Pedro Pascal: «La pandemia poteva unirci ma ci ha divisi: ne sono uscito scardinato».
20 lunedì Ott 2025
20 lunedì Ott 2025
16 venerdì Feb 2024
Tag
Enzo Gentile, giornalismo, Il sole 24 Ore, imprenditrici, Incontri con donne straordinarie, interviste illuminanti, Marta Donà, Sanremo, scrittrici
È la manager dello spettacolo che sta avendo più successo, basta vedere alla voce Sanremo, dove ha portato sul gradino più alto del podio prima Mengoni poi i Maneskin, fino all’ultima vittoria di Angelina Mango. È una delle donne che ho intervistato per il libro Incontri con donne straordinarie (Il sole 24 Ore) e alla presentazione di Milano curata da Il sole 24 ore ha raccontato, fra le varie cose, cosa le piace del suo lavoro dietro le quinte con artisti come Marco Mengoni, Francesca Michielin, Alessandro Cattelan, Antonio Dikele Distefano.
Nel video la presentazione del libro insieme all’autrice Cristiana Allievi, modera la serata il giornalista e scrittore Enzo Gentile.
24 martedì Ott 2023
Posted in Senza categoria
Tag
Adagio, Alice Rohrwacher, Bollywood, cinema, cinema indiano, film critic, giornalismo, interviste illuminanti, Jio Mami Mumbai Festival, La chimera, Marco Bellocchio, Mumbai, Rapito, Stefano Sollima
Insieme festeggiano i 20 anni di vita del festival nella capitale del cinema di Bollywood. La direttrice del festival Anupama Chopra: «Il nostro pubblico è molto evoluto, conosce ciò che accade nel resto del mondo e si aspetta di vedere il meglio»
di Cristiana Allievi

Quest’anno l’impronta italiana sarà forte. A festeggiare 20 anni di vita del festival nella capitale del cinema di Bollywood saranno tre grandi come Marco Bellocchio, Alice Rohrwacher e Stefano Sollima, e non solo: a far parte dello staff di selezione sono due noti professionisti del nostro cinema. Tutto per festeggiare un grande ritorno per il Jio Mami Mumbai Festival. All’ultima edizione prima dello stop, nel 2019, la rassegna aveva raggiunto l’apice, riempiendo le sale sparse in venti siti della città. Il pubblico era entusiasta. Così quando si è trattato di pensare a come ripartire, dopo tre anni di stop, i vertici dell’organizzazione si sono chiesti come avrebbero potuto alzare ulteriormente l’asticella.
La risposta arriverà con l’imminente edizione, dal 26 ottobre al 5 novembre, quando il primo festival di cinema indipendente dell’India (il secondo del Paese, se si considera quello ufficiale di Stato fondato 60 anni fa a Goa, l’International film festival of India), aprirà la competizione a tutto il Sud asiatico, creando una grande community di riferimento nel settore. Si vedranno competere quindi registi nepalesi, di Bhutan, Vietnam e Bangladesh, e anche i film dei registi della diaspora provenienti da Germania e Uk, in una Mumbai che si appresta a diventare la prima fucina di coproduzioni intercontinentali del Paese. Lo spiega Anupama Chopra, direttrice del Festival, affiancata da Deepti Dcunha, direttrice artistica.
(continua…)
Pubblicato su Corriere.it
@Riproduzione riservata
01 lunedì Mag 2023
Posted in Attulità, Cultura, giornalismo, Netflix, Personaggi, Teatro
Tag
Alessandra galloni, Andree Ruth Shammah, Cultura, DEborah compagnoni, Elisabetta Sgarbi, Gianna Nannini, giornalismo, Il sole 24 Ore, Inciontri con donne straordinarie, interviste illuminanti, La nave di teseo, libri, Marta Donà, Reuters, talento, Teatro Franco Parenti, Tinny Andreatta, Victoria Cabello
Otto donne legate da un elegante filo rosso. Come eroine resistenti al passare del tempo, sono sostenute da un talento radicale. Il racconto di queste pagine illumina tutti gli aspetti delle loro vite, non risparmia gli abissi e illumina le vette, mettendo in risalto sfaccettature del loro esistere che nemmeno i più fidati collaboratori conoscevano

Quando si pensa a una persona di successo si cade spesso nella trappola di credere che questo successo sia come uno status, un club a cui si appartiene per diritto, e da cui tutti gli altri sono esclusi per destino. I social media stanno contribuendo a sgretolare questa idea, diluendo il potere attrattivo dei “numeri uno”: con i loro interventi virtuali, ogni giorno milioni di persone ci informano di essere altrettanto degne di attenzione, perché hanno incontrato i loro amici del liceo dopo 40 anni (e sì, ci vuole coraggio), hanno iniziato una nuova relazione, hanno finalmente ottenuto la promozione che aspettavano da anni: chi può negare che anche questi siano successi?
Ma quello che si indaga in Incontri con donne straordinarie è qualcosa che ha un’altra natura e proviene da altre realtà. Senza anticipare come le otto eccellenze italiane sono arrivate a certi traguardi, basti sapere che sono state passate al microscopio in quelle che definisco “interviste illuminanti”: ovvero incontri capaci di portare luce su aspetti su cui si tende troppo spesso a sorvolare, perdendo il punto. In questi incontri, e grazie a queste parole, si arriva vicino, molto vicino, alla persona di cui si narra. E anche quando sembra che ci si stia allontanando dal cuore del racconto più personale, in realtà si sta percorrendo un perimetro che permette di mettere ancora più a fuoco la donna che si ha di fronte, di vederla in un contesto allargato che evidenzia ancora meglio la sua specificità, e quindi grandezza. Non a caso Fellini è il nostro regista più amato e imitato al mondo: raccontava storie molto personali e locali, e proprio per questo è ancora incredibilmente universale.
In questo gioco di avvicinamento e allontanamento, il libro definisce sempre meglio una domanda: cos’è, davvero, il successo? E le persone che lo hanno ne sono consapevoli o è solo una proiezione che arriva dall’esterno, dagli altri? Ciò che emerge rende evidente che l’argomento va osservato più attentamente, soprattutto perché secondo l’autrice nasconde una grande potenzialità: quella di scoprire, e vivere, il proprio talento, che con il successo può, o meno, accordarsi.
Questa prospettiva apre uno scenario nuovo, molto più attivo e di presa di responsabilità: vivere il talento, e metterlo a disposizione della società in cui si vive, è un grande lavoro, più o meno consapevole, su se stessi. Richiede, come cantava il grande Battiato, di “emanciparsi dall’incubo delle passioni”, ognuno le proprie. Implica il confrontarsi con idee limitanti, come il senso di “non essere abbastanza”, di non valere, di non essere amati, capiti, sostenuti, approvati dagli altri… Tutte “voci” che, sotto sotto, hanno costruito la nostra idea di chi siamo, e che minano la nostra reale forza. Passioni che anche le otto donne che si incontrano in queste pagine hanno affrontato, e che ciascuna a modo proprio ha in qualche modo superato.
Ecco perché queste donne possono essere d’esempio per molti, come a ricordare qual è il lavoro che non ci si può risparmiare, quando si parla di successo: nessuno può più dormire con la scusa “tanto io non faccio parte del club”. Anche l’invidia, una maledetta passione stimolata dalla contemporaneità, in quest’ottica sta ad indicare che stiamo mancando un punto, ci stiamo tirando indietro su qualcosa: in pratica non stiamo esprimendo il nostro potenziale come potremmo.
Scelgo la parola “club” perché fa venire in mente stanze in cui uomini ben vestiti fumano sigari e stringono affari, avvolti dalla cortina di fumo. Prima del movimento #MeToo il successo era una parola che faceva volare l’immaginazione verso figure maschili e le loro aziende e fatturati, come alle nazioni da guidare, alle strategie di guerre da combattere, ai mercati da conquistare, sempre da parte di maschi. Per fortuna anche questo libro indica un cambiamento di direzione, anche in questo senso. Qui si parla di donne che vengono definite straordinarie. La chiave di questa scelta risiede nella loro visione degli obiettivi e dei traguardi, nel loro modo di affrontare situazioni e sfide della vita. Ciò che emerge dai loro racconti è la loro forza, la forza di essere se stesse, fino in fondo. Come aveva già cercato di farci capire Carl Gustav Jung, introducendo nella psicologia l’idea di “animus” e “anima”, due forze che caratterizzano tutti gli esseri umani a prescindere dall’avere un corpo di donna o di uomo, il tipo di forza di cui parliamo valica i confini di genere.
A unire le otto donne raccontate c’è un elegante filo rosso. Non simboleggia uno sbandierato e chiassoso successo così come viene spesso inteso nel mondo contemporaneo: alcune di loro non hanno né Twitter nè Instagram. A fare di queste donne delle eroine resistenti al passare del tempo è un talento radicale. Il loro è uno sguardo aperto e internazionale sul mondo che, insieme a sentimenti nobili, rimette al centro la cultura, il valore, la lealtà, il sacrificio quotidiano e la coerenza, caratteristiche di un certo modo di intendere il proprio lavoro e di vivere. Il racconto di queste pagine annovera tutti gli aspetti delle loro vite, non risparmia gli abissi e illumina le vette, mettendo in risalto sfaccettature del loro esistere che nemmeno i più fidati collaboratori conoscevano, nonostante anni di frequentazione quotidiana.
Le donne di questo libro, se non ci fossero, bisognerebbe inventarle.
INCONTRI COMN DONNE STRAORDINARIE è disponibili nelle principali librerie d’Italia e su Amazon.com
Pubblicato da Il sole 24 Ore, l’8 marzo 2023
@Riproduzione riservata
23 domenica Ago 2020
Posted in Cultura, giornalismo, Quella volta che
Tag
Cosmopolitan, Cristiana Allievi, editori, giornalismo, Hearst, interviste illuminanti, maestri di giornalismo, Mondadori
di Cristiana Allievi
RITROVARE NEL CASSETTO L’INVITO A UNA FESTA A CASA DI LEONARDO MONDADORI, MI HA FATTO FARE IL PUNTO DEGLI ULTIMI 20 ANNI DI APPASSIONATO LAVORO

18 lunedì Mar 2019
Posted in cinema, Moda & cinema, Musica, Personaggi
Tag
Charlotte Gainsbourg, Eric Barbier, giornalismo, Grazia, interviste illuminanti, La promessa dell'Alba, Pierre Niney, Rest, Yvan Attal
DOPO TANTI RUOLI AL LIMITE, ORA L’ATTRICE FRANCESE AL CINEMA È UNA MADRE CHE FA DI TUTTO PER SUO FIGLIO. UNA PARTE, DICE A GRAZIA, CHE L’HA RICONCILIATA CON L’AMORE, GLI ERRORI E GLI ADDII DEI SUOIO GENITORI STAR, IL CANTANTE SERGE E L’ATTRICE JANE BIRKIN
Ho appena visto Charlotte Gainsbourg nel suo prossimo film, La promessa dell’alba di Eric Barbier. Sono certa che sia l’interpretazione cinematografica migliore della figlia di Serge Gainsbourg e Jane Birkin. Non ci sono scene di sesso, o di morte, e nemmeno atroci torture, come ci aveva abituati nei film Antichrist e Nymphomaniac del regista Lars Von Trier. Ma nonostante questo, la donna che vedremo sugli schermi dal 14 marzo nei panni di una madre eccessiva e lievemente mitomane mi è sembrata molto più estrema che in passato. Gainsbourg è Nina, madre coriacea, ebreo polacca, che dalla Lituania, fra mille peripezie, porta il figlio nel sud della Francia per fuggire dalle conseguenze della presa di potere di Hitler in Germania. La storia è tratta dal bestseller autobiografico sulla straordinaria vita di Romain Gary (interpretato da Pierre Niney), uno dei più famosi romanzieri francesi, l’unico ad aver vinto due volte il Goncourt Prize. «Ho girato il film mentre registravo il mio ultimo disco, Rest, non ho mai avuto un parte come questa, in cui presto il volto a una donna fra i 30 e i 60 anni. Avere un altro corpo, un’altra voce, parlare il polacco, sono stati una liberazione per me, ho potuto esplorare un’identità diversa. Questo film mi ha resa più forte». Libertà è una parola che questa attrice e cantante dalla voce eterea pronuncerà molte volte durante la nostra conversazione. La sensazione è abbia trovato la serenità e che i tempi in cui si torturava con i personaggi di Lars von Trier siano alle spalle. Così come il lutto che l’ha colpita quando la sorella Kate Barry si è tolta la vita, cinque anni fa: era la persona a cui era più legata in assoluto. Subito dopo si è trasferita a vivere a New York con la famiglia, il regista Yvan Attal e tre figli Ben, Alice e Joe, 21, 16 e 7 anni. «Non riuscivo più a respirare a Parigi, troppi ricordi dolorosi. Per un po’ di tempo starò via dall’Europa, poi si vedrà».
(Continua…)
Intervista integrale su Grazia del 7 Marzo 2019
© Riproduzione riservata
30 venerdì Nov 2018
Posted in arte, cinema, Personaggi, Torino Film Festival
Tag
Cinema Italiano, giornalismo, interviste illuminanti, recensione, Ride, Torino Film Festival, Valerio Mastandrea

Valerio Mastandrea, 46 anni, attore, ha esordito alla regia con Ride, unico film italiano in Concorso al 36° Torino Film Festival.
«Un calciatore diceva “si gioca come si vive”. Ed è così, in questo film ci sono leggerezza e umorismo, ma anche le contraddizioni umane, il sapersi relazionare o meno a se stessi, è pieno di cose che mi riguardano». Citando Burdisso, ex difensore della Roma, Valerio Mastandrea racconta “Ride”, il suo primo lungometraggio da regista e unica pellicola italiana in Concorso al 36° Torino Film Festival.
Prodotto da Kimerafilm e Rai Cinema, il film mostra allo spettatore un lutto per una morte improvvisa sul lavoro, ma non ha come intento quello di farci riflettere sulle morti bianche, non in prima battuta.
La storia viene da un soggetto di Mastandrea ed Enrico Audenino e racconta poco più di un giorno di Carolina, una moglie che si trova all’improvviso senza Mauro, morto per un incidente nella fabbrica da cui sono passate almeno tre generazioni di operai di questo paesino sul mare a pochi chilometri dalla capitale.Lo spettatore la incontra in una domenica di maggio, quando mancano poche ore al funerale che sarà il giorno successivo, e vive con lei i passaggi e le difficoltà che attraversa. Prima fra tutte, quella di non riuscire a piangere, nemmeno a sette giorni dall’accaduto.
Accanto alla sua incapacità di contattare il dolore, si incontrano quelle di altri due personaggi e mondi. Il primo è composto dal gruppo di operai più anziani che si stringe intorno al padre di Mauro, Cesare (interpretato da Renato Carpentieri), che fa considerazioni sulla sicurezza e la forza sindacale che, da quando c’erano loro in prima linea, è andata persa. Cesare non versa una lacrima, finché l’arrivo del figlio che gli rimane, Nicola (Stefano Dionisi), non provoca uno scontro viscerale e fisico che lo farà uscire dal congelamento emozionale.
Terzo universo del film è quello del figlio di Carolina, Bruno (Arturo Marchetti), che in questa freddezza emotiva generale si trova a trasformare il funerale (ancora non avvenuto) del padre in un’immaginaria diretta tv insieme all’amico del cuore.
(continua…)
Recensione pubblicata su GQ.it
© RIPRODUZIONE RISERVATA
26 lunedì Nov 2018
Posted in Cannes, cinema, Cultura, Festival di Cannes, Torino Film Festival
Tag
Carey Mulligan, Cristiana Allievi, esordio alla regia, giornalismo, Grazia, interviste illuminanti, Paul Dano, Wildlife
NEL FILM APPENA PRESENTATO AL FESTIVAL DI TORINO È UNA DONNA TORMENTATA CHE FUGGE DA SUO MATRIMONIO. E L’ATTRICE RACCONTA A GRAZIA DEI SUOI DUBBI E DEL MOMENTO IN CUI HA FINALMENTE CAPITO QUALE FOSSE IL SUO POSTO NEL MONDO

L’attrice Carey Mulligan, 33 anni, fotografata da Richard Phibbs per Grazia.
«Farebbe questa domanda anche a un uomo?». Quando le rispondo che si, chiederei anche a un attore se l’arrivo di due figli ha cambiato il suo modo di scegliere ruoli al cinema, Carey Mulligan sembra sollevata. «L’unica cosa che è cambiata è che, ancor più di prima, lavoro solo se vale davvero la pena di stare lontano dai miei figli. Dev’essere tutto perfetto, per farmi venire la voglia di lasciarli». Quella parola, perfetto, mi colpisce, e presto capisco perché. Abito castigato sotto il ginocchio, blu a pois bianchi, e caschetto biondo decolorato, poco dopo mi dice di non rivedere mai i propri film. «È terribile, intercetto tutti gli errori e penso che avrei dovuto fare le cose diversamente. Guardarsi su uno schermo è un’esperienza strana, è come sentire la propria voce nella segreteria telefonica e confrontarla con quella vera». Il fatto di essere british rincara la dose, in fatto di perfezionismo. 33 anni, nata a Westminster da una madre lettrice universitaria e un padre manager di hotel, Mulligan è sposata con Marcus Mumford, il leader dei Mumford & Sons, con cui ha due figli, l’ultimo di poco più di un anno. Ha iniziato a recitare a scuola a sei anni, ma dopo il liceo non è stata accettata dalla scuola di teatro. Una parte in Downtown Abbey e quella in Orgoglio e pregiudizio hanno fatto partire la sua carriera, mentre a fare di lei una star del cinema è stato An education, con cui si è ritrovata catapultata di colpo sotto i riflettori. «Non mi ero mai vista così tanto tempo sullo schermo, ho pensato di essere veramente noiosa, ero tutta faccia e non facevo niente… Ho chiamato mia madre, prima dell’anteprima al Sundance, per dirle “è terribile, non voglio andarci, torno a casa”. Poi il film ha avuto un tale successo, le nomination agli Oscar… Mi spiace non essermelo goduto, ho iniziato a riconoscere il mio lavoro solo alla fine». Diciamo che non stupisce che non si sia fatta divorare dalla macchina della notorietà, anche perché protegge la sua privacy con determinazione. Parliamo del suo ultimo film, una storia ambientata nel Montana negli anni Sessanta che racconta di una giovane coppia con un figlio che va in crisi e di una madre, lei, che tenta di cambiare radicalmente vita. Wildlife, esordio alla regia di Paul Dano, passato all’ultimo Festival di Cannes e sugli schermi del Torino Film Festival il 23 novembre, è basato su un romanzo di Richard Ford. Lei è Jeanette, una casalinga che deve badare a se stessa e a suo figlio dopo che il marito (Jake Gyllenhaal) le pianta in asso per andare a spegnere un incendio forestale. Si imbarca in una relazione pericolosa che può stabilizzare la sua famiglia o distruggerla. Un altro personaggio molto sfidante, adattato dal regista e dalla sua cosceneggiatrice e compagna, Zoe Kazan.
In Wildlife mostra aspetti di una donna che non si vedono spesso al cinema. «È inusuale vedere donne che mandano tutto in malora, per un momento. E se sbagliano fanno solo quello, non sai mai chi sono davvero, da fallite. La donna che interpreto è una brava madre e una brava moglie, ma non vedi questo di lei, quanto i suoi lati più deboli».
Da mamma perfetta a donna che beve e che cerca un amante ricco, da cui porta anche il figlio: è stato un viaggio interessante? «Mi piace l’esplorazione di varie versioni di sé. Jeanette si accorge di colpo, a 34 anni, che non ne avrà più 21 e che le cose che si era immaginata di essere, da teenager, sono sparite: è ridotta a essere una madre e una moglie, ed è normale essere molto spaventate. E poi diciamo la verità, non ci piace vedere donne infedeli, mentre tolleriamo che lo siano gli uomini, quindi sono felicissima di averla incarnata io!».
Cosa le è risultato più difficile? «Le scene da ubriaca, sono difficili da recitare, mentre la guerra con mio marito è stata facile».
Crede che la situazione delle donne è cambiata, dagli anni Sessanta? «All’epoca il tabù sui matrimoni che finiscono in divorzi era molto più grande, il divorzio era quasi innominabile in certi ambienti. Ma sotto la superficie, in termini di ciò che ci si aspetta dalle donne è abbastanza simile, c’è ancora molta pressione: ora si possono fare scelte leggermente diverse, ma che tu sia una casalinga o una madre che lavora devi essere tutto e fare tutto, ed è ciò a cui reagisce il mio personaggio».
In cosa le assomiglia? «Mi sono identificata con la reazione a quella sensazione del tempo che passa, il panico che hai quando ti rendi conto di quanto tempo è passato. Ho riascoltato una canzone che ascoltavo molto quando avevo 19 anni e mi ha fatto saltare il cuore, ho pensato “avevo 19 anni due minuti fa!”».
Nel film dice “ho 34 anni”, come se fosse vecchia. «All’epoca era così. Quando mia madre è tornata nella sua città natale, nel Galles, dalla Giordania in cui viveva, e ha detto che non era sposata, pensavano che fosse divorziata: non potevi essere celibe a 28 anni, ed erano gli anni Ottanta!».
(continua…)
Intervista pubblicata su Grazia del 22 Novembre 2018
© RIPRODUZIONE RISERVATA
30 martedì Gen 2018
Posted in cinema, Cultura, Golden Globes, Miti
Tag
Cristiana Allievi, freepress, giornalismo, GQ Italia, journalism, libertà di stampa, Meryl Streep, Steven Spielberg, The post, Tom Hanks

1971. Siamo alle prime avvisaglie di interferenza politica in quella che è la libertà chiave nella vita di una democrazia. Steven Spielberg pesca, non a caso, un evento che ha minato la libertà di stampa, e lo sceglie proprio in un momento in cui l’America soffoca sotto i colpi della xenofobia e di un presidente intenzionato a infamare chi non la pensa come lui.
La storia di The post, che sarà nelle sale dall’1 febbraio grazie a 01 Distribution, ruota intono alla figura di Katharine Graham, la prima donna che finisce al comando, da editore, del Washington Post, secondo giornale locale dopo il Washington Star.
Meryl Streep, che ha ottenuto la ventunesima nomination agli Oscar per questa interpretazione, racconta una donna impreparata al ruolo che si ritrova a coprire in una società fortemente maschilista. Grazie al suo straordinario coraggio darà una grande scossa alla storia dell’informazione, decidendo di pubblicare segreti governativi che riguardano la guerra in Vietnam.
«La prima versione della sceneggiatura è stata scritta da Liz Hannah e acquistata da Amy Pascal sei giorni prima delle elezioni presidenziali», racconta la Streep.
«Tutti noi pensavamo si sarebbe trattato di uno sguardo nostalgico al passato, riflettendo su quanta strada avevano fatto le donne fino a oggi, soprattuto in vista di un presidente donna che davamo per scontato. Invece, con le elezioni, sono aumentate le ostilità verso la stampa e gli attacchi alle donne, dall’apice del nostro governo. Così il film si trasforma, suo malgrado, in una riflessione su quanta strada non abbiamo ancora fatto».
Le vicende ruotano intorno alle Pentagon papers, un rapporto segreto di 7000 pagine stilato nel 1967 per l’allora segretario della difesa Robert Mcnamara. In pratica quei documenti raccontavano una verità a lungo nascosta: per quattro amministrazioni, quelle di Truman, Eisenhower, Kennedy e Johnson, il governo americano aveva mentito ai suoi cittadini e al mondo sulla guerra in Vietnam.
Mentre i politici sostenevano di volere la pace, la Cia e e i militari incrementavano il conflitto sapendo in partenza che non avrebbero avuto la meglio. In pratica, mandando a morte sicura quei 58.220 soldati che hanno perso la vita sul campo.
Il regista di Schindler’s List, Munich, Lincoln e Il ponte delle spieracconta, in un crescendo di tensione, come un brillante analista militare, Daniel Ellsberg, ex soldato dei Marines e poi del Vietnam, abbia deciso di fotocopiare e nascondere tutte quelle pagine, per poi consegnarle al New York Times.
Il 13 giugno 1971 appare in prima pagina un lungo articolo che fa scoppiare un inferno, e l’amministrazione Nixon chiede alla Corte Federale di bloccare la pubblicazione dei documenti da parte della testata, con la motivazione che quelle informazioni avrebbero messo in pericolo la sicurezza nazionale.
Da qui in avanti la storia si fa ancora più rovente perché gli altri quotidiani iniziano a darsi da fare per pubblicare i documenti, approfittando dello stop dato al New York Times.
«La libertà di stampa è un diritto che consente ai giornalisti di essere i guardiani della democrazia, una verità incontrovertibile», racconta il tre volte premio Oscar Steven Spielberg che segna un altro punto a suo favore per quanto riguarda il filone storico dei suoi lavori. «Nel 1971, il tentativo di Nixon di negare il diritto di pubblicare i Pentagon papers fu un atto inaudito. Era la prima volta che succedeva qualcosa del genere dalla Guerra Civile americana. Oggi ci troviamo ancora una volta a osservare questa minaccia, e questo rende quei fatti tremendamente attuali».
Il due volte premio Oscar Tom Hanks interpreta Dan Bradlee, direttore del quotidiano locale, per niente spaventato dalla competizione con un colosso: «Ben Bradlee era molto competitivo, una vera bestia», racconta. «Aveva passione, era il tipo di uomo che voleva trovare non una grande storia, ma “La” storia. Nel giugno del 1971 il Washington Post era in competizione con il Washington Star, che era il quotidiano principale della capitale: il fatto che il Times avesse una storia che il Post non aveva, era un fatto che teneva sveglio Bradley la notte. Lo faceva impazzire. C’è una scena, in cui sono tutti riuniti nella sala di consiglio e stanno leggendo il giornale avversario, in cui Bradlee dice “siamo gli ultimi a casa nostra!”. È fantastica, racchiude il senso della sfida che guiderà tutto il resto del film».
Bradlee ha la vista lunga, se si pensa che il suo modo di ragionare aprirà la strada a inchieste come quella del Watergate, che porterà alle dimissioni di Nixon. Ma niente sarebbe successo senza di lei, Katharine Graham. «Era una donna che aveva la sensazione che il posto in cui era non le competesse», continua Meryl Streep. «La rappresentazione della redazione del giornale, come era nel 1971, è molto fedele: c’erano solo uomini ed erano tutti bianchi, le donne erano solo segretarie. In un simile contesto, questa donna sfida Nixon, senza sapere che un giorno sarebbe finita a capo di una delle società di Fortune 500, qualcosa di inconcepibile all’epoca, come vincere un Pulitzer con la propria autobiografia. Ma tutto accade grazie all’enorme fiducia fra lei, l’editore, e Ben Bradlee, direttore del suo giornale, uno degli uomini più coraggiosi che abbia incrociato in vita mia, di quel genere disposto a rischiare tutto».
Articolo pubblicato su GQ.it il 29 gennaio 2017
© RIPRODUZIONE RISERVATA