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~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi tag: Jim Jarmush

Caleb Landry Jones, «Sono io l’uomo impossibile».

27 mercoledì Set 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Musica

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Caleb Landry Jones, cinema, interviste illuminanti, Jim Jarmush, Luc Besson, Musica, Vanity Fair

Per il suo ultimo film, Luc Besson temeva di non trovare l’attore giusto, ma a CALEB LANDRY JONES perconquistarloè bastato uno sguardo. In Dogman interpreta un ruolo complicato, come del resto è stata la sua vita da bambino. Difficile? Affatto, perché, dice, «è il dolore che ci accomuna»

di Cristiana Allievi

L’attore e musicista americano Caleb Landry Jones (foto courtesy PHILIPPE QUAISSE per Vanity Fair)

Ha occhi incredibilmente tranquilli. I capelli sono arruffati, li porta spesso indietro con la mano, il gesto di un ex bambino affetto da un disturbo ossessivo compulsivo che da adulto cerca (ancora) di fare ordine. Cresciuto in Texas in una fattoria, i suoi genitori – un imprenditore edile e un’insegnante – lo hanno incoraggiato a trovare una via espressiva per quelle emozioni che tendevano a restare incastrate dentro, producendo un senso di allarme che era il motore dei suoi incubi. Così Caleb Landry Jones disegnava su tutti i pavimenti di casa e poi si rifugiava in Barney, una serie tv per l’infanzia molto nota negli Usa. Il protagonista era un tirannosauro viola che sorrideva e cantava spesso. «Avrei fatto di tutto per andare a vivere nel suo mondo in cui il dolore sembrava non esistere davvero», ricorda. La madre, discendente di una dinastia di violinisti, lo aveva iscritto a danza classica e tip tap, poi lo aveva portato alla prima audizione. A 16 anni è apparso nella penultima scena di Non è un paese per vecchi. Da allora ha preso parte a 30 film per cui ha meritato premi importante come quello di miglior attore all’ultimo Cannes, per Nitram di Justin Kurzel. All’ottantesima Mostra di Venezia ha sfiorato la Coppa Volpi con Dogman di Luc Besson.

È lì che incontro Caleb, in un bellissimo hotel liberty. Ha una sigaretta arrotolata fra le dita e a differenza del suo Douglas non indossa guanti di velluto che si arrampicano lungo le braccia costellate di lentiggini.

Ispirata a un articolo di giornale che raccontava di un bambino di cinque anni tenuto chiuso in gabbia dal padre, la storia nera di Dogman è servita al regista francese per esplorare che cosa succede nella mente di chi cresce in quel modo, e scoprire come gestisce il dolore.

Dogman inizia con la frase di Alphonse de Lamartine “quando un uomo è in pericolo, Dio gli manda un cane”. A Douglas ne manda un centinaio. «Quello che interpreto è un ragazzo diverso, che viene accettato e accolto solo dai diversi, da coloro che soffrono. Le persone “normali” o lo respingono o lo usano».

Ha quasi sempre interpretato disperati e situazioni folli, le predilige? «Non le percepisco come folli, l’unica follia che avverto è la fatica di trovare un modo per rappresentarle (ride, ndr). Non sapendo da dove cominciare, osservo che le cose che a molti paiono strane a me non sembrano tali. Douglas non è affatto folle, lo è tutto ciò che lo circonda».

Ha travasato in lui tutto il dolore che conosce? «Quando creo qualcosa quello che emerge non è facilmente identificabile e non lo analizzo, lascio che sia il subconscio a lavorare l’amalgama di avvenimenti ed emozioni anche molto distanti nel tempo. Ma tutti conosciamo la perdita, sappiamo cos’è un cuore spezzato da un lutto, il dolore è qualcosa che condividiamo e di cui parliamo molto più di quanto non menzioniamo la gioia. Douglas cristallizza il dolore di tutti ed è completamente innocente, non ha fatto male a nessuno».

Ricorda cosa vi siete detti lei e Luc Besson al primo incontro?

«La sua più grande paura era quella di non incontrare l’attore giusto, caso in cui mi ha detto che avrebbe rinunciato al film».

(continua…)

L’intervista integrale è su Vanity Fair del 4 Ottobre 2023

@Riproduzione riservata

Austin Butler, Love me tender

06 lunedì Giu 2022

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, Cannes, cinema, Cultura

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Tag

Austin Butler, Baz Luhrmann, Cannes 75, Disney, Elvis, Festival di Cannes, interviste illuminanti, Jim Jarmush, Leggenda del rock, Quentin Tarantino, Vanity Fair, Warner Bros

Interpretando Elvis Presley, AUSTIN BUTLER ha scoperto di avere molto in comune con lui: un dolore importante e l’ansia di piacere che divorava l’icona del rock

Intervista esclusiva di Cristiana Allievi

L’attore americano Austin Butler in una scena del film Elvis di Baz Luhrmann in cui interpreta varie sfaccettature dello showman più famoso del ventesimo secolo:  il ribelle delle origini, l’attore, l’uomo pop e quello family-friendly, fino  alla versione epica  degli anni Settanta (Courtesy © 2021 Warner Bros. Entertainment Inc.)

La voce è profonda e lievemente roca. Potrebbe sedurre, con quella voce,  invece la usa per consegnarmi un’importante chiave di lettura della sua vita. «Anch’io ho perso mia madre quando avevo solo 23 anni», mi racconta, e non a caso. Californiano, classe 1991, magnifici occhi azzurri, Austin Butler il suo viso non si è ancora fissato nella mente di tutti. Però dal 22 giugno in poi sarà impossibile dimenticarsi di lui, perché Baz Luhrmann lo ha scelto per interpretare il più grande showman del ventesimo secolo, Elvis Presley. Un salto vertiginoso per Austin, diventato famoso grazie alla serie tv della Disney Hannah Montana, a cui è seguito l’esordio al cinema con The faithful nei panni di un cane che si trasforma in uomo. Certo, lo hanno già voluto anche Tarantino e Jarmush (in C’era una volta… a Hollywood e I morti non muoiono), ma per ruoli minori. In Elvis, presentato Fuori Concorso alla 75esima edizione del Festival di Cannes,  lo vedremo protagonista assoluto, mentre ancheggia, canta e si dispera per due ore e 39 minuti, ripercorrendo la complicata relazione che il re del rock aveva con il manager, il “Colonello” Tom Parker interpretato da Tom Hanks. Nel biopic si celebra anche l’Italia, visto che nella colonna sonora ci sono anche  i Maneskin con la hit If I Can Dream.

Qual è stata la sua reazione quando le hanno proposto di diventare l’uomo di spettacolo più famoso del ventunesimo secolo? «Per due anni mi sono svegliato alle tre di notte con il cuore che andava a cento all’ora: mi sono chiesto come interpretare questa reazione, finché ho capito che si trattava di terrore puro».

Terrore di cosa? «Di non saper rendere giustizia a Elvis, davanti a tutti quelli che lo amano, partendo dalla  sua famiglia che volevo fosse orgogliosa di lui. Mi è capitato di avere grosse crisi di autostima,  ho dovuto attraversarle e superarle».

Come si supera, il “terrore puro”? «Pensando che se mi hanno dato un lavoro,  dovevo prendermene la responsabilità e confrontarmi con il mio disagio.  Indagando questo terrore ho scoperto che conteneva  anche energia! Così ho  iniziato a lavorare, quando mi svegliavo in piena notte, guardavo video e sentivo che il terrore svaniva. Sono riuscito a indirizzare la mia paura, scoprendo che anche Elvis ne aveva, e molta».

Che paura aveva Elvis?  «Quella di salire sul palco e di non piacere, è diventato chiaro girando la parte del grande Come back special del  1968,  dopo sette anni di assenza dal palco, un momento in cui tutto era un rischio: sapeva di voler dare meglio di sè».

Un po’ come lei in questo momento? «Se fallisci con il primo film da protagonista  è difficile rialzarti. Ho sentito un’enorme pressione, ma dovevo continuamente tornare sulle emozioni di Elvis, capire cosa faceva strillare il suo pubblico, cosa lo faceva impazzire».

.

(continua…)

Intervista pubblicata su Vanity Fair dell’8 giugno 2022

@Riproduzione riservata

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