Juliette Binoche, «Mangio, prego, amo»

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di Cristiana Allievi

Si muove agilmente tra i fornelli. Il vapore la affatica, andare in giardino a raccogliere le verdure migliori per il suo pot-au-feu la fa sudare. Ma non perde mai la grazia, e quando si cambia entra in salotto da regina: siede a tavola e si fa servire da un uomo che pende dalle sue labbra, in fatto di osservazioni culinarie e non solo.  La  Juliette Binoche di Il gusto delle cose è una luminosa e schiva cuoca dell’Ottocento che lavora da vent’anni per il famoso chef Dodin. Insieme i due creano piatti dai sapori sublimi, riuscendo a stupire nobili e altri illustri gourmant. Binoche ha appena compiuto 60 anni, e se si pensa che è stata anche Coco Chanel in una serie tv, possiamo dire che il 2024 abbia trasformato il premio Oscar in un’icona di cibo e moda, i simboli della cultura francese nel mondo. Nel film di Tran Anh Hung, in Concorso all’ultimo Festival di Cannes, recita accanto all’ex Benoit Magimel, padre di sua figlia, fatto che non succedeva da vent’anni. La loro intimità naturale è senza dubbio il cuore della storia che vedremo al cinema dal 9 maggio.

Come descriverebbe il suo personaggio, Eugenie? «È una donna che vive dando tutta se stessa.I suoi genitori sono morti molto giovani, e questa è la parte oscura della sua vita, il motivo per cui si da tanto agli altri. È il suo modo di resistere, di allontanare la tragedia potenziale della morte».

L’idea del film è quella di trasmettere sapori e ricette da una generazione a un’altra: sua madre le ha insegnato a cucinare? «Mi ha dato molte indicazioni. Per esempio quando ero una giovane attrice e vivevo di pasta, ero molto fiera di saper cucinare la besciamella, per me era già alta cucina! In generale mia madre mi ha insegnato la cura per i prodotti, andava a sceglierli già biologici, e parliamo degli anni Settanta».

Cosa le piace cucinare? «Da ragazza preparavo solo dolci, perché mia madre non li cucinava mai. Crescendo mi sono spostata verso il salato, ho rubato ricette anche dalle nonne e dagli amici».

È tornata sul set con il suo ex, Benoit Magimel, dopo vent’anni, com’ è  successo? «Ero impegnata con questo film già da un anno e mezzo, ma c’era un altro attore che ha lasciato il film, poi ne è arrivato un altro ancora, era un incubo… Finché Gaumont non ha pensato a Benoit, e lui ha accettato subito».

Come è stata l’esperienza? Sembrate molto affiatati… «All’inizio è stato molto complicato, alle prove mi sono detta “sarà dura…”. All’inizio del film Eugenie è la cuoca, ma Benoit voleva cucinare più di me. Quando ho fatto questa osservazione al regista, l’ha ripetuta a Benoit che si è arrabbiato. Poi ha capito, e le cose sono cambiate».

Come definirebbe questa esperienza con lui? «Liberatoria. Abbiamo avuto modo di stare uno alla presenza dell’altro, di fluire senza i blocchi emotivi di una volta. È stato bellissimo».

(continua…)

Intervista pubblicata su Donna Moderna del 9 maggio

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Viginie Efira, Le mille sfumature di una donna

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di Cristiana Allievi

«Ogni cosa, se osservata per abbastanza tempo, diventa interessante». La citazione di Gustave Flaubert sembra spiegare alla perfezione le scelte di Virginie Efira, attrice capace di gestire con grazia ruoli trasgressivi come quello di una suora italiana lesbica e ricca di fantasie erotiche, vissuta nel diciassettesimo secolo e poi accusata di blasfemia: la Carlini che ha incarnato in Benedetta. E proprio il regista del film, Paul Verhoeven, è stato colui che anni prima l’aveva trasformata da mattatrice della tv belga in una delle attrici più quotate Oltralpe, grazie a Elle (premio Cesar e miglior film straniero ai Golden Globe) e al ruolo di moglie dell’uomo sessualmente soddisfatto da Isabelle Huppert. Maggio è il mese della consacrazione di Efira grazie a due film in uscita: dal 2 è al cinema con Il coraggio di Blanche (Movies Inspired), film in Concorso a Cannes nel 2023. Tratto dal romanzo di Éric Reinhardt L’amore e le foreste (Salani), il lungometraggio di Valerie Donzelli è una storia di violenza domestica e psicologica, un viaggio nella mente di una donna che pensa di aver trovato l’uomo perfetto (l’ottimo Melvil Poupaud, che vedremo presto nei panni di un candidato alle presidenziali francesi nel film sul libro scritto da un ex primo ministro di Macron). Blanche lascia la sua famiglia e la sorella gemella con il sogno di farsi una nuova vita ma pian piano, e a fatica, realizzerà di avere accanto un uomo pericoloso che sta cercando di chiuderla progressivamente in una prigione. L’interpretazione di Efira è fisica, toccante e magnifica, e rende bene anche i rischi dell’immaginario in questo viaggio che è una specie di contraltare di Inferno di Chabrol, in cui il punto di vista della gelosia era quello maschile.
Dal 16 maggio sarà poi nelle sale anche Niente da perdere (Wanted cinema) un’altra storia di grande impatto emotivo in cui Efira si fa dirigere da una regista al primo lungometraggio, Delphine Deloget, per affrontare il dramma sociale della protezione dei bambini e l’ostilità di un sistema ottuso. Sylvie è una madre single di due figli difficili, una notte mentre è a lavorare e loro sono a casa da soli il piccolo ha un incidente domestico. In seguito a una denuncia, il bambino viene mandato in un istituto. Per Sylvie è l’inizio di un incubo che la rende instabile: combatterà con le forze che ha una lunga e dura battaglia amministrativa e legale per riportare a casa suo figlio e dimostrare la sua capacità di madre al mondo intero.

(continua…)

Intervista per Sette Corriere della Sera

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Wim Wenders, Il cielo sopra Tokio

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Dopo Perfect days, «girato in 16 giorni» e accolto da un successo di critica e pubblico, sta per uscire il suo documentario su Anselm Kiefer, artista «che si ribella all’idea di dimenticare». Qui Wim Wenders spiega che cosa teme: «ll nazionalismo, parente del razzismo»

di Cristiana Allievi

Nell’ultimo anno ha viaggiato in tutto il mondo  con due film. Se si pensa che Wim Wenders, regista, produttore e sceneggiatore di Dusseldorf, ha 78 anni,  e potrebbe finire col vincere un Oscar, si intuisce che ci troviamo davanti a un fatto eccezionale. Ma facciamo ordine. Wenders stava lavorando ad Anselm, un mastodontico documentario sulla vita del pittore e scultore tedesco Anselm Kiefer. Non faceva un giorno di vacanza dal 2019, ed era ancora nel mezzo dell’opera, quando ha ricevuto un invito in Giappone per andare a vedere le nuove toelette pubbliche di Tokio disegnate da 20 firme dell’architettura  giapponese. Nonostante le sue iniziali resistenze, da quella visita è nato un gioiello come Pefect Days (che corre agli Oscar come film giapponese). È la storia di Hirayama (l’ottimo Koji Yakusho, Miglior attore all’ultimo festival di Cannes), un uomo che vive in una piccola casa circondato dalle piante e ha per passione i libri, la musica e la fotografia. È addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokio, si reca al lavoro con il suo minivan, e ciò che fa rivela a poco a poco il suo passato. Wenders ci ha messo solo 16 giorni a terminare le riprese, poi è tornato a Berlino a per terminare Anselm, che finalmente vedremo al cinema dall’1 maggio. Baffetti nuovi, soliti occhiali tondi e toni pacati e gentili, la conversazione che si legge qui sotto è stata fatta in due tempi, fra la Francia e la Svizzera.  

Gli ultimi quattro anni sono stai intensissimi per lei. Non bastasse la fatica  della lavorazione di due film, si è aggiunta la campagna in tutti i festival del mondo in cui ha accompagnato i suoi lavori. Come regge un ritmo simile? «Più invecchio meno le rispondo che è stato facile, sono al limite (ride, ndr)! A Cannes è stato magnifico, perché un film era all’inizio e l’altro alla fine, ma ho capito che due film  da promuove insieme sono davvero troppo».

Il prossimo che vedremo dall’1 maggio è Anselm e racconta un gigante di cui l’Hangar Bicocca di Milano ha la fortuna di conservare un’opera mastodontica come I sette palazzi celesti. «Ci ho lavorato dal 2019 al 2022 e la lavorazione del documentario è stata molto complessa, abbiamo girato sette volte in due anni e mezzo. Inoltre  il lavoro di editing è molto più lungo di quello di un lungometraggio».

Kiefer è un artista “duro” ma lei riesce a renderlo poetico, come se lo spiega? «In realtà Anselm ha lavorato moltissimo con la poesia, non c’è un’opera in cui non abbia usato parole di poesia come complemento. Tutti i suoi dipinti sono fatti con quell’ispirazione, e molte frasi dei suoi poeti preferiti sono suoi alleati, non potevo tralasciare questo aspetto nel mio documentario».

Però l’immagine che se ne ha è quella di un artista  durissimo con la sua arte: la brucia, la distrugge… «Kiefer si ribella all’idea di dimenticare, alle scorciatoie: lui espone la storia e le molte cose brutte che gli uomini si sono fatti gli uni con gli altri. Però capisco quello che dice, io ho voluto coglierne l’aspetto più dolce».

Perché un documentario su di questo artista proprio in questo momento? «Sento che il suo lavoro è molto contemporaneo. C’è la presenza della guerra, del crimine in generale e di un crimine contro la natura. Il terreno dei suoi paesaggi è come un deserto che non vede più acqua da tempo, e vista la situazione del pianeta in questo momento le sue “terre morte” sono più che contemporanee».

Cosa pensa del coinvolgimento di un artista in fatti politici, penso ad esempio ad Agniesza Holland e al suo Green Border presentato alla Mostra di Venezia (Premio speciale della giuria). «Stiamo assistendo a un ritorno di nazionalismo a tutti i livelli, e questo è il passato orrendo dell’Europa. Ogni guerra, e ce ne sono tantissime in Europa, è causata dal nazionalismo, viene sempre da un “non vogliamo questo, uccidiamolo…”. Il nazionalismo tira fuori il peggio della natura umana, è alleato del razzismo. Prima in America, adesso in Europa, la brutta faccia del nazionalismo è sempre una manipolazione dell’arte, che con la violenza vorrebbero glorificasse i dominatori… Quindi il nazionalismo è nemico dell’arte ed è nemico nostro, soprattutto è nemico delle donne, è “history”».

(continua…)

Intervista pubblicata su Oggi settimanale

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Olivia Colman «Felicità è dire le parolacce»

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di Cristiana Allievi

Riesce a farsi abitare, in simultanea, da due sentimenti opposti come le risate e l’angoscia. È questo il vero super potere di Sarah Caroline Colman, grazie al quale la notizia di questi giorni, in cui con Benedicth Cumberbatch girerà un remake di La guerra dei Roses, ha già suscitato molto interesse. Nata nel Norfolk 50 anni fa, ha studiato a Cambridge per diventare insegnante di scuola elementare. Ma la passione per la recitazione è sempre stata il suo motore, e per mantenersi durante la scuola d’arte ha fatto di tutto, dalla segretaria alla donna delle pulizie, avendo sempre chiaro il suo obiettivo, tanto da arrivare a vincere un Oscar. Punto di svolta sono state le nove stagioni di Peep Show, la sit com che le ha cambiato la vita: da lì in poi l’abbiamo vista in ruoli iconici come quelli della regina Elisabetta (The Crown) e anche dell’immensa regina Anna in cui l’ha trasformata  Yogor Lanthimos (La favorita), come in quelli di madre ferita (La figlia Oscura) e di figlia scioccata (The father).  Tutte donne, queste, con cui ci ha inchiodati alle sedie senza possibilità di noia, come accade di nuovo in Cattiverie a domicilio (Lucky Red), nuovo film diretto dalla regista inglese Thea Sharrock. È una storia vera quanto assurda accaduta cento anni fa a Littlehampton, cittadina costiera dell’Inghilterra, in cui Colman è Edith Swan, la figlia di un padre autoritario (Timothy Spall) che le imponeun’educazione rigidissima. Come vicina di casa ha Rose (Jessie Buckley, già con lei in La figlia Oscura), giovane immigrata irlandese che sembra rivendicare una libertà sconosciuta agli altri. Quando in paese iniziano ad arrivare lettere scabrose e piene di parole oscene, i sospetti ricadono subito su Rose. Ma una poliziotta che si fa strada a fatica in un mondo maschile (Anjana Vasan) è a capo delle indagini, e con l’aiuto dalle altre donne del paese scoprirà qual è l’incredibile verità.

Cattiverie a domicilio è una commedia irriverente zeppa di parolacce: a lei e alla coprotagonista  Jessie Buckley è capitato di pronunciarne alcune sul set che non esistevano all’epoca?  «Ci tengo a dire che tutte quelle che diciamo sono vere, come lo sono le lettere.  Abbiamo fatto giochi e studiato dizionari di slang urbano, soprattutto quelli per i giovani. Sul set ne avevamo a bizzeffe, di imprecazioni, ma ne ho preparate alcune sconosciute per fare le interviste!».

Ad esempio? «Non mi chieda quali, non si possono mettere nero su bianco su un giornale, mi creda sulla parola. Le dico solo che qualche giorno fa in un’intervista tv ho ripetuto tre volte le parole “burro d’anatra”…».

Il significato? «Deve cercarlo, non le dirò nulla…».

Me ne pentirò, quando lo scoprirò? «Potrebbe, sì, potrebbe… (ride, ndr)».

Prima mi ha detto di cercare “wispernest”… «Quella però non è una parolaccia, è un’espressione più dolce, più intima. Indica l’esperienza di due persone che sono abituate l’una all’altra».

Invece la parolaccia che le capita più spesso di dire?

«”Fica”, la amo, è la mia parolaccia preferita in assoluto. Le donne dovrebbero possedere quel sostantivo, che per me è anche una cartina di tornasole: se lo pronuncio e sento che gli sfinteri delle persone che ho davanti si tendono, so che non andremo d’accordo».

(continua…)

Intervista rilasciata a Sette Corriere della Sera del 19.4.2024

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Mads Mikkelsen: «Amo il calcio, ero attaccante. Se il Barca chiama mollo i film»

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LA STELLA DANESE, UN PASSATO DA BOMBER PROFESSIONISTA, IN UN FILM OTTOCENTESCO: «VANITOSI I RICCHI DI ALLORA, SI, MA PURE OGGI SI CERCA LA FAMA SENZA SAPER FARE NULLA».

di Cristiana Allievi

L’attore danese Mads Mikkelsen, 58 anni, in una scena di La terra promessa, al cinema dal 14 marzo.

Osservando una landa di terra desolata, in molti finirebbero per cadere in depressione. Specialmente se  il luogo è di quelli in cui si fatica a marcare il confine fra le pietre e le persone. Ma per il soldato che torna dopo venticinque anni da capitano dell’esercito, le cose sono diverse. Su quella terra inospitale e terribile, lui si sdraia e protegge dal gelo un segreto. Qualcosa destinato a diventare il suo tesoro. A raccontare questa storia saranno il corpo e il viso dell’attore danese Mads Mikkelsen, entrato in alcune delle più grandi franchise degli ultimi 50 anni, da James Bond a Star Wars, passando per Harry Potter (in cui ha sostituito Johnny Depp), e questo solo se si pensa a Hollywood.  Se ci si sposta a casa sua, in Danimarca, è un orgoglio nazionale, al pari della squadra di calcio.

58 anni, con la moglie Hanne Jacobsen ha avuto un figlio e una figlia. Gemello di Lars (anche lui attore), è cresciuto prima a teatro, poi in tv e infine al cinema. Ex ginnasta convertitosi a danzatore, regala il meglio di sé quando si immerge nelle scene fisiche. Vestito completamente di blu, e in una forma fisica invidiabile, lo incontriamo per farci raccontare quel suo scavare la terra a mani nude che vedremo dal 14 marzo al cinema. La terra promessa, in Concorso all’ultima Mostra di Venezia, lo vede ex capitano caduto in disgrazia, Ludvig Kahlen, che nel 1755 decide di provare a coltivare la brughiera che tutti pensano impossibile da trasformare. Contro di lui c’è il ricco e spietato Frederik de Schinkel, che crede che quella terra gli appartenga, e il conflitto fra loro crescerà sempre più. Nonostante non ci sia stata una nomination all’Oscar per il film (un vero peccato), qualche mese fa Mikkelsen  ha vinto per la terza volta il premio al miglior attore europeo dell’anno.

Come si è preparato a diventare Kahlen?  È un uomo molto complesso che ha problemi nel relazionarsi con gli altri. La sceneggiatura si basava su un libro pubblicato recentemente su Kahlen, è stata quella la mia fonte di studio. Kahlen sarebbe capace di rovinare il mondo, pur di andare per la sua strada e ottenere ciò che vuole. Diciamo che è un egoista molto focalizzato sui suoi obiettivi».

La cocciutaggine è una caratteristica che le appartiene? «La riconosco, sì. Può essere una qualità come uno svantaggio, lo ammetto».

In che modo l’ha aiutata fino a qui? «Quando penso che ci sia qualcosa di sbagliato non mollo, sono capace ad andare contro tutto».

Il suo personaggio desidera disperatamente un titolo nobiliare, lei ha mai desiderato qualcosa così fortemente? «Ho avuto molte fantasie in mia vita, non le ho mai indagate razionalmente perché perdono di interesse.  A parte questo, se oggi mi telefonassero e mi chiedessero se voglio giocare per il Barcellona, non esiterei un istante».

Su Google si trovano ancora foto di lei che corre dietro al pallone in calzoncini bianchi e maglia azzurra.  «Il calcio è il mio primo amore, la mia passione di quando ero un bambino. Ho firmato il mio primo contratto a 16 anni, con Aarthus, poi sono diventato un professionista. Ero un attaccante».

Anche in La terra promessa, in un certo senso, è un attaccante. «C’è qualcosa di umanamente riconoscibile, magari di non così estremo, nell’essere attratti da qualcosa che non è facilmente ottenibile. Ti strangoli per raggiungerlo, nonostante non succederà mai…».

Questo uomo, come il re del film, sono spesso ubriachi, un dettaglio che ci dice qualcosa della Danimarca? «I personaggi che vede erano degli dei nel loro mondo, è normale che bevano. È anche vero che fa parte della storia della Scandinavia, siamo noti per vendere il petrolio del mare del Nord a un prezzo ridicolo, i nostri politici non possono che essere ubriachi!».

Aveva già affrontato il tema dell’alcolismo, addirittura in forma di tributo, nel magnifico Un altro giro.  «Era anche un avvertimento sulle trappole dell’alcol, però. Devo dire che mi sembra quasi un film italiano, è stata la prima volta che ho rintracciato in Thomas Vintenberg il desiderio di rendere un tributo alla vita».

(continua….)

Intervista integrale pubblicata su Sette Corriere della Sera dell’1/3/2024

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Christine Angot, «Stuprata da mio papà a 13 anni»

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In «A family», Christine Angot esordisce alla regia presentando il suo primo lungometraggio sul trauma subito da adolescente, quando il padre ha iniziato a violentarla

di Cristiana Allievi

La scrittrice, sceneggiatrice e regista francese Christine Angot, 64 anni, esordio alla regia con A family (Berlinale 2024)

Christine Angot è una donna di parola. In tre decadi ha pubblicato una ventina di libri e scritto otto sceneggiature (due per i film di Claire Denis, The Sunshine In e Both Sides Of The Blade).

Con il docufilm A family, la scrittrice francese ha esordito alla regia presentando il suo primo lungometraggio, crudo e scomodo,  alla 74esima Berlinale attualmente in corso.

E mentre scorrono le immagini lo spettatore inizia a individuare, fra fiumi di parole, quelle che non sono mai state pronunciate in un momento molto drammatico della vita della scrittrice sessantaquattrenne.

Il cuore del film è infatti il trauma subito all’età di 13 anni, quando il padre ha iniziato a violentarla, un abuso che è continuato nei weekend e durante le vacanze. È un tema che Angot aveva già menzionato in Incesto, del 1999, e in An Impossible Love  (adattato e diventato anche un film di Catherine Corsini). Ma è stato Un voyage dans l’Est, che ha vinto il Prix Medicis nel 2021, a marcare una differenza netta: Angot è diventata esplicita e ha coinvolto le persone di famiglia che sapevano dell’abuso e che non sono riuscite ad impedirlo. A family mette al centro proprio loro, in un viaggio in giro per la Francia in cui Christine cerca risposte. Lo fa portandosi dietro una macchina da presa che diventa un’arma con una doppia funzione, quella di testimone e di difensore.

Il film apre con una scena in cui, arrivando a Strasburgo per presentare il suo libro, entra a forza in casa della sua matrigna con la direttrice della fotografia Caroline Champetier. Poi si vede la casa in cui ha vissuto suo padre, morto dopo essersi ammalato di Alzheimer, quindi arrivano gli incontri con la madre e l’ex marito. Angot ha bisogno di sentirsi dire dai membri della sua famiglia allargata, che avrebbero dovuto proteggerla, perché non ci sono stati. Con il risultato scontato, nel caso di chi ha subito un abuso, di trasferire lo stesso shock e congelamento nelle persone che incontra, essendo lei stessa in quello stato. Sullo schermo si vede quindi il rifiuto da parte degli interpellati ad andare in profondità nell’analisi dell’accaduto, l’unica che riesce da esprimersi attraverso la rabbia è la figlia, Leonore. È lei che trova le parole per rompere il senso di solitudine e di isolamento della madre, fino a quel momento trasferiti anche sullo spettatore.

Abbiamo incontrato la regista a Berlino, poche ore dopo la proiezione in anteprima mondiale di A family.  

Ha incontrato suo padre per la prima volta a 13 anni, perché? «Quando sono nata, le coppie non sposate quasi non esistevano. Sono cresciuta da sola, con mia madre, che all’epoca era incinta e senza un marito, una vergogna, soprattutto nella provincia francese. Ma la mia nascita non è stata accidentale, i miei hanno deciso di avermi. Mia madre è ebrea e aveva un senso di superiorità data dal fatto di parlare molte lingue. Lavorava in un ufficio, ed era ebrea, e i miei si amavano».

E volevano un figlio. «Ma lui (il padre, ndr) ha sempre detto che non si sarebbe mai sposato, e all’epoca sposarsi era l’unica cosa da fare quando incontravi qualcuno. Così ha detto che avrebbe voluto fortemente un figlio da lei ma che non l’avrebbe sposata, infatti se n’è andato. Queste persone hanno idee molto chiare, sempre».

Quindi è cresciuta senza un padre? «Ero l’unica nella mia scuola, ma ho amato molto mia madre ed ero una bambina molto felice, studiavo ed ero piena di vita. Il mio nome era Christine Shwartz e sul mio certificato di famiglia non avevo un padre. Per la sua rispettabilità mia madre avrebbe voluto che mio padre mi riconoscesse, e quando la legge è cambiata ed è diventato possibile riconoscere un figlio anche dopo molto tempo, ha chiesto a mio padre di farlo. Si sono incontrati e in quel contesto lei ha organizzato il mio viaggio a Strasburgo per incontrarlo».

Non una buona idea… «All’epoca ero molto appassionata di lingue straniere. Quando ho iniziato a scrivere questa passione è svanita, e ho capito che la mia passione per le lingue era in realtà passione per “la” lingua».

Quando ha incontrato suo padre per la prima volta, si ricorda in che stato era? «Di grande ammirazione, avevo molte domande da fargli, sulle lingue, sugli accenti, su come avrebbe pronunciato questa e quell’altra parola… Credo che attraverso quel punto, la mia folle ammirazione per le lingue, lui ha potuto approfittare di me».

Prima di girare A family ha fatto terapia o ha usato il film come cura? «Nessuno può essere guarito girando un film, non credo. E credo più nella psicanalisi che nella terapia, l’ho iniziata quando la mia vita è diventata impossibile».

Quando? «A 23 anni non ero più in grado di vivere. Non potevo studiare, non riuscivo a mangiare né ad andare a fare la spesa, si è fermato tutto. Dopo aver provato tutto, persino l’agopuntura, ho deciso di rivolgermi a uno psicanalista».

Parlare con sua madre era impensabile? «Con quali parole? Avrei voluto farlo, ma non ho trovato né le parole giuste né il momento giusto. Non si formavano le frasi nella mia bocca».

Il film mostra momenti di violenza verbale negli incontri con i media di anni fa. Oggi il contesto del #metoo ha cambiato l’atmosfera? «C’è una diversa situazione globale, certo. Ma ho scritto Un voyage dans l’Est perché ho capito che quando vivi un’esperienza come l’incesto, l’umiliazione è il modo di trattarti, anno dopo anno. E quando scrivi romanzi, ogni volta che potranno ti umilieranno».

Ridicolizzare è un’altra strategia sociale? « C’è la società, è vero, ma c’è anche un crimine. Non ne avevo mai parlato, non volevo, l’ho rifiutato, volevo parlare della vergogna del primo giorno in cui incontri tuo padre e lui ti bacia sulla bocca. E il giorno dopo, quando non puoi raccontarlo a tua madre, e ti vergogni, come ti vergogni quando torni e dici alla tua migliore amica che tuo padre è così speciale e parla così tante lingue…».

Quella vergogna la abita tutt’oggi? «Quando ho iniziato a scrivere il libro, e poi ho chiesto a Caroline di prendere una videocamera e venire con me, la vergogna non c’era più. Dopo otto libri, ho usato un titolo come  L’incesto, ma non c’era ancora quello che era davvero successo: è stato con  Un voyage dans l’Est che è uscito veramente tutto».

In Francia quando si parla di abuso di donne sembra esserci  una sorta di negazionismo, penso alla lettera di Carla Bruni, Carol Bouquet e altre donne in difesa di Gerard Depardieu, e a quella di Catherine Deneuve e di Catherine Breillat che cercavano di reagire allo stile radicale con cui l’America ha impostato il #metoo. «Abbiamo una brutta tradizione nel firmare lettere, noi francesi».  

Jean-Paul Sartre negli anni Settanta ne firmò una con cui si schierava a favore dei rapporti consenzienti fra adulti e minori di 15 anni…  «Sembra una tradizione, forse in Francia c’è questa idea di dover dire quello che si pensa, di dover spiegare… E forse temi come amore e sesso beneficerebbero di una certa extraterritorialità, per trovare una visione lucida».

Quando dice “mi dispiace per quello che ti è successo”, sua figlia diventa la chiave di volta del film. Erano le parole che aspettava da tempo? «Quando Lenore ha detto quella frase eravamo a Nizza. Subito dopo sono tornata a Parigi per il montaggio, e per me è stato ovvio che sarebbe stata quella fine del film. Lei ha gettato una luce su tutto, un evento in cui non speravo più».

È stata come una guarigione attraverso le parole, a lei così care? «Non avevo aspettative sul fatto che qualcuno potesse dire una frase così semplice, così diversa dal “ti compatisco…” che la potrebbe dire una gran dama e che denota un senso di superiorità. “Mi spiace per te” denota il fatto di aver capito che fare un’esperienza come quella che ho fatto io è davvero molto triste. E questo è il cuore della faccenda».

Intervista Sette Corriere della Sera pubblicata il 20 Febbraio 2024

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Marta Donà, “Perchè amo stare dietro le quinte”

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È la manager dello spettacolo che sta avendo più successo, basta vedere alla voce Sanremo, dove ha portato sul gradino più alto del podio prima Mengoni poi i Maneskin, fino all’ultima vittoria di Angelina Mango. È una delle donne che ho intervistato per il libro Incontri con donne straordinarie (Il sole 24 Ore) e alla presentazione di Milano curata da Il sole 24 ore ha raccontato, fra le varie cose, cosa le piace del suo lavoro dietro le quinte con artisti come Marco Mengoni, Francesca Michielin, Alessandro Cattelan, Antonio Dikele Distefano.

Nel video la presentazione del libro insieme all’autrice Cristiana Allievi, modera la serata il giornalista e scrittore Enzo Gentile.

Juliette Binoche: «Sul set ho ritrovato il mio ex compagno. Ho capito che l’amore resta»

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L’attrice francese sarà una cuoca dell’800 nel film con Benoît Magimel, padre di sua figlia. E da mercoledì è Coco Chanel in televisione. «Due donne che mi piacciono: hanno bisogno di libertà e di eccellere in ciò che fanno»

di Cristiana Allievi

Juliette Binoche e Benoit Magimel in Il gusto delle cose, al cinema dalla primavera 2024.

Qualcuno potrebbe dire che gli ottimisti contemporanei sono naive. Ma c’è una categoria speciale, che Antonio Gramsci ha definito “ottimisti per volontà”, a questa appartiene Juliette Binoche. Riesce a irradiare luce anche in un pomeriggio parigino dal colore plumbeo, con la colonnina di mercurio scivolata sotto lo zero. Ed è difficile credere che il prossimo 9 marzo compirà 60 anni, non si direbbe nemmeno da vicino. «Ogni domenica vado al mercato biologico, un rito che si ripete da dal 1991», racconta quasi a rispondere a questo pensiero inespresso. «Da quando ho avuto i miei figli ho voluto che mangiassero cibo fresco e organico. Andavo a cercarlo ovunque, a Parigi e dove ci portavano i nostri viaggi, e non è sempre facile trovarlo». Il motivo del nostro incontro è il film Il gusto delle cose di Tran Anh Hung, in Concorso all’ultimo festival di Cannes e al cinema in primavera. Siamo alla fine dell’Ottocento, Binoche è Eugenie e cucina da vent’anni per il gourmet Dodin Bouffant (Benoit Magimel). La loro collaborazione si è trasformata in amore, ma Eugenie ama la libertà e il proprio lavoro, e non ha mai voluto sposarsi. Caratteristiche, le sue, che rimandano a un’altra donna forte e indipendente che interpreterà dal 14 febbraio in The New Look (Apple tv) di Todd A. Kessler, una delle serie più attese della prossima stagione. Racconta l’ascesa di Christian Dior che metterà in crisi il regno creato da Coco Chanel (Binoche) in coincidenza con l’occupazione nazista di Parigi  durante la Seconda guerra mondiale. Eugenie e Coco sono due donne agli antipodi, la prima è spesso ai

fornelli e veste un look morbido, colorato e romantico, mentre la seconda è decorata da cascate di perle e indossa solo il rigoroso bianco e nero. Non bastassero queste oscillazioni, durante la conversazione scopro che l’icona di Krzysztof Kieślowski si sta misurando anche a un altro livello: è passata infatti dietro la macchina da presa, e a breve esordirà come regista di un cortometraggio.

Iniziamo da The New Look: l’aspetto più importante intorno a cui ha costruito la sua performance? «Coco è una donna molto appassionata e dopo 15 anni di assenza torna alla moda per imporre la sua visione creativa. Lo fa per salvare la couture francese che secondo lei Dior ha rovinato. Questo confronto implica anche i diversi background,  perché Chanel viene da una famiglia molto povera, mentre Dior è cresciuto in un conteso borghese».

Il “nuovo look” a cui allude il titolo è quello che Coco trova detestabile.  «Trova “illogiche” quelle cinture in vita, i reggiseni imbottiti, le gonne pesanti e le giacche rigide».

Ci sono somiglianze fra Coco e la Eugenie di Il gusto delle cose? «Almeno due, l’eccellere in quello che fanno e il bisogno di libertà,  il non volersi sposare e restare imbrigliate in ruoli morali sociali. In realtà non è del tutto così, è più complesso. Chanel avrebbe voluto sposarsi con Boy Capel, ma lui le ha preferito un’aristocratica, fatto che l’ha ferita profondamente. Quando poi stava per sposarsi con Paul Iribe, prima della Seconda guerra mondiale, è morto d’infarto davanti ai suoi occhi, mentre Capel ha poi perso la vita in un incidente stradale».

(…continua)

Intervista integrale pubblicata su Sette Corriere della Sera – 9 febbraio 2024

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Maria Sole Tognazzi, «Dieci minuti per cambiare»

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E se da domani facessimo una cosa nuova al giorno, anche solo per pochissimo tempo? Parte da qui l’ultimo film della regista, che parla di donne in cammino, pesi di cui alleggerirsi. E (un po’) della sua famiglia

di Cristiana Allievi

Intervista pubblicata su Donna Moderna dell’1 Febbraio

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