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~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi della categoria: Musica

Valentina Signorelli, Intervista alla regista di Mamma, That’s all right

16 martedì Dic 2025

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura, giornalismo, Miti, Musica, Personaggi

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7 Corriere della sera, interviste illuminanti, Mamma, Memphis, Nashville, sogno americano, That's All Right, Valentina Signorelli

di Cristiana Allievi

Intervista pubblicata su 7 Corriere della Sera del 28/11/2025

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’amore per Matera del regista Atom Egoyan: «Grazie a Pasolini ho scoperto questo luogo di magia»

29 venerdì Nov 2024

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura, Musica, Teatro

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7 Corriere della sera, Atom Egoyan, Cristiana Allievi, Il dolce Domani, incesto, interviste illuminanti, Matera, MAtera Film Festival, Pasolini, Pirandello, Salomè

L’autore de Il dolce domani e del recentissimo Seven Veils sulla figura di Salomè ha da poco guidato la giuria del cinefestival nella città dei Sassi. E si è raccontato durante una passeggiata esclusiva con 7

di Cristiana Allievi

Il regista e sceneggiatore Atom Egoyan, armeno naturalizzato canadese, 64 anni,
durante una passeggiata esclusiva con 7 Corriere della Sera fra i Sassi di Matera (foto Gor Monton).

«La musica è stata una delle mie ossessioni, in un certo senso lo è ancora. È come un calmante, quando suono amo la fisicità del gesto e il fatto di avere il controllo totale di quello che faccio. L’esito è immediato, quando il mio dito colpisce la corda, il suono è puro e diretto e per ottenerlo non devo spiegare niente a nessuno». Racconta una grande passione e allo stesso tempo, in una frase, Atom Egoyan riassume l’estrema fatica del dirigere, mentre mi mostra polpastrelli che ricordano anche la sua formazione di chitarrista classico. Le sue parole descrivono quello sforzo addizionale che occorre per far capire agli attori cos’ha nella mente e per cercare di vederlo concretizzarsi. 64 anni, il regista armeno naturalizzato canadese è stato da poco presidente di giuria della quinta edizione del Matera film Festival, dove ha ricordato Alberto Moravia e il debito che sente di avere con lui. «Quando avevo solo 28 anni e avevo girato il mio secondo film, Black Comedy, Moravia mi ha menzionato in un articolo aprendo la strada alla regia dei miei successivi quattro film nel vostro paese». L’autore di Il dolce domani (candidato all’Oscar  per la miglior regia e sceneggiatura), Exotica, Ararat e The captive-Scomparsa, si è affermato agli inizi degli anni Novanta ed è diventato un riferimento in tutto il mondo per cinema, teatro e opera. A Matera ha presentato in anteprima nazionale Seven Veils, che racchiude tutti i suoi mondi.  La protagonista Amanda Seyfried è una regista teatrale alle prese con l’allestimento di Salomé, dall’opera originale di Richard Strauss basata sul testo di Oscar Wilde. Rimontando l’opera per espresso desiderio del suo regista in un testamento, la donna si trova a rivivere un trauma familiare che credeva di aver sepolto nel passato. Durante una passeggiata esclusiva con 7 fra i Sassi di Matera, in una mattina fresca e soleggiata Egoyan si lascia andare a riflessioni su fede, sguardo maschile, padri e madri e sulla necessità di osservare le cose in un modo nuovo.

(continua…)

Intervista esclusiva per 7 Corriere della Sera

© Riproduzione riservata

Daniel Auteuil: «Cinema, figlie e Rock’n’roll

16 lunedì Set 2024

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, Cannes, cinema, Cultura, Miti, Musica

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attore, Bim distribuzione, cantante, cinea, cinema, cinema francese, Cristiana Allievi, Daniel Auteuil, Donna Moderna, interviste illuminanti, LA misura del dubbio, regista, rock and roll

IN LA MISURA DEL DUBBIO È PROTAGONISTA, REGISTA E PER LA PRIMA VOLTA, SCENEGGIATORE. UNA SFIDA CHE HA PARECCHIO A CHE FARE DON LA SUA FAMIGLIA E CON UNA NUOVA CARRIERA NELLA MUSICA

di Cristiana Allievi

Intervista pubblicata su Donna Modera del 12 Settembre 2024

@Riproduzione Riservata

Marta Donà, “Perchè amo stare dietro le quinte”

16 venerdì Feb 2024

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Enzo Gentile, giornalismo, Il sole 24 Ore, imprenditrici, Incontri con donne straordinarie, interviste illuminanti, Marta Donà, Sanremo, scrittrici

È la manager dello spettacolo che sta avendo più successo, basta vedere alla voce Sanremo, dove ha portato sul gradino più alto del podio prima Mengoni poi i Maneskin, fino all’ultima vittoria di Angelina Mango. È una delle donne che ho intervistato per il libro Incontri con donne straordinarie (Il sole 24 Ore) e alla presentazione di Milano curata da Il sole 24 ore ha raccontato, fra le varie cose, cosa le piace del suo lavoro dietro le quinte con artisti come Marco Mengoni, Francesca Michielin, Alessandro Cattelan, Antonio Dikele Distefano.

Nel video la presentazione del libro insieme all’autrice Cristiana Allievi, modera la serata il giornalista e scrittore Enzo Gentile.

LYNN GOLDSMITH «Fotografai Springsteen e subito mi innamorai. L’ho reso così sexy…»

18 sabato Nov 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Fotografia, giornalismo, Miti, Musica, Personaggi

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amore, Beatles, Bruce Springsteem, Corriere della Sera, E Street Band, interviste illuminanti, Lynn Goldsmith, Lynn Goldsmith. Bruce Springsteen & The E Street Band, Musica, rock and roll, Sette, Taschen, Will Powers

L’artista americana conobbe il cantautore nel 1972 e lo aiutò a “costruire” la sua immagine. «Assomigliava a tutti i ragazzi he avevo avuto dal liceo in poi, ma io volevo essere sicura di aumentare i suoi fans, cercavo le donne fra il pubblico e gliele mettevo al fianco».

Il primo scatto è stato ai piedi dei Beatles. Era il 1964, lei aveva solo 16 ani e non glielo hanno mai pagato. «Non mi piacevano, per questo li ho fotografati solo a metà. Allora si doveva scegliere, o eri dalla parte dei Rolling Stone o dei Beatles». All’epoca, però, era inimmaginabile che sarre potuta diventare ciò che è diventata, a fotografa che avrebbe immortalato divinità come Michael Jackson, Madonna,  Prince, Sting, i B 52s, Blondie, i Rolling Stones- in pratica tutte le leggende degli ultimi 30 anni. Prima, infatti, era una manager musicale, una regista di corti e documentari e una pubblicitaria. Negli anni Ottanta ha avuto anche successo come cantante, con il nome di Will Powers. «Non sono come Anne Leibovitz, che voleva diventare una fotografa ed è andata a scuola ad imparare», racconta dalla casa di Nashville, suo quartier generale. «Oggi pensano tutti che la mia carriera principale sia quella di fotografa, la verità è che sono una pittrice». Lynn Goldsmith è immersa nella luce e buca lo schermo del computer con i suoi occhi color cristallo e i capelli d’argento. 75 anni, di cui 50 di carriera, ha l’energia di un’adolescente, come si addice a un’icona della fotografia rock’n’roll. Goldsmith ha anche vinto una causa alla Corte suprema degli Stati uniti contro la fondazione Andy Warhol, salvando il futuro del concetto stesso di diritto d’autore. Con quella forza interiore, c’è da scommettere sul fatto che abbia anche avuto un peso determinante nell’azzeccare l’immagine di Bruce Springsteen agli inizi della carriera, quando ne è diventata anche la fidanzata. Ricordi che riemergono guardando gli scatti di Lynn Goldsmith. Bruce Springsteen & The E Street Band, edizione limitata a 1778 copie da lei firmate e numerate, pubblicato da pochi giorni per Taschen (364 pagine, 600 euro, ordinabile nel sito  taschen.com). È il 1977, dopo un singolo Springsteen e la E street band entrano in studio per registrare l’album che, con il successivo tour, avrebbe trasformato un “ragazzo del New Jersey” in una leggenda.

La prima volta che ha incontrato Bruce, se la ricorda? «Ne 1972 la rivista Rolling Stone mi aveva incaricata di illustrare un articolo intitolato Iscriviti a un mese geniale. Bruce si esibiva al The Bitter end di New York, un club minuscolo. Io ero sola con un flash di cui non avevo ancora fatto esperienza, mi sentivo nervosa, anche perché chiamavano questo tipo “un genio”».

Insomma, era spaventata. «Mi sono detta “si accorgerà che non so cosa sto facendo…”. Cinque anni dopo mi ha confessato che era nella stessa situazione, perché io ero “una fotografa di Rolling Stone che andava a fotografarlo…”».

C’è un docu, The promise: the Making of Darkness and the Edge of town, che mostra come lavorava Springsteen: registrava molti più brani più di quelli che entravano nel disco, sfiniva i musicisti facendoli lavorare all’infinito. È arrivato addirittura a mettere la batteria in un ascensore, perché suonasse come voleva lui. Era così cocciuto anche con lei? «Direi di sì, i grandi sono così, sentono ciò che vogliono nella loro testa poi cercano un modo per riprodurlo».

Sul set fotografico riusciva a dirigerlo lei? «Sono io quella dietro la macchina fotografica, chi lavora con me mi ha sempre chiamata the boss! Di solito intervengo solo quando qualcosa proprio non funziona, altrimenti se un artista ha una chiara idea visiva di se stesso, come Patti Smith o Frank Zappa, sono più libera».

Il libro mostra foto di Bruce in giacca e foto in canotta, quale delle due anime è prevalente? «Guardavamo tonnellate di foto del Bob Dylan agli inizi, perché negli anni Sessanta era lui il tipo cool. La giacca con il colletto e quella specie di linguetta che Bruce indossava nel primo tour veniva da lì. Ma è italiano, indossava anche le t-shirts, e io volevo essere sicura che il suo pubblico non fosse solo un gruppo di ragazzi: volevo che fosse sexy».

Cosa ha fatto per tirare fuori il lato sexy? «Proprio agli inizi, quando lo seguivano solo ragazzi, cercavo donne fra il pubblico per circondarlo e fargli le foto. Mandavo avanti gli uomini della sicurezza, non ha sapeva che fossi io a fare certe manovre».

Nel libro si menziona un concerto in cui c’erano solo tre persone in sala: quale fu la reazione del Boss? «Non fece una piega, stava costruendo il suo pubblico, aveva bisogno di esibirsi. Era lo stesso con davanti una persona o centomila, all’epoca salire sul palco era una specie di droga, la sua eroina».

Incontrare Springsteen le ha cambiato la vita? «Ho sempre pensato di essere fantastica e che le persone volessero stare con me perché apprezzavano il mio talento. Non mi passava per la testa che tutti, inclusi i manager, erano miei amici solo avvicinare lui. Mi dicevo, “tu sei molto più interessante, ti sei laureata in tre anni con la lode, cos’ha lui più di te”?».

Cosa, visto che era definito un genio? «È un bravo scrittore che prima di incontrarmi non aveva mai letto Franny and Zooey di J. D. Sallinger,  o Fiesta di Hemingway, cose impensabili per un americano. Ma era molto esperto di film, le sue canzone erano scritte come sceneggiature.

Tutti volevano essere Bob Dylan, anche Bruce? «Voleva essere anche di più, e mentre Dylan era inaccessibile, lui era “l’uomo di tutti gli uomini”. Era una persona che  combatte per essere onesta nel suo lavoro, un uomo in cui molti si riconoscevano».

Si è innamorata di lui? «Senza dubbio, poi c’è da chiedersi cosa significhi, quando si è giovani. Fisicamente assomiglia a tutti i ragazzi che ho avuto dal liceo in avanti, stessa altezza, magro con capelli scuri.

A livello caratteriale? «Ho sempre avuto un’attrazione per le persone che non condividono molto di sè con il resto del mondo, Bruce non capitava a caso».

Un terzo libro su Springsteen si pubblica per soldi? «Nemmeno per sogno,  non so nemmeno quanto costa. L’ho voluto perché credo che i fans meritino qualcosa di valore, e l’editore è di altissimo livello. Per i fans i loro idoli sono veri e propri riferimenti, li ho sempre ammirati per questo motivo:  assegnano valori eroici a degli esseri umani, e credono davvero di essere elevati da loro».

A lei non è mai successo? «Le uniche persone che mi hanno fatto questo effetto sono Madre Teresa e Gesù Cristo, o guardare le immagini del deserto di Georgia O’Keeffe. Per intenderci, Brad Pitt o Bob Dylan non mi fanno quell’effetto».

Sta dicendo che dopo 50 anni che le immortala non comprende il fenomeno che ruota intorno alle rockstar? «Lo comprendo molto bene, semplicemente non ho mai provato per loro l’amore incondizionato, perché sono completamente certa che sono esseri umani».

La cosa più romantica che ricorda, con il Boss? «Un paio di foto nel bagno della sua casa in cui sono avvolta nel suo abbraccio, mentre faccio la foto».

Ha scelto lei la vostra foto insieme, all’inizio del libro? «Non era prevista. Ho mandato un pdf a Bruce, chiedendogli di segnalarmi qualsiasi cosa non gli piacesse. Gli ho anche chiesto  di scrivere qualcosa sui membri della E Street band. Mi ha risposto chiedendomi di spedirgli tutte le foto di noi due…».

Lei? «Non ero d’accordo, ma ha insistito. Ha scelto lui le nostre foto, e mi ha spedito le bellissime parole dell’introduzione».

L’ha resa felice? «Ha aperto la porta perché le persone mi facessero un mucchio di domande a cui non rispondo (ride, ndr)».

Per esempio perché vi siete lasciati? «Per esempio. Una domanda a cui non risponderò, nemmeno questa volta».

Intervista pubblicata su Sette Corriere della Sera del 17.11.2023

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Caleb Landry Jones, «Sono io l’uomo impossibile».

27 mercoledì Set 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Musica

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Caleb Landry Jones, cinema, interviste illuminanti, Jim Jarmush, Luc Besson, Musica, Vanity Fair

Per il suo ultimo film, Luc Besson temeva di non trovare l’attore giusto, ma a CALEB LANDRY JONES perconquistarloè bastato uno sguardo. In Dogman interpreta un ruolo complicato, come del resto è stata la sua vita da bambino. Difficile? Affatto, perché, dice, «è il dolore che ci accomuna»

di Cristiana Allievi

L’attore e musicista americano Caleb Landry Jones (foto courtesy PHILIPPE QUAISSE per Vanity Fair)

Ha occhi incredibilmente tranquilli. I capelli sono arruffati, li porta spesso indietro con la mano, il gesto di un ex bambino affetto da un disturbo ossessivo compulsivo che da adulto cerca (ancora) di fare ordine. Cresciuto in Texas in una fattoria, i suoi genitori – un imprenditore edile e un’insegnante – lo hanno incoraggiato a trovare una via espressiva per quelle emozioni che tendevano a restare incastrate dentro, producendo un senso di allarme che era il motore dei suoi incubi. Così Caleb Landry Jones disegnava su tutti i pavimenti di casa e poi si rifugiava in Barney, una serie tv per l’infanzia molto nota negli Usa. Il protagonista era un tirannosauro viola che sorrideva e cantava spesso. «Avrei fatto di tutto per andare a vivere nel suo mondo in cui il dolore sembrava non esistere davvero», ricorda. La madre, discendente di una dinastia di violinisti, lo aveva iscritto a danza classica e tip tap, poi lo aveva portato alla prima audizione. A 16 anni è apparso nella penultima scena di Non è un paese per vecchi. Da allora ha preso parte a 30 film per cui ha meritato premi importante come quello di miglior attore all’ultimo Cannes, per Nitram di Justin Kurzel. All’ottantesima Mostra di Venezia ha sfiorato la Coppa Volpi con Dogman di Luc Besson.

È lì che incontro Caleb, in un bellissimo hotel liberty. Ha una sigaretta arrotolata fra le dita e a differenza del suo Douglas non indossa guanti di velluto che si arrampicano lungo le braccia costellate di lentiggini.

Ispirata a un articolo di giornale che raccontava di un bambino di cinque anni tenuto chiuso in gabbia dal padre, la storia nera di Dogman è servita al regista francese per esplorare che cosa succede nella mente di chi cresce in quel modo, e scoprire come gestisce il dolore.

Dogman inizia con la frase di Alphonse de Lamartine “quando un uomo è in pericolo, Dio gli manda un cane”. A Douglas ne manda un centinaio. «Quello che interpreto è un ragazzo diverso, che viene accettato e accolto solo dai diversi, da coloro che soffrono. Le persone “normali” o lo respingono o lo usano».

Ha quasi sempre interpretato disperati e situazioni folli, le predilige? «Non le percepisco come folli, l’unica follia che avverto è la fatica di trovare un modo per rappresentarle (ride, ndr). Non sapendo da dove cominciare, osservo che le cose che a molti paiono strane a me non sembrano tali. Douglas non è affatto folle, lo è tutto ciò che lo circonda».

Ha travasato in lui tutto il dolore che conosce? «Quando creo qualcosa quello che emerge non è facilmente identificabile e non lo analizzo, lascio che sia il subconscio a lavorare l’amalgama di avvenimenti ed emozioni anche molto distanti nel tempo. Ma tutti conosciamo la perdita, sappiamo cos’è un cuore spezzato da un lutto, il dolore è qualcosa che condividiamo e di cui parliamo molto più di quanto non menzioniamo la gioia. Douglas cristallizza il dolore di tutti ed è completamente innocente, non ha fatto male a nessuno».

Ricorda cosa vi siete detti lei e Luc Besson al primo incontro?

«La sua più grande paura era quella di non incontrare l’attore giusto, caso in cui mi ha detto che avrebbe rinunciato al film».

(continua…)

L’intervista integrale è su Vanity Fair del 4 Ottobre 2023

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Cate Blanchett, «La vita non è la solita sinfonia».

09 giovedì Feb 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Musica, Oscar

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BErliner Philarmoniker, Cate Blanchett, Claudio Abbado, interviste illuminanti, Nina Hoss, Noemie Merlant, Todd Fields

di Cristiana Allievi

Todd Field’s TÁR will have its world premiere at the Venice International Film Festival. Cate Blanchett stars as Lydia Tár in director Todd Field’s TÁR, a Focus Features release. Credit: Florian Hoffmeister / Focus Features- Courtesy Universal

Lydia Tar è la direttrice di una delle più grandi orchestre sinfoniche tedesche e sta preparando l’esecuzione  della difficilissima Quinta sinfonia di Mahler.

Comincia così Tar, presentato in Concorso all’ultima Mostra di Venezia e nelle sale dal 9 febbraio, con un’intervista con il (vero) giornalista Adam Gopnik, mentre Lydia è all’apice della sua carriera e sta per presentare la sua autobiografia.

Innovativo a partire dalla sceneggiatura del regista Todd Fields, che ha impiegato anni in questo lavoro al cui centro c’è un’immensa Cate Blanchett nei panni di Lydia Tar, sostenuta da due ottime coprotagoniste: Nina Hoss, sua compagna nel film, e Nomie Merlant, sua assistente personale.  Donne diversamente innamorate di Lydia, intorno a cui si crea un triangolo di alta tensione.

La novità del film è che Blanchett non occupa solo un posto di potere, ma un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini: il podio di un’orchestra sinfonica (e non una qualsiasi, alludendo il film ai Berliner Philarmoniker). Vediamo solo tre settimane della sua vita, ma capiamo che vuole ottenere molto, con lo stress psicofisico che comporta arrivare in cima alla vetta.

Lo spiega Blanchett stessa, dentro un abito che ha lo stesso colore azzurro ghiaccio dei suoi occhi. «Lydia è sull’Olimpo, da artista è arrivata. Come essere umano, invece, sa che dopo la vetta c’è solo la discesa, e affrontarla richiede molto coraggio. Sicuramente c’è qualcosa che la tormenta, un passato, una persona, è stato affascinante lavorare su questo aspetto».

Tar è un film sulla trasformazione, su quel  qualcosa che succede e che ci fa vivere cose che non avremmo mai pensato di vedere o di sentire.

«Un aspetto fondamentale in qualsiasi rapporto creativo è la fiducia», continua la due volte premio Oscar Blanchett, che per il ruolo ha studiato la presenza e i gesti di Claudio Abbado, Carlos Kleiber, Emmanuelle Haim. «Credo che Lydia sia stata oggetto di bullismo, la fiducia per lei è un tema difficile, come il perdono. Dalla prima sillaba della sceneggiatura ho capito che era molto complessa. Il  personaggio si evolve e cambia, ma quello che non cambia è che si tratta di una persona che non conosce se stessa. E non è necessario essere la direttrice della più grande orchestra del mondo per sperimentare queste contraddizioni».

Nina Hoss è stata spesso definita “la Cate Blanchett tedesca”. Il regista aveva visto il suo lavoro come violinista in The Audition, di Ina Weisse. «Non vengo dal mondo della musica, ma sono in grado di suonare il pianoforte, e ho studiato violino, questo mi ha aiutata. Abbiamo lavorato con la filarmonica di Dresda, sono stati molto aperti e ci hanno aiutate. È stato un processo di assorbimento molto speciale».

Noemie Merlant è un’attrice e regista molto quotata in Francia, e non solo.

«Non conoscevo questo mondo un po’ folle e molto maschile. È stata un’esperienza forte, essendo tutte donne. Francesca, il mio personaggio, vuole diventare come Lydia, ma per ora fa altro. Quindi rappresento tutti gli aspetti di chi ama la musica senza aver mai toccato uno strumento. Ho cercato di rappresentare lo sguardo di questa donna che è nell’ombra ed è paziente. Non si capisce se sia un’eroina o la cattiva della situazione, perché controlla Lydia. Da attori noi stessi siamo strumenti, io osservavo Cate mentre creava Lydia davanti a me. La guardavo trasformarsi, e allo stesso tempo anche Francesca osservava Lydia, nel film».

Cate Blanchett aveva già interpretato una storia d’amore al femminile, in Carol. Ma oggi il mondo Lgbt è molto più al centro dell’attenzione di allora, soprattutto in Usa. «Prima di Carol non c’erano film di quel tipo. La donna o si uccideva o veniva redenta dall’amore di un uomo. Mentre giravamo era semplicemente qualcosa che era diventato necessario. Passato al pubblico, è diventato esplosivo».

Però secondo Blanchett l’arte  non è uno strumento educativo. «Le persone possono essere ispirate, o offese, questo va al di là del controllo di chi crea un’opera. Come specie umana siamo abbastanza maturi da guardare Tar senza  fare del sesso e del genere l’aspetto più importante. Solo quando abbiamo iniziato a fare le conferenze stampa ci siamo accorte di essere un cast per la quasi totalità femminile. Todd Haynes ci ha detto “di fatto non esiste un’orchestra tedesca guidata da una donna, è un mondo molto patriarcale. Se questo cambiamento succederà, normalizzerà l’arte stessa”. Al momento non avevo riflettuto su questo aspetto».

Ha esperienza diretta delle dinamiche di potere tra maschile e femminile. «Da quando ho iniziato a lavorare io le cose sono cambiate molto. Allora mi dissero “goditi i prossimi cinque anni, poi le cose cambieranno…”. La vita dell’attrice finiva presto. Oggi è importante relazionarci con i nostri fratelli a Hollywood, che possono svolgere insieme a noi un bel lavoro».

Merlant  non crede Tar sia un film femminista. «Piuttosto il suo intento è far nascere domande sulle dinamiche di potere, e su come sia trovarsi in una posizione così alta della propria carriera in cui devi lottare molto di più, in quanto donna. Inoltre vediamo cosa succede nel momento in cui  il sogno diventa realtà, dirigere Mahler, e occorre vedersela con il processo della creazione, che può arrivare a divorarti. Lo trovo un modo di condurre alla riflessione molto arguto».

Nina Hoss allarga ancora di più lo sguardo. «Questa visione di una donna al potere non permette di correre così velocemente a trarre conclusioni, come faresti se fosse un uomo, perché crediamo di sapere già tutto. Qui occorre più tempo per giudicare. Una donna arriva al vertice essendo un’artista favolosa: cosa la rende all’improvviso una persona diversa? Cosa le succede, e cosa succede al mondo che la circonda, che la spinge in una certa direzione?».

La coppia lesbica al centro, inoltre, non è un problema per la società che la circonda. «Questo è davvero un modo nuovo di porre la questione, significa che il mondo è cambiato. Mentre nel mondo che Lydia affronta fuori, c’è ancora molto da fare».

Di solito Nina Hoss ha un ruolo da protagonista. Se si chiede perché abbia accettato un ruolo più marginale risponde: «Qui è diverso, ma ho accettato perché la protagonista era Cate. Il mio personaggio, Sharon, non è solo una donna innocente e gelosa: ama Lydia per il genio che è, e gode anche del potere che una coppia simile ha in quel mondo. Quindi sa come manipolare, sa di essere la roccia per lei e conosce le insicurezze della sua compagna. Ho cercato di rendere queste sottigliezze. Per il resto ho suonato davvero, nel film. Il mio è un lavoro in cui ti senti davvero un’impostora. Trascorrendo settimane in una vera orchestra, come minimo dovevo avere rispetto di quei professionisti, conoscere i pezzi, sapere cosa stavo facendo. Questo percorso ha creato una dinamica molto nuova: abbiamo ricreato  la musica di Mahler, e ci è voluto molto lavoro. Ma credo che lo spettatore se ne accorgerà».

Articolo pubblicato su Panorama del 25 gennaio 2023

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Paolo Fresu, la passione indomita del raccontarsi e di scoprire talenti

21 giovedì Ott 2021

Posted by Cristiana Allievi in arte, giornalismo, Musica, Personaggi

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Il sole 24 Ore, interviste illuminanti, JazzMi, Paolo Fresu, Tango Macondo, Tuk music

di Cristiana Allievi

Il trombettista e flicornista Paolo Fresu ha tre appuntamenti nella rassegna JazzMi, fra il 23 e il 24 ottobre (foto di Fabiana Laurenzi).

Una mostra con sessanta copertine realizzate da illustratori da tutto il mondo. Un film che racconta l’articolata filiera della produzione musicale indipendente. Un concerto che accosta note e prospettive dei nomi più interessanti del panorama musicale nazionale del momento.

Così la rassegna JazzMi rende omaggio a Paolo Fresu e ai 10 anni della sua Tuk Music. Che non è solo una casa discografica ma un marchio di qualità del jazz italiano e internazionale e visione artistica declinata in diversi settori.

(continua…)

Intervista pubblicata su Il Sole 24 Ore

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Francois Ozon: «Negli anni ’80 eravamo più innocenti»

04 venerdì Giu 2021

Posted by Cristiana Allievi in arte, cinema, Cultura, giornalismo, Letteratura, Musica, Personaggi

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Aidan Chambers, Anni Ottanta, Cannes 2021, Estate 85, Everything went fine, Francois Ozon, Il sole 24 Ore, Il tempo delle mele, interviste illuminanti

Il regista in sala con “Estate 85” al prossimo festival di Cannes sarà in Concorso con “Everything went fine”

di Cristiana Allievi

Benjamin Voisin, Félix Lefebvre Estate ’85 (©2020_M…PE PICTURES)

Al prossimo festival di Cannes sarà in Concorso con “Everything went fine”, dal lui scritto e diretto e basato sull’omonimo romanzo di Emmanuèle Bernheim. Mentre aspettiamo di vedere quel racconto di una figlia che si ritrova davanti alla richiesta del padre di aiutarlo a porre fine alla propria vita, oggi esce nelle sale un’altra opera scritta e diretta dal cineasta francese Francois Ozon, “Estate 85”. Quello che avrebbe voluto fosse il suo primo film, e che invece è diventato il diciannovesimo.

Da sempre attento alla sessualità, a 17 anni Ozon si è invaghito del romanzo “Danza sulla mia tomba”, di Aidan Chambers, storia (per molti versi autobiografica) fra due adolescenti dello stesso sesso. Una storia che finisce male, e si capisce dalla prime scene. Siamo negli anni Ottanta in Normandia e Alexis (Félix Lefebvre) fa un giro su una barchetta a vela. Ma scuffia, e viene raccolto in acqua da David (Benjamin Voisin), che lo riporta a terra e non lo lascia più andare. La distanza sociale fra i due è chiara, eppure insieme stanno bene, tanto che Alexis rinuncia alle aspirazioni da scrittore e sceglie di lavorare per l’amico e la di lui madre (Valeria Bruni Tedeschi).

Scoppia una passione incontenibile, finché arriva Kate (Philippine Velge) a sparigliare le carte. La scrittura avrà la funzione di far uscire uno dei due ragazzi da un grosso trauma. Il film è nelle sale da oggi distribuito da Academy two, ed è marcato Cannes 2020.

A raccontare questa immersione nell’amore e negli anni Ottanta è il regista stesso.

(continua…)

L’intervista a Francois Ozon per Il Sole 24 Ore

© Riproduzione riservata

Soko, finalmente consapevole di sorprendere (ancora)

03 mercoledì Feb 2021

Posted by Cristiana Allievi in arte, cinema, Cultura, giornalismo, Musica, Personaggi

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A Good Man, cinema, Cristiana Allievi, D La repubblica, giornalista, interviste illuminanti, Soko, The dancer

di Cristiana Allievi

L’attrice e cantante francese Soko, 30 anni (courtesy http://www.amyharrity.com)

Dall’altra parte del monitor la luce è abbagliante. A Los Angeles una donna si raccoglie i capelli dietro la nuca. Sorride, scherza, ammicca. Nella stanza accanto un bimbo si è appena addormentato, e quando si risveglierà lei esisterà solo per lui e per il loro momento di gioco insieme. Una normale scena famigliare, non fosse che dall’altra parte dell’Oceano c’è Soko, al secolo Stéphanie Sokolinski, l’artista che fino a una manciata di anni fa era nota per due motivi: essere la ex fiamma di Kristen Stewart e la musa di Gucci. Lo scenario, oggi,, sole californiano incluso, è molto cambiato per la polistrumentista, cantautrice e attrice nata a Bordeaux, ma di origini polacche. Si è lasciata alle spalle una vita con la valigia in mano e una serie di relazioni instabili, e ha ceduto al richiamo ancestrale di diventare mamma di  Indigo Blue (“abbiamo scelto il nome dalla canzone dei The Clean”), partorito due anni fa, che sta crescendo con la compagna Stella. “Sono in un relazione con una donna del mio sesso, e ho un bambino, sì, è possibile”, dice con un tono serio ma con un sorriso. Con il suo curriculum esistenziale, era perfetta per A good man, il film diretto da Marie-Castille Mention-Schaar in cui interpreta Aude, una donna che ama Benjamin, un transessuale (interpretato magnificamente da Noémie Merlant, la star di Ritratto di una donna in fiamme) e che non può avere bambini. Sarà proprio Benjamin a sacrificarsi per la coppia,  non avendo ancora completato la transizione a uomo. Basato su una storia vera, il film uscirà nelle sale francesi il 3 marzo (da noi prossimamente) mostra molto non detto sulle conseguenze psicologiche delle scelte della coppia, per esempio quando uno dei due rinuncia alla carriera per stare con l’altro. «Per la maggior parte della mia vita sono stata al posto di Ben, nelle relazioni», racconta. «Ho sempre vissuto correndo e ho preso grandi decisioni di vita dicendo ai miei partner  “io faccio questo, vuoi farne parte?”. Mi hanno seguita sui set, in tour o in qualsiasi cosa avessi già programmato, e lo hanno fatto a costo di grandi sacrifici. Ho sempre voluto lavorare su questo aspetto, riuscendo a far sentire l’altra persona speciale, e soprattutto ascoltata».

Nel 2006 il nome di Soko era balzato alle cronache per aver registrato I’ll Kill Her con un telefonino e avere spopolato su Myspace. E come si conviene a una donna che vive(va) di contrasti, da attrice ha attirato l’attenzione nei panni di una donna dell’Ottocento,  Augustine, la prima paziente “isterica” dalla storia della medicina.  Mentre è stato Io danzerò a regalare la fama internazionale, con la sua straordinaria rappresentazione di Loïe Fuller nel film basato sul romanzo di Giovanni Lista. L’anno dopo quel successo si è rinchiusa a scrivere le proprie storie. Il risultato è stato un terzo disco, Feel Feelings, uscito lo scorso luglio, con un video del singolo Are You a Magician? diretto dall’amica di lunga data Gia Coppola, nipote di Francis Ford. Un disco che celebra l’amore, naturalmente di ogni tipo, e che sembra frutto anche di una nuova consapevolezza. Arriva forte e chiara dai suoi ragionamenti. «Pensa che la maternità mi abbia cambiata?», sdrammatizza.

(continua…)

L’intervista integrale su D la Repubblica, 30/1/2021

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