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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi della categoria: Mostra d’arte cinematografica di Venezia

Benedict Cumberbatch: «La fragilità del cowboy»

05 domenica Dic 2021

Posted by Cristiana Allievi in arte, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Netflix, Personaggi

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Benedict Cumberbatch, bullismo, cowboy, Il potere del cane, interviste illuminanti, Jane Campion, Nuova Zelanda, omosessualità

Ha imparato a cavalcare, suonare il banjo e rollare le sigarette con una sola mano. Per il suo ultimo ilm, BENEDICT CUMBERBATCH si è trasformato in un allevatore del West ruvido e crudele. Ma dall’animo vulnerabile

di CRISTIANA ALLIEVI

L’attore britannico Benedict Cumberbatch, 45 anni, Commendatore dell’Ordine dell’Impero britannico. È il protagonista del film diretto da Jane Campion, Il potere del cane (Netflix).

“Alieno” è la prima parola che mi viene in mente incontrandolo di persona.  Anche l’altezza contribuisce a quel non so che di ultraterreno, insieme agli occhi che sembrano di ghiaccio, in confronto con il colore del mare che è alle sue spalle. Natura e spazi aperti sono tutto per lui, mi racconta con un tono di voce basso e profondo. Benedict Cumberbatch è la prova vivente di dove può portare un grande talento combinato con altrettanta ambizione. In questi giorni sta ricevendo le migliori recensioni della sua carriera grazie a una scommessa della regista di culto Jane Campion, che gli ha chiesto di diventare un uomo alfa, un cowboy crudele e represso, ma anche gay e terribilmente sexy. E lui ci è riuscito, eccome se ci è riuscito. Tanto che si parla già di un Oscar per il suo Phil Burbank in Il potere del cane, nei cinema e dall’1 dicembre su Netflix. La storia è tratta da un libro di  Thomas Savage pubblicato in America nel 1967, quando parlare di omosessualità in Usa era cosa delicata. È una specie di manifesto della mascolinità tossica. «È anche una riflessione sull’isolamento e la paura, sull’essere sulla difensiva e farsi guidare dall’aggressività. Questa storia mostra anche come la gentilezza, la comprensione e la pazienza possano essere vie di gran lunga migliori per vivere in una comunità».

Ho letto che ha frequentato il collegio e che è stato testimone  di bullismo nei confronti di un compagno omosessuale. «Accidenti, non ricordo nemmeno quando l’ho raccontato… Ma è vero, avevo 18 anni, ero all’ultimo anno di liceo. Ho assistito a qualcosa di piuttosto barbaro. È stata una esperienza disastrosa, da tutti i punti di vista».

E lei come l’ha vissuta? «Ero furioso con le persone che perseguitavano questo ragazzo. Percepivo  l’ingiustizia, mi dicevo “lasciatelo in pace, cazzo, lasciategli essere quello che è…”. Ho capito che stavano sbagliando, che l’odio ha una natura tribale e che è alimentato da aspetti culturali. Per agire sui loro comportamenti occorre capire  in quali circostanze hanno vissuto quei ragazzi che odiavano il compagno scoperto con un altro uomo».

A un certo punto del film il suo personaggio dice a un adolescente “imparerai cosa significa essere un uomo”, per lei cosa significa? «Penso si tratti di aderire al proprio sé autentico, e questo implica anche padroneggiare completamente se stessi, in ogni aspetto. Per fortuna viviamo in un’era più tollerante, in cui c’è ancora da lottare ma puoi permetterti di essere chi sei, ed essere accettato per questo».

(continua…)

Intervista integrale pubblica su Vanity Fair dell’8 dicembre 2022

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«Il mio Oscar è per chi ha perso tutto», Chloe Zhao

09 domenica Mag 2021

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Chloe Zhao, Grazia, interviste illuminanti, Nomadland, Oscar

Con il suo Nomadland Chloé Zhao è la seconda donna e la prima regista asiatica a vincere la statuetta. Nel film ha raccontato del coraggio che serve quando la vita cambia all’improvviso. E dice: «Coltivate la bontà che avete dentro perché vi aiuterà sempre a combattere»

di Cristiana Allievi

La regista asiatica Chloé Zhao, 39 anni, vincitrice di 3 Oscar con il suo film Nomadland.

È una donna delicata che parla piano, ma le sue parole hanno la forza della fiducia nel futuro e nella parte mi- gliore delle persone, quella che esiste in tutti noi. «Ho pensato parecchio ultimamente a come si fa ad andare avanti quando le cose si fanno dure», ha detto Chloé Zhao, stringendo la statuetta per la migliore regia di Nomadland, il titolo che, agli Oscar più difficili per via della pandemia, ha conquistato anche il premio al migliore film e alla migliore interprete, Frances McDormand. «In Cina con mio papà imparavo le poesie cinesi classiche e ne ricordo una la cui prima frase dice “Le persone alla nascita sono intrinsecamente buone”. Continuo a crederlo. Questo Oscar è per coloro che hanno fiducia e coraggio in ciò che di positivo han-

no dentro. E a tutti dico coltivate la vostra bontà». Trentanove anni, nata a Pechino ma cresciuta tra Londra e New York dove ha studiato, Zhao è la prima asiatica a vincere il premio come migliore regista e la seconda donna in assoluto dopo Kathryn Bigelow, nel 2009. La storia di Nomadland, che le è valso anche due Golden Globe e il Leone d’Oro alla mostra del cinema di Venezia nel 2020, è tratta dal libro della giornalista Jessica Bruder, che ha compiuto un viaggio attraverso l’America dei “nuo- vi nomadi”, persone che per un motivo o per l’altro si sono ritrovate a vivere in strada. Sullo schermo le conosciamo attraverso Fern, una straordinaria Frances McDormand che recita in un cast di non attori,

ma veri nomadi nel ruolo di se stessi. Fern parte con un furgone dopo aver perso marito e lavoro a causa di un tracollo finanziario. Raggiungerà, fra gli altri luoghi, il Rubber Tramp Rendezvous, un noto cam- po nomadi nel deserto dell’Arizona.

Per prepararsi alle riprese di Nomadland, anche lei ha trascorso tempo in una comunità di nomadi come quelli che vediamo nel f ilm?
«Sì, ho capito quello che significa la strada molto prima di ricevere il libro da Frances McDormand, che ne aveva acquistato i diritti. Ho un camper di nome Akira e in molte occasioni l’ho considerato la mia casa. Quello però era anche il modo di viaggia- re di una ragazza giovane».

In che cosa, invece, questo film è diverso?

«Io e lei potremmo diventare nomadi domani. Se compriamo una macchina e ci viviamo dentro, sia- mo nomadi. Puoi essere un broker di Wall Street, una persona che non ha mai avuto un lavoro, una madre single o un padre di dieci figli: tutti potreb- bero finire sulla strada. Nel film incontriamo Fern dopo il suo primo anno vissuto in questo modo, e scopriamo che cosa attraversa seguendola da vicino».

Come ha convinto dei veri senza tetto a girare il film? «L’ho semplicemente chiesto. La prima risposta è stata “Perché? Non sono una star del cinema”. Ma quando aiuti le persone a sentirsi al sicuro, accetta- no. E il legame intenso con Frances, ha aiutato molto gli altri ad aprirsi e a lavorare con noi».

Che cosa l’ha colpita di più di Frances McDormand?

«Vive davvero la vita che desidera, in questo mo- mento potrebbe essere nel deserto, per quanto ne so. Osservare il mondo attraverso i suoi occhi è stato un privilegio. Lei è un’attrice grandissima». Nomadland racconta l’America come terra dei sogni, e di come questi stessi sogni possono essere infranti velocemente. Venendo dalla Cina che visione e che effetto le fa tutto questo?

«In questo film parlo di una generazione, che oggi ha più di 60 anni. La mancanza di cura per i nostri anziani è un problema della società moderna in generale, non solo in America. Quelle sono le per- sone ricche di saggezza, ma alle quali i giovani sfortunatamente si disinteressano. Ma mentre noi li sottovalutiamo, in molte tradizioni culturali gli anziani so- no considerati la parte più importan- te della società. Vedo in loro molta resilienza e umiltà».

(…continua….)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 29 aprile 2021

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Paola Cortellesi, «Siamo tutte figlie di Nilde Iotti»

01 lunedì Mar 2021

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura, giornalismo, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Come un gatto in tangenziale, Grazia, interviste illuminanti, Iwonderfull, La befana vien di notte, La reggitora, Leonilde, Nilde Iotti, Paola Cortellesi, Peter Marcias, Riccardo Milani, Sky

In tv legge le lettere e i pensieri della prima presidentessa della Camera, la pioniera di tante battaglie femministe. «L’ho sempre ammirata» , racconta a Grazia l’attrice, «perchè grazie a lei la politica non ha più potuto ignorare le donne»

di Cristiana Allievi

  • L’attrice e sceneggiatrice Paola Cortellesi, 47 anni, sul set di Nilde Iotti, il tempo delle donne (foto di Francesca Cavicchioli)

Paola Cortellesi ha usato bene questa pandemia. Ha appreso cose nuove di sè. Ha rivoluzionato le sue abitudini. Ha superato i propri limiti. Me lo racconta in questa chiaccherata in cui sembra che la primavera, intesa non solo come stagione,  si affacci alla finestra.   «Ci stiamo allenando a vivere le alternative nel quotidiano, a pensare con un’altra testa. La prima volta il lockdown ci aveva presi alla sprovvista, adesso ci stiamo abituando al fatto che non si può programmare troppo», racconta con tono pacato, «e a tratti si può anche essere meno produttivi. Io ho imparato ad amare la calma, e ora voglio conservarla». È questa la promessa che fa a se stessa l’attrice record d’incassi come La Befana vien di notte  e Come un gatto in tangenziale. Un’artista che ormai è anche sceneggiatrice dei suoi progetti, in questi giorni impegnata proprio nella revisione del testo di Petra 2 – la serie tv Sky in cui è single  e anaffettiva – e nelle prove di abiti e trucco della stessa serie, poco prima di iniziare le riprese. Nel frattempo il docu film di Peter Marcias che sarebbe dovuto uscire in sala a novembre si fa largo in rete (il regista firma anche un libro con prefazione di Cortellesi, La Reggitora, edito da Solferino). Nilde Iotti, il tempo delle donne è già disponibile sulle piattaforme di #Iorestoinsala, e dal 25 febbraio lo sarà anche su quelle di #IWONDERFULL, infine dal 10 aprile arriverà su Sky Tv.  In questo straordinario omaggio a Nilde Iotti, prima donna a diventare presidentessa della Camera, nel 1979, Cortellesi ci restituisce il suo pensiero facendo da cerniera fra le immagini contemporanee, con testimonianze delle amiche più care e di figure di spicco della cultura e della politica di quegli anni, e le magnifiche scene di repertorio. E quando riapriranno i cinema la vedremo nel sequel di Come un gatto in tangenziale, diretta dal marito Riccardo Milani con cui ha una figlia, Laura, 9 anni.

Nilde Iotti è una figura importantissima, raccontarla dev’essere stato impegnativo. «Avevo già raccontato Iotti nello spettacolo teatrale Leonilde. Narrava le vicende anche personali, che diventarono presto di dominio pubblico. Peter Marcias aveva visto lo spettacolo e mi ha voluta come filo conduttore nel suo documentario, per dar voce alle sue lettere personali».

Sono testi struggenti.  «Privatissimi e inaccessibili per 40 anni. Strappano il cuore, per la bellezza e la cura con cui pesava ogni parola».

Iotti ha ha precorso molte battaglie femminili. Nel 1956 fondò l’Associazione delle donne e iniziò a combattere per una settimana lavorativa di quattro giorni, la parità nella visione, l’aborto e il divorzio. «Diciamo che ha combattuto per la parità, anche dei coniugi, quando per le donne non c’erano nemmeno i diritti di base. Ci sono lettere in cui racconta come veniva guardata in quanto figura di potere, con tanto di commenti che facevano su di lei. Sentiva di avere addosso un giudizio costante, ma non voleva scimmiottare un uomo per essere credibile».

Si innamorò perdutamente di Palmiro Togliatti e fu uno scandalo: lui era un uomo sposato, lei pagò la scelta sentimentale. Oggi sarebbe uguale? «Sarebbe diverso, proprio grazie alle sue battaglie».

Che ricordi aveva di questa politica? «Essendo nata nel 1973, è stata il primo Presidente della Camera che ho conosciuto. Ricordo che avevo un forte senso di rispetto per lei, per le sue dure battaglie e per quel suo rischiare la vita, senza alzare mai la voce. La cosa che trovo straordinaria è quel modo di muoversi e di parlare che, seppur morbido, non toglieva un grammo di forza all’efficacia delle sue azioni. Soprattutto, Iotti era una donna che sapeva ascoltare gli altri».

Paola, lei è stata una delle prime donne a firmare il manifesto “Dissenso comune”, tre anni fa esatti, in tempi di #Metoo contro gli abusi e le molestie. È servito? «Il #Metoo è nato come denuncia e reazione davanti a molte cose non dette e che andavano denunciate, come assalti e violenze. Noi ci siamo ispirate ai diritti della donna in generale, a tutto ciò che viene prima di arrivare alle azioni più deprecabili. Per quanto mi riguarda mantengo alta l’attenzione, e non mi riferisco solo agli uomini ma a come ci muoviamo nella società, perché c’è un problema culturale,negli atteggiamenti e nelle parole, difficilissimo da scardinare».

(continua…)

L’intervista integrale è pubblicata su Grazia del 25/2/2021

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Greta Thunberg, «Troviamo un vaccino anche per il pianeta».

07 sabato Nov 2020

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi, Politica

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Climate change, Covid 19, docu film, Greta Thunberg, I am Greta, interviste illuminanti, summit clima 2030, svolta green

CON GI SCIOPERI PER IL CLIMA GRETA THUNBERG HA DATO VITA A UN MOVIMENTO GLOBALE PER FERMARE IL SURRISCALDAMENTO TERRESTRE. HA PARLATO ALLE NAZIONI UNITE, CONQUISTATO IL PAPA E LE SUE IMPRESE SONO ORA RACCONTATE IN UN DOCUMENTARIO. LA PANDEMIA HA PURTROPPO RALLENTATO LA RIVOLUZIONE ECOLOGISTA E LEI DICE A GRAZIA “L’EMERGENZA SANITARIA E QUELLA AMBIENTALE SONO COLLEGATE. DOBBIAMO AGIRE SUBITO”.

di Cristiana Allievi

L’attivista svedese Greta Thunberg, 17 anni (courtesy Torinotoday).

Greta Thunberg è stanca. Si è capito quando, all’ultima Mostra del cinema di Venezia, è stato presentato  I Am Greta – Una forza della natura, il docufilm su di lei. L’anno scolastico era appena ricominciato e l’ecoattivista svedese non voleva perdere le lezioni che aveva saltato per buona parte dell’anno passato, quindi aveva disertato la Laguna e l’opportunità di portare in Italia il suo messaggio contro il surriscaldamento globale in uno dei luoghi che più hanno da temere dall’innalzamento delle maree.
In realtà Greta è entrata nella fase due della sua battaglia. Dopo aver creato uno dei più significativi movimenti globali della storia recente, vuole fare un passo indietro e agire in maniera diversa. Nel frattempo, però, è diventata un’icona globale, come dimostra il documentario di Nathan Grossman che doveva essere al cinema in questi giorni e che è stato rimandato a causa della chiusura delle sale italiane in seguito all’emergenza Covid.  Il film inizia nell’agosto del 2018, con una giovane studentessa di 15 anni che si siede davanti al Parlamento svedese. Silenziosa, se ne sta dietro a un cartello che invita a fare uno sciopero per manifestare contro il cambiamento climatico. In pochi mesi, accompagnata ovunque dal papà, quella ragazza si troverà alla testa di un movimento globale. Persino il Papa, con una pacca sulla spalle, le dirà: «Brava, vai avanti così». Il racconto culmina con l’incredibile viaggio fatto del 2019 in barca a vela nell’Oceano Atlantico, viaggio che da Plymouth la porta a New York, all’Onu, per parlare al Summit sul clima. Sono immagini che, in poco più di un’ora e mezza, polverizzano le dietrologie che per mesi hanno voluto Greta in mano a qualche misterioso burattinaio. Così come è chiaro che la piccola svedese non ha mai cercato un’esposizione personale, tanto meno la gloria.  Nel momento in cui i Paesi europei stanno discutendo nuovi obiettivi climatici per il 2030 e parlano di una “virata verde” per uscire dalla crisi economica del Covid-19, lei chiede di più. E la sua richiesta è più che mai significativa, considerato che gli scienziati hanno già evidenziato la forte correlazione che esiste fra inquinamento e diffusione del Coronavirus.

(continua…)

L’intervista a Greta Thunberg è in edicola su Grazia del 5 novembre 2020.

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Pierfrancesco Favino: «Le mie bambine sono tutto per me».

09 venerdì Ott 2020

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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bambini, Donna Moderna, famiglia, fantasia, figli, interviste illuminanti, Padrenostro, padri, Pierfrancesco Favino, terrorismo, Vision Distribution

di Cristiana Allievi

Suo papà gli ha insegnato a credere nel lavoro, nell’onestà, nella generosità. E ora l’attore, protagonista dell’emozionante Padrenostro che gli ha regalato la Coppa Volpi a Venezia, cerca di fare lo stesso con le 2 figlie: «Ogni energia è per loro»

L’attore e produttore Pierfrancesco Favino, 51 anni (courtesy The walk of fame).

Un padre negli anni di piombo. Un premio vinto per quel padre all’ultima Mostra del cinema di Venezia. E le parole pronunciate durante la cerimonia. « Un grande maestro diceva che i film sono come le stelle. Io dedico il premio a tutte le stelle che ancora nasceranno, e al brillare degli occhi nel buio». Adesso sono gli occhi di noi spettatori a brillare vedendo Pierfrancesco Favino al cinema  in Padrenostro. Però se gli si fa notare che – dopo questa Coppa Volpi che va a sommarsi a tre Nastri d’argento e 4 David di Donatello (solo per citare qualche premio), a 51 anni non è più solo un bravo interprete ma rientra nella categoria degli attori cult, lui sdrammatizza: «Penso che nella vita arrivi un momento in cui quello che si fa è veramente quello che si è». Padrenostro, che lo vede anche nelle vesti di produttore, è  ispirata a una vicenda accaduta alla famiglia del regista Claudio Noce. Siamo nel 1976 e Valerio (Mattia Garaci) è un bambino di 10 anni la cui vita viene sconvolta da un attentato terroristico ai danni del padre (Favino). Da lì in avanti la paura domina la sua vita, rafforzando la sua già sviluppata immaginazione. Finché non arriva Christian (Francesco Gheghi), poco più grande di lui, a fargli compagnia.

Cosa significa questo film per te? «Riguarda la mia infanzia, qualcosa che non solo mi ricordavo ma che mi coinvolgeva in prima persona. Parla di uomini che  conosco. Mio padre e quello del regista appartengono alla stessa generazione, hanno atteggiamenti simili nel modo di essere maschi. A loro era complicato parlare direttamente».

Chi eri tu a 10 anni? «Un bambino che andava a letto dopo il Carosello, e che dal suo lettino sentiva parlare i propri genitori e quelli degli amici, senza che loro lo sapessero. Quel tipo di famiglia, come la mia, decideva che non dovevi avere le preoccupazioni dei grandi, ma tu sentivi che quella preoccupazione era presente. E provavi una sottile angoscia».

(continua…)

Intervista pubblicata su Donna Moderna dell’8 ottobre 2020

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Laura Morante: «Fino all’ultimo amore»

06 martedì Ott 2020

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Antonio Orlando, Daniele Luchetti, Grazia, interviste illuminanti, Lacci, Laura Morante, Luigi LoCascio, matrimoni

NEL FILM LACCI È ÙNA MOGLIE CHE PER 30 ANNI RESTA INTRAPPOLATA IN UN MATRIMONIO FINITO. «SPESSO SIAMO INFELICI PERCHE’ NON ACCETTIAMO IL CAMBIAMENTO», RACCONTA A GRAZIA, «INVECE DOVREMMO ACCOGLIERLO PER ANDARE AVANTI».

di Cristiana Allievi

L’attrice e scrittrice Laura Morante, 64 anni, fotografata da Caludio Porcarelli (courtesy Grazia) .

La prima parola con cui Laura Morante da il via alla nostra chiacchierata dice molto del suo umore del momento. «“Decluttering”, mi sembra si chiami così questo eliminare il superfluo. Ho appena finito il libro di Marie Kondo, La magia del riordino, e penso contenga diversi segreti di felicità». Avevo già capito che l’attrice lavora sulla sottrazione da come ha attraversato la hall dell’hotel in cui ci incontriamo. Morante ha un’eleganza asciutta e il portamento da ex ballerina classica. «Per la fretta, togliendomi una lente a contatto mi sono fatta male a un occhio». Così mi spiega il motivo per cui  non si toglierà i grandi occhiali da sole che indossa durante la nostra intervista. In realtà alla fine lo farà, mostrando i suoi occhi sono luminosi. Ci incontriamo per il film che ha aperto l’ultima Mostra di Venezia, Lacci, di Daniele Luchetti, nelle sale. Tratto da un romanzo di Domenico Starnone, racconta la storia di Vanda (Alba Rohrwacher da giovane, Morante nella versione più matura), che è sposata con Aldo (Luigi LoCascio, poi Antonio Orlando), il quale si innamora della giovane Lidia (Linda Caridi) e abbandona moglie e due figli. Trent’anni dopo i due sono ancora sposati, ma tradimenti, rancore e vergogna sono ancora lì a separarli, con due figli cresciuti a ricordarlo (Adriano Giannini e Giovanna Mezzogiorno). Nella vita vera questa attrice di cinema e teatro toscana, nipote della mitica scrittrice Elsa, è anche regista e scrittrice di romanzi. Sposata con Francesco Giammatteo, con cui ha adottato Stepan, 16 anni, ha altre due figlie dai precedenti matrimoni (Eugenia, 37, e Agnese, 34 anni avute rispettivamente con Daniele Costantini e Georges Claisses).

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia n. 42 dell’1/10/2020

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«Sono stato un papà severo», Alessandro Gassmann

10 giovedì Set 2020

Posted by Cristiana Allievi in arte, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia

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Alessandro Gassmann, Mauro Mancini, Mostra del cinema di Venezia, Non odiare, Notorius Pictures, rai cinema, Soah, Venezia 77

di Cristiana Allievi

«A LEO HO DATO LO STESSO TRATTAMENTO CHE HO RICEVUTO IO», CONFESSA L’ATTORE E REGISTA, CHE A VENEZIA PRESENTA NON ODIARE. UN FILM CHE TOCCA TEMI IMPORTANTI: LA VIOLENZA CHE CIRCOLA SUL WEB E CHE HA PRESA SUI PIU’ GIOVANI

Fra i suoi film più belli ci sono Il bagno turco e Caos calmo. Ma nonostante il cinema d’autore gli stia a pennello, sono i ruoli sul piccolo schermo ad aver fatto di Alessandro Gassmann uno dei volti più amati del cinema italiano. Come quello di Giuseppe Lojacono in I bastardi di Pizzoflacone 3, la serie di Rai 1 di cui sono iniziate le riprese interrotte per il Covid. A 55 anni il suo fascino non è diminuito, anzi: da quando, vent’anni fa, conquistò le dodici pose del calendario di Max in versione dio greco, si è approfondito. E ora lo vedremo in un ruolo maturo che fa già discutere. Non odiare, dal 10 settembre al cinema, esordio alla regia di Mauro Mancini proiettato in anteprima mondiale alla Mostra di Venezia. Prodotto da Mario Mazzarotto per Movimento film, con Rai Cinema e Notorious Pictures, lo vede nel ruolo di un chirurgo ebreo che si tira indietro dal soccorrere un uomo coinvolto in un incidente stradale. Il motivo è la svastica tatuata sul suo petto. Un film forte, che si ispira a fatti realmente accaduti alcuni anni fa in una sala operatoria tedesca.

Non odiare tocca temi delicati come Soah ed estremismo di destra: una scelta rischiosa anche per un attore. «Lo spunto è proprio il motivo per cui ho accettato il film, mi ha colpito. È la prima volta che mi viene offerta una storia equilibrata sull’argomento, che cerca di capire come nasce un fenomeno e come potrebbe tornare. Perché l’unico modo per evitarlo è lavorare alle sue origini, che sono paura, ignoranza e smarrimento. Per questo Non odiare è un film importante».

C’è anche un legame con tuo padre Vittorio, che aveva una madre ebrea. «La nonna era di Pisa, e come tutti all’epoca  ha dovuto italianizzare il suo cognome da Ambron in Ambrosi. Mio padre salvò la famiglia perché era un giocatore di pallacanestro di serie A, e il regime fascista idolatrava gli atleti».

Oggi la violenza dove si scatena di più? «È molto trainata dai media. Di colpo la generazione di mio figlio ha smesso di seguire la tv e ha iniziato a informarsi solo con la rete. Ma mentre la tv è fatta da persone che hanno studiato e sono dei professionisti, in rete tutti dicono tutto e soprattutto tutti valgono uno. La confusione è totale, chi non ha i mezzi per discernere è perduto».

Su Twitter hai più di 275mila follower. «Trovo doveroso per un personaggio pubblico far sentire la propria voce, soprattutto se ha seguito. Lo faccio con grande coscienza e senso di responsabilità».

(… continua)

Intervista integrale su Donna Moderna – 3 settembre 2020

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Cate Blanchett: «Nella crisi ho capito quanto siamo forti»

10 venerdì Lug 2020

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Netflix, Serie tv

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Australia, Cate Blanchett, cinema, Grazia, interviste illuminanti, Netflix, Presidente di giuria, Silvia Grilli, Stateless, Venezia 77

di Cristiana Allievi

Il due volte premio Oscar Cate Blanchett nella serie STATELESS, da lei scritta, prodotta e interpretata. Qui accanto a Dominic West (COURTESY OF NETFLIX © 2020).

IN SETTEMBRE GUIDERA’ LA GIURIA DELLA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA, IL PRIMO FESTIVAL DAL VIVO DOPO I MESI DI QUARANTENA. MA CATE BLANCHETT È ANCHE AUTRICE E PRODUTTRICE DI STATELESS, LA SERIE CHE DENUNCIA IL LATO OSCURO DELLA POLITICA SULL’IMMIGRAZIONE IN AUSTRALIA. «IL MONDO VIVE VICENDE TERRIBILI, MA DOBBIAMO SUPERARLE TUTTI INSIEME RITROVANDO LA NOSTRA UMANITA’».

Tempo fa durante un’intervista a Cate Blanchett, per farle un complimento,  mi confusi con le parole inglesi che dovevo usare. Le volevo dire che ero stata glaciale in un certo ruolo, e invece, usai la parola “gelato”. Al mio svarione seguì una risata improvvisa, sonora e generosa, e quell’episodio mi fece capire di più su Blanchett, e quanto sia genuina, diretta e passionale. Oggi, durante la nostra video intervista, scopro un aspetto diverso, quello più profondo e impegnato, della futura Presidente di giuria della Mostra  del cinema di Venezia, in partenza il 2 settembre al Lido. Con il marito Andrew Upton, drammaturgo, sceneggiatore e regista australiano, ha scritto e  prodotto una serie tv di cui Cate è anche interprete, dal 9 luglio su Netflix. È un progetto basato su vicende vere in cui Cate esce allo scoperto in prima persona, senza filtri, esponendosi su delicate questioni sociali e politiche. Ci ha lavorato per cinque anni, con persone fidatissime, come la producer Elise McCredie, compagna di liceo e di Università. hanno ambientato la serie all’inizio del 2000, dopo l’attacco alle Torri gemelle. «Era il momento in cui arrivavano in Australia molti barconi e molti rifugiati dall’Indonesia. Il governo di allora ha impostato delle specie di campi profughi  molto isolati, spesso nel deserto. Di fatto erano prigioni in cui le persone venivano rinchiuse finché il loro stato di rifugiati veniva accettato, o meno. Ma questo processo poteva durare anche anni, quindi parliamo di detenzione indefinita per molti esseri umani». Per raccontare questa piaga hanno scelto la storia di una hostess fragile che finisce manipolata da una setta (la splendida Yvonne Strahovski de Il diario dell’ancella, ndr), un uomo arabo che passa la vita a raccogliere i mezzi necessari per portare la famiglia  dall’Afganistan in una terra libera, su un barcone. E un padre che ha bisogno di lavorare per mantenere tre figli piccoli e la moglie. Per vie diverse tutti questi personaggi si ritrovano in un centro di detenzione, e capiscono presto di essere prigionieri e di non avere diritti, nonostante non abbiano commesso reati. Vengono trattati come criminali senza esserlo, quando, invece, la legge prevede che chiedano il diritto di asilo.

(…continua)

L’intervista integrale a Cate Blanchett è sul numero di Grazia del 16 Luglio 2020

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Timothée Chalamet: «È l’unica ragazza per me».

05 martedì Nov 2019

Posted by Cristiana Allievi in arte, cinema, Cultura, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi, Senza categoria

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attori, Beautiful Boy, Chiamami col tuo nome, il re, Lady Bird, Lily-Rose Depp, thimothèe Chalamet, Venezia 2019

AL CINEMA INTERPRETA SEMPRE RAGAZZI TORMENTATI E AFFASCINANTI. STAVOLTA VEDREMO TIMOTHÉE CHALAMET NEL RUOLO DI UN PRINCIPE RIBELLE E DONNAIOLO CHE DEVE CRESCERE IN FRETTA. E ACCANTO A LUI TROVERÀ PROPRIO LILY-ROSE DEPP, LA SUA VERA FIDANZATA

di Cristiana Allievi

Thimothée Chalamet sul red carpet di Venezia 2019 in Haider Ackermann.

Il mio nome si pronuncia Timo – tay, con la “a”, ma è un po’ antipatico precisarlo, ne sono consapevole, quindi di solito non lo faccio notare». Precisazioni a parte, si coglie dall’accento che Timothée Chalamet è ancora sotto l’influenza del duro lavoro fatto per Il re, dal 1° novembre su Netflix. Per il film di David Michod che lo ha visto protagonista dei tappeti rossi all’ul- tima Mostra del Cinema di Venezia insieme con la fidanzata, l’attrice Lily-Rose Depp, Chalamet ha dovuto piegare il suo americano facendolo diven- tare più british, e inventarsi un nuovo modello di autorevolezza maschile. Nel film interpreta il prota- gonista, il giovane Hal, principe ribelle e donnaiolo che vive tra il popolo e detesta il padre sovrano. Ma quando si tratterà di succedergli sfodererà una grinta inattesa, regnando sull’Inghilterra dal 1413 al 1422 e diventando uno dei più popolari sovrani del Medioevo: Enrico V. Con Chiamami col tuo nome, prima nomination agli Oscar, Lady Bird e Beautiful Boy, l’attore franco- statunitense ha totalizzato ottimi film che farebbero invidia a chi oggi ha il doppio dei suoi 23 anni. Eppure «il sogno di un attore è recitare la parte di un re, andare a cavallo e brandire una spada», dice lui, «e con questo Enrico V mi sono tolto una grande soddisfazione».

Enrico V è un uomo che le piace?

«È un uomo solo. Come dico nel film: “Un re non ha amici, ha solo seguaci”. Bisogna fare un salto indietro, tornare alla sua epoca per capire che cosa contava per le persone, che cosa poteva ispirare un giovane a quei tempi, qual era il linguaggio del coraggio, il senso dell’onore, l’orgoglio naziona- listico. Interpretare un uomo come lui è stato un super regalo».

Perché?

«È un personaggio molto complesso, io mi sono concentrato sull’esplorazione della sua lotta inte- riore, sullo stress causato dal non essere ascoltato. Soprattutto su che cosa può significare attraversare tutto questo in giovane età».

Il taglio di capelli ha avuto un impatto virale sui social, l’hanno addirittura paragonata a Marlon Brando.
«È stato scioccante, ma inevitabile, non mi è piaciu- to per niente, ma poi mi sono abituato. Quel taglio era importante perché è il look di quel periodo e soprattutto perché segna il passaggio da ragazzo a uomo, dal correre dietro alle ragazze al camminare verso l’altare per l’incoronazione».

(continua….)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 31 Ottobre

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Il fantasma dell’opera, di Julian Schnabel

21 venerdì Dic 2018

Posted by Cristiana Allievi in arte, cinema, Cultura, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, pittura

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cinema, interviste illuminanti, Julian Schnabel, Van Gogh, Van Gogh Alla soglia dell'eternità, Van Gogh- At eternity's gate, Willem Dafoe

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Willem Dafoe e Julian Schnabel, 63 e 67 anni, fotografati a Venezia da Thomas Laisne per GQ Italia.

JULIAN SCHNABEL HA VOLUTO WILLEM DAFOE PER INTERPRETARE VINCENT VAN GOGH NEL SUO NUOVO FILM. QUESTA È LA STORIA DELLA LORO “SPETTRALE” AVVENTURA

«Ero al Met con mamma. Guardai un’opera di Rembrandt, Aristotele contempla il busto di Omero, e in me successe qualcosa. Mi sembrò diversa da tutto ciò che la circondava: splendeva». Julian Schnabel non aveva nemmeno 10 anni,  il pomeriggio in cui capì di voler diventare un artista. Un desiderio così intenso da consentirgli di resistere anche nei periodi in cui non aveva «neanche i soldi per comprare una mozzarella». Finché, negli anni Ottanta, si affermò sulla scena newyorkese, aiutando molti altri a farsi strada.

«A quei tempi sognavo di creare una comune», racconta. «Lavoravo come cuoco in un ristorante vicino a Washington Square: gli artisti sarebbero venuti a mangiare gratis e avrebbero anche potuto mostrare il loro lavoro ai clienti». Difficile non restare ipnotizzati dai racconti del pittore, regista e sceneggiatore americano, classe 1951. Come quello sul suo viaggio in Italia, a 20 anni, solo per vedere il Caravaggio dal vivo, «perché sui libri non è mai la stessa cosa».

All’ultima Mostra del cinema di Venezia, dove al solito si è presentato sul red carpet in giacca e pigiama,  il pluripremiato e plurinominato (anche all’Oscar) Schnabel ha portato in concorso il suo sesto film, Van Gogh- Alla soglia dell’eternità. «Non faccio arte per illustrare quello che so», spiega, «ma per trovare qualcosa che non so. Il vero successo, dal mio punto di vista, arriva nel momento in cui crei e scopri qualcosa dentro di te. Quella è gioia e bellezza, lì ti senti davvero vivo, non quando gli altri guardano i tuoi lavori». Suo complice nell’impresa, stavolta, è stato  Willem Dafoe, 63 anni, che per la sua interpretazione di Van Gogh nel film (nelle sale dal 3 gennaio) ha vinto la Coppa Volpi come miglior attore protagonista.

Possente e impetuoso Schnabel, etereo e penetrante Dafoe, in questa conversazione si confrontano proprio sul pittore olandese dell’Ottocento, che per il regista diventa quasi un pretesto. «Il mio non è un biopic», chiarisce. «Quello che mi interessava era raccontare cosa significa essere artisti ed essere vivi». Così è nato il suo film più personale, che racconta gli ultimi anni di vita di Van Gogh, mettendo al centro il suo rapporto con la natura e la sensazione che restituisce creare un’opera d’arte.

Cosa avete scoperto l’uno dell’altro lavorando insieme?

Schnabel. «Conosco Willem da trent’anni, l’ho visto in situazioni da cui sarebbero scappati in molti. Da amico, se non gli avessi chiesto di interpretare Van Gogh non avrei sopportato me stesso. E da artista ho pensato che non ci fosse nessun altro con la sua profondità».

Dafoe: «Conosco Julian da una vita, sono stato in studio a guardarlo lavorare e ho visto anche cosa ha attraversato nella vita. Le persone e gli artisti con cui amo lavorare raccolgono cose intorno sé e vi si relazionano: non sono interpreti, creano sul serio. Stare intorno a gente così ti trasforma».Vi è mai capitato di sentirvi gli unici sani in un mondo di matti?

Dafoe: «Non ci ho mai pensato».

Schnabel. «Mi sento sempre così. E in effetti Van Gogh era sano, nonostante avesse una paura terrificante di impazzire. Sono andato con lo sceneggiatore Jean-Claude Carrière a vedere la mostra Van Gogh/Artaud: Il suicidato della società, al Musée d’Orsay. Guardando i suoi dipinti ci è venuta l’idea di rendere l’emozione, l’esperienza di avvicinarsi ai quadri, guardarli e passare oltre. Ma se penso al titolo del mio primo dipinto su tavola del 1978, I pazienti e i dottori, la domanda sottesa è chiara: sono da ricoverare quelli in manicomio o quelli che stanno fuori? La domanda “Chi è più matto?” era già lì».

(continua…)

L’intervista a Julian Schnabel e Willem Dafoe è pubblicata su GQ Dicembre 2018 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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