pezzettino della sfaccettatura psicologica della persona. Di film sui serial killer ne abbiamo visti tanti, ma mai avevamo visto un individuo che si trova a combattere un intero sistema, come fa in questo caso il personaggio di Jessica».

Cullen non era un serial killer affascinante… «No, non era un Hannibal Lecter, concordo con lei. Ciò che era affascinate e terrificante era l’idea di queste  persone,  i medici e le infermiere, a cui portiamo le nostre madri e i nostri figli che soffrono, e che all’improvviso trasformano un ospedale in un luogo di omicidi. La mia parte si sarebbe dovuta basare sulla paura, è questo il nocciolo della storia».

Paura è ciò che si prova anche  all’idea di trovarsi così indifesi davanti alla follia di qualcuno. «Un mio amico americano  ha vissuto una situazione di ricovero che lo ha portato a  sperimentare quanto un essere umano, in un momento di bisogno, possa contare su figure come quelle degli infermieri. Ci trascorri la giornata, loro sono delle specie di cerniere fra quello che dicono i medici e il contesto più umano del paziente che affronta la realtà giorno dopo giorno. C’è un coinvolgimento a livello personale, e la relazione è così emotiva che quando un infermiere se ne va, e ne arriva uno nuovo, il paziente si ritrova in uno stato di incredibile vulnerabilità».

Cos’altro ha scoperto, che non si aspettava? «Gli infermieri in un certo senso sono simili a noi attori. Devono tirare avanti in un clima di dolore, agendo con empatia e umanità, e poi tornare a casa e mettere da parte le tragedie che vedono tutto il giorno».

(continua…)

L’intervista integrale è pubblicata su F magazine dell’1/11/2022

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Louis Garrel «Ho il terrore di annoiare»

18 martedì Ott 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Miti

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Cannes, Cristiana Allievi, Festa di Roma, festival, interviste illuminanti, L'innocent, L'ombra di Caravaggio, Les Amandiers, Louis Garrel, Patrice Chereau, regista, VAleria Bruni Tedeschi

LA PAURA CHE IN SUA PRESENZA QUALCUNO SBADIGLI LO ACCOMPAGNA FIN DA RAGAZZINO. PER QUESTO FA L’ATTORE E ADESSO PURE IL REGISTA. “MI SONO SEMPRE SENTITO RESPONSABILE DELL’ATMOSFERA”. ANCHE QUELLA DEI SUOI FILM, «CHE DEVONO FARVI VENIRE VOGLIA DI VIVERE”

di Cristiana Allievi

Louis garrel Foto Stock, Louis garrel Immagini | Depositphotos
L’attore e regista francese Louis Garrel, 39 anni (courtesy Depositphotos).

«Da bambino ho incontrato tante persone appena uscite di prigione, e tutti gli intellettuali che frequentavano casa nostra erano interessati alla marginalità. È un mondo che conosco e che ho usato come aneddoto». Mentre mi racconta l’idea da cui è nato il suo quarto film da regista, mi accorgo che Louis Garrel è più tranquillo del solito. A 40 anni ancora non compiuti, sembra diventato grande.  Come il suo film, presentato fuori Concorso all’ultimo Festival di Cannes e proiettato in questi giorni alla Festa di Roma. L’innocent ha come idea di partenza  un aneddoto che riguarda la madre, Brigitte Sy, regista come il padre Philippe. E discendendo da due reali della Nouvelle Vague del cinema, Louis non poteva che diventare famoso con uno dei film più sexy della storia del cinema, quel The Dreamers offertogli dall’amico di famiglia Bernardo Bertolucci. Dai tempi del conturbante e ribelle Theo, 20 anni fa, ha fatto tutto il possibile per meritare il grande vantaggio di famiglia che aveva. Ce l’ha fatta, oggi ha un’identità sua ed è un cineasta di valore. Dal 3 novembre lo vedremo ancora in L’ombra di Caravaggio (passato prima alla Festa di Roma) diretto da Michele Placido, come l’uomo che ha investigato la vita del pittore e ha avuto potere di vita e di morte su di lui. E dopo essere stato Jean-Luc Godard, il simbolo della Nouvelle Vague mancato qualche settimana fa, dall’1 dicembre interpreterà un altro mostro sacro, Patrice Chéreau, direttore artistico della prestigiosa scuola del Theatre des Amandiers di Parigi. A dirigerlo la sua ex Valeria Bruni Tedeschi. Garrel indossa una t-shirt con giacca nera e pantaloni chiari, e ci tiene a parlare con me in italiano.

Come sempre nei suoi film, anche in L’innocent si ritaglia anche un ruolo di attore: Abel, di professione guida in un acquario.  «È un uomo che vive il lutto per la perdita di sua moglie. Un giorno scopre che sua madre (Anouk Grinberg) vuole sposare un uomo che è stato in carcere. Con l’aiuto della migliore amica lo tallonerà da vicino e scoprirà chi è veramente».

Ha dedicato il film a sua madre Brigitte Sy. «Ha lavorato per vent’anni in prigione con il teatro, come animatrice. Il punto di partenza è la sua vera storia, perché dopo che i miei si sono separati si è sposata in prigione con un uomo di nome Michael che mi piaceva molto.  Abbiamo legato, mi ha aperto le porte di un mondo che non conoscevo. Non volendo fare una semplice cronaca monotona, ho giocato con tanti registri, dalla commedia romantica al thriller, che è anche un modo per cambiare ritmo».

Il ritmo è importante per lei? «Molto, perché la mia più grande paura è quella di essere noioso».

Quando è iniziata, questa paura? «Verso i 13  o 14 anni, mi sentivo sempre quello che doveva fare qualcosa per evitare a tutti i momenti noiosi».

È ancora così? «Quando sono in mezzo alle persone mi sento responsabile dell’atmosfera. Se tutti sono annoiati sento il dovere di fare qualcosa per intrattenere».

E ne ha fatto una professione.  «Jean-Paul Carrère (regista e sceneggiatore mancato dieci anni fa), mi ha  insegnato a non essere né monotono né troppo psicologico. “Devi sorprendere” è una lezione che ho imparato da lui, e per farlo uso molto le emozioni».

Le piacciono, le emozioni? «Vado matto per le  affezioni sentimentali fra i personaggi, quelle fra un figlio e un padre adottivo, o fra una madre e sua figlia. Uso tanto questo ingrediente per nascondere altro, come fanno i maghi. A volte mi sento proprio così, un mago, incanto con le romanticherie e poi cambio strada, perché il film dev’essere un gioco».

“È così difficile prendere decisioni…” una frase di Abel che sembra sua. «Lo è, per me è un incubo prendere decisioni! Qualcuno mi ha detto “ogni decisione è una rinuncia”, e mi sembra un fatto pazzesco».

(continua…)

Intervista a Louis Garrel pubblicata su F del 18/10/2022

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Christoph Waltz, «Ci vuole resistenza»

22 giovedì Set 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Bastardi senza gloria, Christoph Waltz, DEad for a dollar, Django Unchained, Inglorious Basterds, interviste illuminanti, Quentin Tarantino, successo, uomini, Vanity Fair

PER AVERE SUCCESSO LA PASSIONE NON BASTA. LUI LO DIMOSTRA DAI TEMPI IN CUI, CON TARANTINO, HA CONQUISTATO HOLLYWOOD E DUE OSCAR COME ATTORE NON PROTAGONISTA. ORA PERO’ HAIL RUOLO PRINCIPALE NEL NUOVO DEAD FOR A DOLLAR, E CI PARLA DI CONFINI E DELL’IMPORTANZA DI CERTE SINFONIE

L’attore e regista austriaco Christoph Waltz, due volte premio Oscar (courtesy Ausbury Movies)

di Cristiana Allievi

Con Hans Landa, il colonnello delle SS terrificante e colto di Bastardi senza gloria, e con il cacciatore di taglie King Schultz in Django Unchained, è passato quasi all’improvviso dall’oscurità all’eroismo, vincendo due Oscar. «I cattivi mi vengono bene per il mio aspetto e la mia fisionomia, a cui può aggiungere anche l’età e l’aura che emano», dice Christoph Waltz dopo aver chiesto l’autorizzazione a togliersi la giacca per restare in camicia azzurra, più consona al clima della laguna. La figura è sottile, quasi delicata. Tutta la sua forza emerge dagli occhi grigio chiaro, da cui non si sfugge tanto facilmente.

Nato a Vienna 65 anni fa da due scenografi tedeschi, ha avuto come nonno materno il noto psicologo Rudolf von Urban, che sembra avergli lasciato in eredità una visione chiara dell’ego e delle sue dinamiche: in un’epoca che spinge tutti a parlare di sé, lui non lo ha fatto nemmeno ai discorsi di ringraziamento per gli Oscar, preferendo citare solo le persone più importanti a cui deve il successo.

Ora Christoph Waltz ha una sfilza di film in uscita degna di un trentenne all’apice della carriera, e all’ultima Mostra di Venezia, dove l’abbiamo incontrato, è stato il magnifico protagonista di Dead for a Dollar, il nuovo western di Walter Hill prossimamente nelle sale.

È una storia di confini geografici e morali ambientata nel 1897 in cui interpreta Max Borlund, un cacciatore di taglie pagato da un ricco uomo d’affari per ritrovargli la moglie (Rachel Brosnahan), secondo lui rapita e portata in Messico da un disertore (Brandon Scott). Ma le cose non stanno così, e quando Max lo capisce, comincia a seguire la sua etica.

In tutti i film sul vecchio West, quando qualcuno non piace, finisce male, con una pallottola in corpo.
«C’era la legge, ma non veniva seguita in modo diligente perché mancavano le forze dell’ordine. La domanda che mi faccio ogni volta però è un’altra».

Quale?
«Come mai se passi un confine, che è una demarcazione arbitraria, le cose sono così diverse? Prendiamo il caso della sparatoria di massa accaduta lo scorso maggio a Buffalo. Il confine canadese è molto vicino, puoi quasi arrivarci a piedi. Perché, una volta che lo hai attraversato, non hai più questi fenomeni di violenza di massa, problemi con le armi e con il controllo delle armi? Intendo dire, hai solo i problemi normali, perché i pazzi sono ovunque».

Che risposta si è dato?
«Credo che la differenza stia nelle forze dell’ordine. L’America è un interessante fallimento di liberazione, si sono rivoltati contro il re, ma poi in un certo senso non hanno avuto un piano su cosa fare della situazione».

In Canada, in compenso, hanno sempre avuto la regina Elisabetta II, mancata pochi giorni fa.
«C’erano anche le montagne e la “polizia” locale ha anticipato l’espansione verso Ovest, elementi che hanno fatto una grande differenza. Tornando alla domanda, è un mito dei film farci credere che se non ti piaceva qualcuno potevi tranquillamente sparargli. Eri comunque un criminale, un assassino, e se eri fortunato venivi processato, altrimenti ti linciavano».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 28 settembre 2022

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Samantha Morton, «Ho vinto io»

13 martedì Set 2022

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, Cultura, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi, Politica, Serie tv

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Caterina de Medici, Cristiana Allievi, Harvey Weinstein, interviste illuminanti, Minority Report, samantha Morton, She said, The New York Times, The serpent Queen, The Whale, Vanity Fair

UN’INFANZIA DRAMMATICA DI TRAUMI E ABBANDONO. LA CARRIERA CONQUISTATA LOTTANDO PER OGNI SPAZIO. HOLLYWOOD CHE LA CHIUDEVA FUORI. SAMANTHA MORTON HA LAVORATO DURO, E CE L’HA FATTA. OGGI SI È MESSA NEI PANNI DI UNA REGINA CHE LE SOMIGLIA MOLTO

di Cristiana Allievi

Quanti dolori può contenere una persona dentro di sé? E dove trova la misteriosa forza che la fa continuare a vivere, addirittura a diventare genitore? «Io ho molta fede, e la fede guarisce anche le ferite più profonde». In un rovente pomeriggio di agosto la risposta mi arriva forte e chiara da Samantha Morton,  mentre il giardiniere alle sue spalle inizia a tagliare l’erba. Per un verso una delle attrici e registe più significative del panorama indie contemporaneo, per un altro una sopravvissuta. Il perché è evidente. I suoi genitori si dividono fra abusi d’alcol e violenze varie quando lei ha solo tre anni.  Poco dopo, a causa dell’incuranza di entrambe, inizia il suo peregrinare tra affidi e orfanotrofi. E proprio nelle case in cui avrebbe dovuto trovare protezione, a 13 anni subisce abusi sessuali da parte di due responsabili. La disperazione, però, è una forza potente, e Samantha la usa per passare il test di ammissione alla Central Junior Television Workshop, organizzazione che forma i giovani per entrare nel mondo del teatro, della radio e del cinema.  Da lì cammina tanto da arrivare a lavorare con i migliori registi su piazza, come Steven Spielberg e Jim Sheridan, Woody Allen e David Cronenberg. Madre di tre figli avuti da due compagni diversi, è la donna perfetta per raccontare storie forti, come quelle in cui la vedremo nei prossimi giorni in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia. The whale, il nuovo lavoro di Darren Aronofski, e She Said, di Maria Schrader, in cui veste i panni di Zelda Perkins, l’ex assistente di Harvey Weinstein. Prodotto da Brad Pitt, il film ha lo stesso titolo del libro delle due giornaliste del New York Times che hanno ricostruito e pubblicato la storia degli abusi sessuali del produttore cinematografico. Poi, dall’11 settembre, sarà nientemeno che la regina di Francia Caterina de Medici nella serie drammatica The serpent Queen (su STARZPLAY). «È riuscita ad avere un’enorme influenza politica per ben cinquant’anni», racconta a proposito della consorte di Enrico II, «e stiamo parlando del Seicento, un’epoca in cui le donne venivano bruciate come streghe, quando erano solo delle ostetriche».

Fino all’Ottocento l’italianissima Caterina è stata descritta come fredda, gelosa, vendicativa e avida di potere: lei che idea se n’è fatta? «Per me è una donna spirituale, una salvatrice che previene grandi disastri del tempo. Caterina vedeva molto lontano, è riuscita a quietare i conflitti fra cattolici e protestanti perchè aveva un modernissimo modo di permettere alle persone di seguire la propria fede. Chissà come sarebbe andata la storia se al potere non ci fosse stata lei».

Nella prima stagione scopriamo eventi della giovinezza e il percorso per arrivare a corte, poi cosa vedremo? «Da lì in avanti la storia si muoverà nella sua dimensione machiavellica. Si scoprirà come ha imparato a stare al gioco e a sopravvivere in famiglia, nel convento e infine a corte».

“Sopravvivenza” è una parola che le risuona? «Le racconto una storia. Molti anni fa ho chiesto al mio agente se potevo fare audizioni per i drammi in costume, ricordo che una regista donna in particolare mi rispose “non hai il sangue giusto, non sei l’animale giusto…”. Sono una persona comune,  vengo dalla classe operaria dal nord dell’Inghilterra e non da una buona famiglia».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Vanity Fair del 14 settembre 2022

@Riproduzione riservata

Josh O’Connor: «E adesso mi metto a nudo»

28 giovedì Lug 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Letteratura, Miti

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Colin Firth, Cristiana Allievi, Donna Moderna, Eva Husson, guerra, interviste illuminanti, Josh O'Connor, Mothering Sunday, nudo, Olivia Colman, Secret Love, The Crown, uomini

Il protagonista di Secret Love colleziona ceramiche, adora il giardinaggio, si spoglia senza problemi. E qui fa un invito a se stesso e agli altri uomini: “Dobbiamo capire perché abbiamo avuto così a lungo tanti privilegi. Ed essere più gentili».

di Cristiana Allievi

L’attore inglese Josh O’Connor, 31 anni (courtesy TMDB)

Fa molto caldo nella stanza in cui ci troviamo. Josh O’Connor indossa una camicia bianca di seta con disegni neri ed è seduto su una poltrona. Con un accento molto british mi racconta la sua visione del maschio contemporaneo, mentre scivola in avanti con le gambe, per poi ritirarsi su. Da giovane voleva fare l’attore, ma pensando di non avere la stoffa si è dato al rugby. Gli torna in mente mentre parliamo di Secret Love di Eva Husson, finalmente al cinema dal 20 luglio. Quella che è forse la sua miglior interpretazione di sempre: ambientata nel 1924,  lo vede nei panni di Paul, il figlio di una famiglia di nobili che porta sulle spalle vari pesi: i fratelli morti in guerra, un matrimonio imminente che non vorrebbe e soprattutto  l’amore segreto per Jane (Odessa Young), domestica dei vicini di casa (Colin Firth e Olivia Colman). Lui è nudo per i tre quarti del film,  in quello che è un incontro sublime fra sesso, cinema e scrittura (la storia è tratta dal romanzo Mothering Sunday di Graham Swift). 31 anni, figlio di un insegnante e di un’ostetrica, come principe Carlo d’Inghilterra in The crown ha vinto Emmy e Golden Globe, e molti altri riconoscimenti sono arrivati per La Terra di Dio. A New York, dove vive, fa teatro e film indipendenti e ha un’altra passione insospettabile a cui dedicarsi.

Vado dritta al punto: prima Carlo d’Inghilterra, ora Paul,  un altro uomo costretto dall’etichetta.  Perché sceglie questi maschi che non conoscono la libertà? «Non è mai stata una decisione cosciente, piuttosto una sorta di gioco. Ho incontrato molti  uomini che si misurano con la loro mascolinità e le lotte di potere che questa comporta. Qualcuno mi ha detto di vedere una connessione  fra il principe Carlo e il Johnny Saxby che ho interpretato in La terra di Dio. La mia prima reazione è stata “stai scherzando?”, ma riflettendoci l’idea è convincente:  il principe Carlo era incapace di esprimere le proprie emozioni a causa del suo status sociale, esattamente come Johnny, che appartiene a una classe sociale molto inferiore. Chi come me viene dalla classe di mezzo, riesce molto bene a parlare di chi sta più in alto e di chi sta più in basso».

Il comune denominatore è l’essere “trattenuti”. «È un aspetto che mi affascina molto, ma mi interessa più quel senso di colpa che ha chi sopravvive. Paul è un uomo che eredita uno status in una certa società, e si deve portare sulle spalle il peso e la pressione dei suoi due fratelli morti in guerra, incluso il matrimonio con una donna che non ama ma che tutti intorno a lui amano, è la ricetta per un disastro perfetto!».

Cos’ha a che fare con lei, questo disastro? «Sto esplorando qualcosa che mi sembra interessante, ma non so perché continui a tornare. Sembra che non le stia rispondendo, la verità è che non conosco la risposta».

Come vede questa fase di confronto fra i sessi? «Credo che non sia un caso se vediamo spesso ruoli come quello che interpreto in Secret love. Gli uomini devono comprendere il loro posto nel mondo, e capire perché hanno avuto così tanti privilegi per così tanto tempo. In altre parole, dobbiamo capire come essere più gentili».

Il fatto che la regista sia una donna è un caso? «Neanche un po’. Finalmente abbiamo registe e sceneggiatrici che scrivono personaggi maschili per un pubblico di uomini e di donne.  Diciamo che stiamo rivalutando le cose, ci stiamo lavorando su».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 21 luglio 2022

@Riproduzione riservata

Andie MacDowell, «Grigia e sexy, perché no?»

12 domenica Giu 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, Cannes, cinema, Cultura, Miti, Netflix

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Andie Mac Dowell, Cairo Editore, Cristiana Allievi, donne, F magazine, Hugh Grant, interviste illuminanti, liberazione, Maid, MArgaret Qualley, Netflix, Quattro matrimoni e un funerale, Sesso bugie e videotape

«GLI UOMONI SONO LIBERI DI INVECCHIARE. VOGLIO ANCH’IO IL LORO POTERE, SENTIRMI DESIDERABILE COME LORO, NEL MIO CORO E ALLA MIA ETA’». PER QUESTO L’ICONA ANNI 90 HA DECISO DI NON TINGERSI PIU’. E DI INSEGNARE ALLE FIGLIE, CON L’ESEMPIO, CHE IL GIUDIZIO DEGLI ALTRI NON CONTA

di Cristiana Allievi

L’attrice americana Andie MacDowell, 64 ani. Fra i suoi film più famosi Sesso bugie e videotape e Quattro matrimoni e un funerale. Ha ricevuto 4 candidature ai Golden Globe per la serie tv Maid (Netflix).

Nella sua stanza d’albergo sulla Riviera francese, in tailleur dal taglio maschile color rosa acceso, è semplicemente magnifica. Mi chiede se sono italiana, e capisco che la cosa le fa piacere. Ha un’energia palpabile che non esplode verso l’esterno: è forte e quieta allo stesso tempo.

Musa dalla bellezza eterea che ha ispirato classici degli anni Novanta come Quattro matrimoni e un funerale, con Hugh Grant, e Sesso, bugie e videotape, il film rivoluzionario di Steven Soderberg che vinse la Palma d’oro a Cannes, Andie MacDowell è una ex modella che è sempre stata radicata rispetto al mondo in cui ha vissuto. Quando era ai vertici del successo si è trasferita in Montana a crescere i tre figli avuti con l’ex modello e marito Paul Qualley. Di questi le due femmine, cresciute facendo danza e teatro sin da bambine, hanno seguito le orme della mamma che, dopo il divorzio dal marito, ha sempre cercato di bilanciare le aspirazioni professionali con la vita in famiglia. Ed è stata premiata, perché finalmente le due cose si sono incontrate in Maid, la serie tv Netflix di grande successo ispirata alle memorie di Stephanie Land. Per interpretare Paula (madre di finzione della sua figlia vera, Margaret), una donna bipolare  “non diagnosticata”, si è ispirata alla sua di madre,  mentalmente instabile e malata di alcolismo. E poco prima del debutto della serie ci aveva già stupiti presentandosi a Cannes con quei meravigliosi riccioli grigi naturali che hanno fatto scalpore e la dicono lunga sulla donna che oggi, a 64 anni, è felicemente single a Los Angeles (dopo un secondo breve matrimonio, finito nel 2004), mentre Margaret sta per sposarsi con il produttore musicale  Jack Antonoff un anno dopo il fidanzamento.

Come si fa ad essere testimonial di un brand leader mondiale nel colore per capelli, smettendo di tingersi? «Le donne possono scegliere. Le mie sorelle si tingeranno finché non lasceranno questo pianeta, lo so per certo, e questa è un’opzione. Ma c’è anche quella di cambiare, e molte donne vogliono essere viste come gli uomini, a cui è concesso di invecchiare come sono».

Sta parlando di fare scelte chiare? «Non tingersi è come dichiarare che sì, sono più anziana, e mi va bene così.  Recentemente ho visto la foto di un magnifico attore, non dirò il nome.  È molto bello, accanto  a lui aveva una moglie bellissima, di 21 anni più giovane. Ecco,

voglio sentire lo stesso potere che sente quell’uomo, voglio essere a mio agio come lui, sentirmi sexy come lo è lui, nel mio corpo e alla mia età».

Occorre energia, per questo. «Ne ho tantissima, di solito quando sono pronta per uscire gli uomini sono distrutti sul divano!».  

Come fa? «Dormo molto, per me è importantissimo».

Sua figlia Margaret è un’attrice di grande talento, cosa le ha passato del suo mestiere? «Credo che Margaret sia un individuo, non voglio paragonarla a me. Se c’è qualcosa che ho fatto per lei è stata essere una madre, e questo non ha niente a che fare con la recitazione».

Considera il suo lavoro principale quello di madre, quindi? «Esatto. Le ho insegnato ad amarsi, ad essere libera e a non avere restrizioni. È stata una ballerina e sono stata attenta a che avesse i migliori insegnanti e a circondarla di persone che potessero darle di più di quello che ho avuto io alla sua età».

(continua…)

Intervista esclusiva pubblicata su F del 14 giugno 2022

@Riproduzione riservata

Tom Cruise – L’avventura, le sale e il seguito di Top Gun

19 giovedì Mag 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, Cannes, cinema, Miti

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Cannes 75, Cristiana Allievi, Eyes wide Shut, interviste illuminanti, l'ultimo samurai, Maverick, Tom Cruise, Top Gun, Vanity Fair

«Da bambino ho sempre fatto cose pericolose, scrivevo storie, mi arrampicavo sugli alberi». Incontro con la star al Festival di Cannes, dove ha presentato il sequel del film cult

di CRISTIANA ALLIEVI

19 MAGGIO 2022

(L’attore e produttore statunitense Tom Cruise, courtesy Reuters)

«A quattro anni e mezzo ho preso le lenzuola del mio letto, sono salito in cima al tetto e mi sono buttato usandole come paracadute. Ho preso una botta pazzesca in faccia e le lenzuola erano tutte sporche, immaginarsi la gioia di mia madre, con quattro figli… Ho sempre voluto fare le cose, era impossibile fermarmi». Un destino delineato, quello che emerge dalle parole della più grande star del cinema del mondo: Tom Cruise.

(continua…)

Articolo pubblicato su Vanity Fair Italia

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A tu per tu con Charlotte Gainsbourg

18 lunedì Apr 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Festival di Berlino, Festival di Cannes, Miti

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Antichrist, Charlotte Gainsbourg, Cristiana Allievi, GLi amori di Suzanna Andler, interviste illuminanti, Jane Birkin, Jane by Charlotte, Lars Von Trier, Nymphomaniac, Serge Gainsbourg, Yvan Attal

UN PADRE, SERGE GAINSBOURG, MAI DIMENTICATO. UNA MADRE, JANE BIRKIN, SPESSO ALLONTANATA, ORA, A 50 ANNI, L’ATTRICE FRANCESE FA PACE CON I “FANTASMI” DEL PASSATO. GRAZIE A UN MUSEO E A UN FILM

di Cristiana Allievi

(… continua)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 14 aprile 2022

 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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