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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

Archivi Mensili: dicembre 2016

Emma Stone, «Sognare è potere»

14 mercoledì Dic 2016

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Amazing Spider Man, Andrew Garfield, Arizona, Birdman, Cabaret, Coppa Volpi, Cristiana Allievi, Damien Chazelle, Easy Girl, La La Land, Maniac, New York, Ryan Gosling, Steve Carell, The battle of the sexes, Woody Allen

CAMALEONTICA E IN CONTINUO MOVIMENTO, È LA CREATURA DI HOLLYWOOD CHE PIU’ INCANTA PER IL TALENTO NEL CAMBIARE PELLE. E RUOLI. IN LA LA LAND SVELA IL SUO PUNTO FERMO: LA CERTEZZA CHE I SOGNI TI INDICANO SEMPRE LA STRADA.

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Sul tavolo davanti a noi c’è una Red Bull. Emma Stone racconta che berla sarà un evento speciale: «lo farò alla fine della nostra intervista», scherza. È un camaleonte, questa giovane donna. Basta guardare le sue foto per accorgersi che la sua personalità è in continua evoluzione. Torna con la memoria alle sue prime audizioni e al feeling di essere rifiutata, che dall’alto di venti film girati, con tanto di nomination all’Oscar e Coppa Volpi vinta all’ultima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, sono ormai un ricordo lontano. «Non ho mai avuto un momento in cui ho pensato di fare le valigie e tornarmene a casa. Ma a essere onesta non mi sono mai esposta completamente». Non una frase a caso, perché in La La Land di Damien Chazelle, in cui la vedremo dal 26 gennaio accanto a Ryan Gosling, Emma incarna Mia, un’apprendista attrice che tenta di sfondare in teatro e intanto sbarca il lunario servendo cappuccini alle star del cinema. La relazione con Sebastian (Gosling), musicista jazz, dapprima aiuterà entrambi, poi il successo separerà le loro vite. «Mia è una donna che rischia molto. Passa sei anni a creare qualcosa di completamente suo. È la scrittrice, l’interprete e la regista di un one woman show: con queste premesse un rifiuto è devastante, e per fortuna non mi è mai successo di sperimentarlo. Ma sa cosa le dico? Ho imparato più dalle difficoltà, anche nelle mia vita privata, e dai film che non sono andati bene, che dalle esperienze che definiamo di successo. Le crisi ti costringono ad andare più in profondità, a essere migliore, a diventare più forte. E soprattutto a farti domande sul come hai fallito e su quanto tu stessa sia capacace di deludere gli altri. Tutto questo significa diventare davvero essere umani».

L’attrice nominata agli Oscar per Birdman, in cui era un’adolescente in difficoltà che rendeva la vita difficile a un padre ex celebrità decaduta, nelle vene ha sangue svedese (dal nonno paterno), inglese, tedesco, scozzese e irlandese. E non si definirebbe mai una ribelle: non ricorda la reazione di suo padre, quando gli ha presentato il primo ragazzo, «evidentemente era un tipo a posto», racconta ridendo. A 15 anni, Emma ha convinto i suoi a farle mollare la scuola per trasferirsi a Hollywood: è bastata una presentazione in PowerPoint, con tanto di titolo, per farli cedere. È così che si è trasferita con la mamma a Los Angeles. Me lo racconta in una mattina di sole nel patio di un hotel italiano, senza perdermi un attimo con quei grandi occhi verdi. Se le si chiede come vede la strada fatta fin qui, oggi che è una delle attrici più ricercate su piazza, non ha dubbi. «Due anni fa ho letto in un’intervista qualcosa che mi ha colpita. Si diceva che i sogni sorgono per incontrarci, trasformandosi in opportunità, e sto scoprendo che è proprio così: è il mio lavoro, in un certo senso, a rivelarsi a me».

(…)

Come Matthew McConaughey, Nicole Kidman e molti altre celeb, Emma sarà presto protagonista anche del piccolo schermo. Il primo progetto di cui si mormora è  Maniac, una serie da 30 minuti a puntata con il collega di Superbad Jonah Hill. È un’altra pietra miliare per l’attrice, che si misurerà anche con il ruolo di produttrice. La prossima primavera, a Londra, inizierà le riprese di The favourite con Yorgos Lanthimos, il regista di quel capolavoro stravagante che è The Lobster. Ma prima avremo il piacere di vederla in The Battle of the sexes, diretta da Jonathan Dayton, il film che ricostruisce l’epico confronto sul campo da tennis del 1973 in cui si sfidarono Billie Jean King e Bobby Riggs, interpretato da Steve Carell. «È un film incredibile, ha lo stesso direttore della fotografia di La La Land, Linus Sandgren, e gran parte della troupe. È un film così diverso da quelli che ho fatto finora, non avevo mai recitato una persona davvero esistita come Billie Jean King. E quello che voglio portare a un regista, oggi, è un senso di apertura e di esplorazione, un’attitudine a immergermi nello sconosciuto».

(continua…)

L’intervista integrale è la storia di copertina di D La Repubblica del 10 dicembre 2016 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Woody Allen «A scuola ero un asino»

14 mercoledì Dic 2016

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Miti, Quella volta che

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ipocondria, Woody Allen


Il grande regista e attore americano racconta a OK il suo passato di studente per niente modello. E smentisce la leggenda sul suo essere ipocondriaco, definendosi al massimo «un allarmista»

Tutti credono che io sia un intellettuale. Penso dipenda dal fatto che porto gli occhiali. In realtà non lo sono mai stato, a scuola ero un pessimo studente, mi hanno persino buttato fuori dall’Università. Tutti i miei amici sono diventati dottori e avvocati, io da giovane non sapevo cosa fare. Immagino che se non avessi avuto il dono di far ridere le persone sarei finito a riparare ascensori, non avrei potuto fare niente di creativo. Ci ho messo tempo a capire di avere un dono, un’abilità diversa. E la scoperta che si trattava di divertire le persone è stata lenta anche perché sono molto timido e l’ultima cosa che pensavo di fare era trovarmi su un palcoscenico o su un set cinematografico.
Spesso mi chiedono come faccio a fare un film dopo l’altro. Io rispondo: «È l’unica cosa buona che faccio, tutto il resto è sbagliato!».

Nessuno è un disastro totale, tutti possono fare qualcosa: io sono un disastro in tutto, ma sono produttivo. È stata questa la mia vera cura, più dell’analista. Spesso i giornali associano il mio nome alla psicanalisi e alla psicoterapia. Io ho sempre raccontato barzellette sull’argomento perché in America è molto facile far ridere schiacciando quel tasto.

CONTINUA A LEGGERE

Se si parla di sesso la gente ride immediatamente, lo stesso succede con la psicanalisi. Comunque ci ho flirtato sin da giovanissimo e mi sono avvicinato alla materia con risultati a volte buoni e altri meno buoni. Diciamo che ho pensieri positivi in merito, credo che faccia bene a moltissimi e ad altri no.

NON SONO IPOCONDRIACO
E sempre in merito ai miti che mi riguardano personalmente, non è vero che sonoipocondriaco, semmai sono un allarmista: non mi sento ammalato di continuo, è che quando io mi ammalo penso sempre sia la volta buona.

Dicevo della produttività, la mia vera terapia e la mia fortuna. Trovo che chiunque si impegni in un’attività faccia la cosa giusta, a me serve a non seguire pensieri catastrofici. Se non ci si tiene occupati, la mente fa viaggi strani e poco sani. Ma non è l’unico motivo per cui faccio un film all’anno. Ho capito col tempo che inventare storie è la mia passione e serve a mantenermi a un buon livello di energia generale. Non credo che per fare questo occorra essere attori o registi: essere occupati e avere un lavoro creativo sono due cose diverse.
Ci si può mantenere impegnati anche dipingendo il proprio appartamento, non è indispensabile avere quel dono speciale della creatività che hanno un pittore, un compositore, uno scrittore. Per quello si deve essere fortunati. E anche qui occorre precisare: con essere fortunati non intendo essere famosi, ma nascere con un talento. Picasso è nato con un talento, Mozart anche.

GIRARE FILM È LA MIA TERAPIA Quando mi ricordano che anche io sono musicista, sorrido e dico che le cose sono diverse da come sembrano.

CONTINUA A LEGGERE

La gente viene ad ascoltarmi suonare perché mi conosce come regista e attore, altrimenti non verrebbe nessuno! Non so se per me quale attività sia più terapeutica. Dirigere un film non è pesante, fanno tutto gli attori, basta ingaggiarne di bravi… Anche suonare al mio livello è facile, mi alleno solo un’ora al giorno, mentre i veri musicisti suonano cinque volte di più. Mentre scrivere sceneggiature è allucinante: sei solo nella stanza, non succede nulla. Dimenticavo, dirigere film mi fa bene anche perché mi permette di viaggiare. Parigi è il luogo in cui vivrei se non fossi a New York. Adoro anche Londra ma, se dovessi scegliere, Parigi è come casa, ha lo stesso nervosismo, la stessa cultura. Se non fossi stato così codardo da giovane, sarei andato a viverci. Ero spaventato dal perdere le mie radici. Che invece non dovevano essere così profonde, visto dove mi trovo adesso.

Articolo pubblicato su Ok Salute del 24 febbraio 2014

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Cassel va alla guerra

09 venerdì Dic 2016

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Festival di Cannes, Personaggi

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È solo la fine del mondo, Édouard Deluc, Brasile, Cristiana Allievi, Jean Pierre Cassel, Lea Seydoux, Maiwenn, Marion Cotillard, Mon roi-Il mio re, O filme da Minha vita, O grande circo Mìstico, Paul Gauguin, Sabine Litique, Vincent Cassel, Xavier Dolan

 

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L’attore francese Vincent Cassel, 50 anni (foto by Carlotta Manaigo).

Vederlo al centro di un gruppo di persone che parlano ma non si capiscono è una specie di corto circuito. Perché per Vincent Cassel la comunicazione è un fatto fondamentale. Non solo quella che passa attraverso le parole e i ragionamenti, ma soprattutto quella di corpi, istinti e percezioni. Anche per questo ha scelto Rio de Janeiro come base per la sua seconda vita, quella seguita alla fine del matrimonio con Monica Bellucci e allo status di padre delle loro due figlie. Cassel fatica a stare negli schemi, negli spazi confinati, o quanto meno sembra capace di sfarlo solo a tempo determinato. Una delle prime parole che nomina durante l’incontro è libertà, quando gli ricordiamo una frase pronunciata l’anno prima che non è passata inosservata, “Adesso sono il “gringo disponibile”. «Lo sono totalmente, sempre di più (ride, ndr). Mi sono creato una posizione sorprendente in Brasile. Gli stessi brasiliani mi chiedono “cosa ci fai qui, quando tutti noi vogliamo andare in Europa”?, io rispondo che vivo lì perché amo quel paese. I brasiliani sorridono, hanno tempo di spiegarti bene dov’è una certa via, ti parlano con piacere e amano il contatto fisico. Sono latini, hanno un approccio diverso, e anch’io sono latino, mia madre è corsa, amiamo il vino, siamo simili agli italiani. Certo, la vita quotidiana in Brasile è sempre stata un caos, e forse è quello che mi piace. Sono un uomo che apprezza l’Inghilterra ma preferisce l’Italia, perché non è perfettamente organizzata, c’è ancora quello spazio in cui le cose non sono chiarissime, e questo mi piace. E poi non fa freddo».

Il Brasile è una scoperta di 30 anni fa, ma non è stata tutta colpa di Orfeo Negro di Marcel Camus, né della musica di Vinicius de Moraes: è una questione di affinità elettive. Lo aveva capito Maiwenn, quando ha scelto il Vincent di Francia per interpretare il maschio in lotta tra il legame e l’indipendenza del suo Mon roi- Il mio re. Deve averlo capito il giovane talento della regia canadese, Xavier Dolan, che lo ha calato nella situazione di incomunicabilità del suo È solo la fine del mondo, gran Premio della giuria al Festival di Cannes, al cinema dal 7 dicembre. Un film tratto dalla piece teatrale di Jean-Luc Lagarce in cui da un incontro di famiglia emergono emozioni, silenzi, esitazioni, irrequietezza, inquietanti imperfezioni e soprattutto una grande incapacità di capirsi. «Quello che recitiamo nel film di Xavier è un po’ la realtà», racconta l’attore francese, con una barba folta e lunga dovuta al suo prossimo personaggio, il pittore Paul Gauguin, nel film diretto da Édouard Deluc e girato a Tahiti. «Quando qualcuno ti ascolta davvero si tratta di un vero regalo. Anch’io ammetto di non farlo sempre. I motivi sono vari, dal dare una certa immagine di me stesso al proteggermi, ma direi che si tratta soprattutto di egoismo. Questo, ahimè, è il modo in cui gli esseri umani comunicano, o non comunicano, è parte della natura umana non ascoltare troppo gli altri. Abbiamo un certo periodo di tempo da passare qui, non durerà tanto e questo evidentemente ci influenza. Ogni tanto ci sono anche i santi, ma non ne vedo molti in circolazione». A proposito di santi, Cassel soffre l’idealizzazione dell’uomo da parte della donna, quel sognare a tutti i costi un principe azzurro. Quando gli si fa notare che Dolan nei suoi film “massacra” le figure femminili (nel caso di È solo la fine del mondo interpretate da Nathalie Baye, Marion Cotillard e Lea Seydoux), non si nasconde di certo. «Vorrebbe sostenere che nella vita reale le donne sono carine, con gli uomini? Se c’è una guerra in corso che non si ferma mai è quella tra uomo e donna. Non possiamo vivere insieme e in quanto esseri sessuali non possiamo stare l’uno senza l’altro. Se guardiamo come va il mondo, tutto sembra voler uccidere il desiderio, creiamo matrimoni in modo da immobilizzare le persone con idee del tipo “non muoverti troppo”, o “una volta che hai scelto, è per sempre, per tutta la vita!”. Tutte le religioni fanno casini, i preti non possono fare sesso, i musulmani nascondono le donne, gli ortodossi separano maschi e femmine ed eventualmente il sesso lo fanno attraverso un lenzuolo con un buco in mezzo. Ammettiamolo, abbiamo problemi col sesso, è tutto in un certo senso è riferibile a questo. Gli uomini lottano per avere più potere solo per potersi permettere le donne che vogliono, e le donne vogliono piacere agli uomini ma cercano il potere per sfuggire a questo fatto, comportandosi da uomini. Questo fatto di avere in circolazione “donne con le palle” sarà una bella notizia? A me pare un’atrocità». Come tutti i veri zingari, Cassel è legato alle proprie radici, con cui ha dovuto fare i conti sotto vari aspetti. I suoi hanno divorziato quando aveva 14 anni, la madre è la giornalista Sabine Litique, il padre Jean Pierre, mancato qualche anno fa, faceva l’attore. «Ho scelto di essere un cattivo perché lui sullo schermo era sempre il “nice guy”, oggi mi fa molto sorridere vedere che gli assomiglio ancora più di anni fa. Se ho temuto il confronto? Sì e no, considero Gerard Depardieu il mio padre cinematografico, sarebbe stato molto più difficile essere suo figlio! La famiglia comunque è una cosa complicata: non la scegli tu ed è qualcosa da cui non puoi scappare. Puoi scegliere tua moglie, ma fratello, sorella e padre ti sono dati, e te la devi vedere con loro. Direi che non scegli nemmeno i tuoi figli, se credi in filosofie molto antiche scopri che sono loro che ti scelgono. Anche la credenza che i figli ti migliorano come persona non credo sia vera: se all’improvviso i padri diventassero persone meravigliose, non ci sarebbero in circolazione così tanti figli in crisi. Oscar Wilde scriveva “Charles inizia ad amare i suoi genitori, poi li odia e forse un giorno li perdonerà”. Trovo sia obbiettivo, qualsiasi cosa fai da genitore sbagli, e un giorno pagherai il conto».

Sono passati vent’anni dal primo film che lo ha consacrato come attore, L’Odio, una specie di dichiarazione sul futuro considerato che dal film di Mathieu Kassovitz in avanti ha infilato un personaggio inteso dopo l’altro, basta pensare a Nemico pubblico n. 1, La promessa dell’assassino e Il cigno Nero. Cassel è anche uno dei rari attori famosi in tutto il mondo che non si possono definire hollywoodiani, nemmeno quando partecipano a Jason Bourne. «È uno dei franchise più di classe che ci sono in circolazione, la troupe è inglese come il regista, Paul Greengrass, che però ama la Francia e ama il vino!». Anni fa gli piaceva ogni aspetto del suo lavoro, oggi guarda i film una volta sola e tutta la sua attenzione è focalizzata tra l’azione e il final cut.

«Recitare dev’essere divertente, più ti diverti più funziona. Anche con un soggetto difficile, profondo o triste ti devi godere il momento, devi raggiungere un punto in cui ti viene facile: più te la godi e più riveli te stesso, un po’ come fanno i bambini». Dice di non essere un tipo di uomo che pianifica molto il proprio lavoro. «Cerco di godermi quello che faccio e di restare libero. Ero un giovane attore quando ho sentiro dire a De Niro “il talento di un attore risiede nelle sue scelte”. Mi sono chiedo a lungo cosa volesse dire, intendeva sul set o rispetto ai film che accetti? Sono arrivato alla conclusione che si riferiva a tutte e due le cose. Se mi volto indietro mi rendo conto che le scelte fatte ti rappresentano davvero come persona». Agenda alla mano, nel suo immediato futuro ci sono due film brasiliani, O filme da Minha vita e O grande circo Mìstico, una pellicola francese con Sandrine Kiberlain, Fleuve Noir, e un film politico, Entebbe, di José Pedilha, sugli ostaggi palestinesi in Israele. E se gli fai notare che la quantità di film che gira e la sua voglia di “restare libero” sembrano contrastare, Cassel ti chiarisce la sua filosofia una volta per tutte. «Sono tutti film con cui giro per il mondo, questo è ciò che intendo con la parola libertà».

Intervista pubblicata su D La Repubblica del 3 dicembre 2016.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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