Storia di copertina del 28 Agosto 2025 adesso in edicola
Siamo a Parigi. Indossa jeans e una maglia blu con la scritta rock and roll. Si volta verso il publicist che è nella stanza con noi e, gesto raro, gli chiede di avere più tempo per raccontarsi. Le faccio notare che è più rilassata dell’ultima volta che ci siamo incontrate. Lei scherza: «oggi non ho i miei figli a cui badare!». Valeria Bruni Tedeschi ride, come farà spesso in questa intervista. Nei prossimi giorni porta in Concorso alla Mostra del Cinema Di Venezia Duse, di Pietro Marcello (nelle sale dal 18 settembre con PiperFilm) in cui interpreta Eleonora Duse negli ultimi anni della sua vita. E chi, meglio dell’attrice e regista torinese naturalizzata francese, avrebbe potuto incarnare gli ultimi anni di una donna nata nel 1858, capace ancora oggi di essere un’icona nonostante di lei siano rimasti solo un film muto e le riprese del suo funerale a New York? Nessuna. Dal 2 ottobre la vedremo anche in L’attachement – La tenerezza, di Carine Tardieu (No.Mad Entertainment), tratto dal romanzo L’Intimité di Alice Ferney: qui è una bibliotecaria cinquantenne single per scelta che si trova ad instaurare un legame speciale con il suo vicino di casa e i suoi bambini.
(continua…)
L’intervista di copertina completa è su Donna Moderna del 28 Agosto 2025
Nel film di Rebecca Lenkiewicz, Hot Milk, dal 22 agosto sulla piattaforma MUBI, l’attrice franco-britannica non ancora trentenne si confronta con un personaggio debole che «per quanto cerchi di ribellarsi o sbattere la porta, alla fine torna sempre dalla mamma malata e da lei viene risucchiata
di Cristiana Allievi
Le attrici Vicky Krieps e Emma Mackey in una scena di Hot Milk (courtesy MUBI).
A 23 anni Emma Mackey si è fatta conoscere nei panni ribelli di Maeve, con capelli rosa e stile grunge in Sex Education – ruolo che le è valso un Bafta. Da lì la sua carriera è stata un crescendo di trasformazioni: assassina in Assassinio sul Nilo, Emily Brontë nell’omonimo biopic, fino a Barbie di Greta Gerwig. Oggi l’attrice franco-britannica – riservata e lontana dai social – torna protagonista con Hot Milk, presentato in anteprima mondiale alla Berlinale e dal 22 agosto su MUBI. E presto la vedremo in Alpha di Julia Ducournau (al cinema dal 18 settembre).
Attrici e registe internazionali caratterizzano molti dei film presentati alla rassegna nella Svizzera tedesca, inaugurata il 3 ottobre e che si chiuderà domenica. Il manifesto della ventesima edizione è firmato da Wim Wenders
C’è un’aria di festa particolare, al Zurigo Film Festival (iniziato il 3, finirà domenica 13 ottobre). Il motivo è che la rassegna di cinema più importante della Svizzera – e il secondo festival in lingua tedesca per rilevanza, dopo la Berlinale – compie vent’anni. Per questo importante compleanno la rassegna si è fatta diversi regali, a partire dalla presenza di star come Kate Winslet, Ralph Fiennes, Peter Saarsgard, Pamela Anderson, Richard Gere, Jude Law, Alicia Vikander e molti altri.Il cineasta tedesco Wim Wenders ha firmato il poster dell’edizione speciale, scegliendo il color oro per il 20 e creando un’immagine che è in vendita in città a 5000 franchi (le 50 copie firmate personalmente dal regista, mentre le 300 senza firma si portano a casa per 55 franchi). L’altra particolarità della celebrazione è stata presto chiara agli addetti ai lavori, sin dall’arrivo nel quartier generale del festival, completamente ristrutturato con un concetto modulare e materiali sostenibili: l’obiettivo del direttore artistico Christian Jungen era quello di avvicinare i cittadini di Zurigo alle star del cinema, ed è stato raggiunto grazie a un accesso senza barriere a tutti i piani del blocco centrale dell’edificio, con una nuova rampa che consente ai visitatori di raggiungere la terrazza esterna.
Il tutto si svolge accanto al lago nell’area del Bellevue e dell’Opera Haus, dove c’è anche il famoso green carpet su cui sfilano le star dei 14 film in competizione (da sommare ai 14 nella sezione documentari), per un totale di 108 film (17 anteprime mondiali), di cui 43 quest’anno sono diretti da donne. Ma al di là dei numeri, lo sguardo femminile è una chiara impronta dell’edizione, che ha presentato storie di donne forti, realmente esistite e di fantasia.
In «A family», Christine Angot esordisce alla regia presentando il suo primo lungometraggio sul trauma subito da adolescente, quando il padre ha iniziato a violentarla
di Cristiana Allievi
La scrittrice, sceneggiatrice e regista francese Christine Angot, 64 anni, esordio alla regia con A family (Berlinale 2024)
Christine Angot è una donna di parola. In tre decadi ha pubblicato una ventina di libri e scritto otto sceneggiature (due per i film di Claire Denis, The Sunshine In e Both Sides Of The Blade).
Con il docufilm A family, la scrittrice francese ha esordito alla regia presentando il suo primo lungometraggio, crudo e scomodo, alla 74esima Berlinale attualmente in corso.
E mentre scorrono le immagini lo spettatore inizia a individuare, fra fiumi di parole, quelle che non sono mai state pronunciate in un momento molto drammatico della vita della scrittrice sessantaquattrenne.
Il cuore del film è infatti il trauma subito all’età di 13 anni, quando il padre ha iniziato a violentarla, un abuso che è continuato nei weekend e durante le vacanze. È un tema che Angot aveva già menzionato in Incesto, del 1999, e in An Impossible Love (adattato e diventato anche un film di Catherine Corsini). Ma è stato Un voyage dans l’Est, che ha vinto il Prix Medicis nel 2021, a marcare una differenza netta: Angot è diventata esplicita e ha coinvolto le persone di famiglia che sapevano dell’abuso e che non sono riuscite ad impedirlo. A family mette al centro proprio loro, in un viaggio in giro per la Francia in cui Christine cerca risposte. Lo fa portandosi dietro una macchina da presa che diventa un’arma con una doppia funzione, quella di testimone e di difensore.
Il film apre con una scena in cui, arrivando a Strasburgo per presentare il suo libro, entra a forza in casa della sua matrigna con la direttrice della fotografia Caroline Champetier. Poi si vede la casa in cui ha vissuto suo padre, morto dopo essersi ammalato di Alzheimer, quindi arrivano gli incontri con la madre e l’ex marito. Angot ha bisogno di sentirsi dire dai membri della sua famiglia allargata, che avrebbero dovuto proteggerla, perché non ci sono stati. Con il risultato scontato, nel caso di chi ha subito un abuso, di trasferire lo stesso shock e congelamento nelle persone che incontra, essendo lei stessa in quello stato. Sullo schermo si vede quindi il rifiuto da parte degli interpellati ad andare in profondità nell’analisi dell’accaduto, l’unica che riesce da esprimersi attraverso la rabbia è la figlia, Leonore. È lei che trova le parole per rompere il senso di solitudine e di isolamento della madre, fino a quel momento trasferiti anche sullo spettatore.
Abbiamo incontrato la regista a Berlino, poche ore dopo la proiezione in anteprima mondiale di A family.
Ha incontrato suo padre per la prima volta a 13 anni, perché? «Quando sono nata, le coppie non sposate quasi non esistevano. Sono cresciuta da sola, con mia madre, che all’epoca era incinta e senza un marito, una vergogna, soprattutto nella provincia francese. Ma la mia nascita non è stata accidentale, i miei hanno deciso di avermi. Mia madre è ebrea e aveva un senso di superiorità data dal fatto di parlare molte lingue. Lavorava in un ufficio, ed era ebrea, e i miei si amavano».
E volevano un figlio. «Ma lui (il padre, ndr) ha sempre detto che non si sarebbe mai sposato, e all’epoca sposarsi era l’unica cosa da fare quando incontravi qualcuno. Così ha detto che avrebbe voluto fortemente un figlio da lei ma che non l’avrebbe sposata, infatti se n’è andato. Queste persone hanno idee molto chiare, sempre».
Quindi è cresciuta senza un padre? «Ero l’unica nella mia scuola, ma ho amato molto mia madre ed ero una bambina molto felice, studiavo ed ero piena di vita. Il mio nome era Christine Shwartz e sul mio certificato di famiglia non avevo un padre. Per la sua rispettabilità mia madre avrebbe voluto che mio padre mi riconoscesse, e quando la legge è cambiata ed è diventato possibile riconoscere un figlio anche dopo molto tempo, ha chiesto a mio padre di farlo. Si sono incontrati e in quel contesto lei ha organizzato il mio viaggio a Strasburgo per incontrarlo».
Non una buona idea… «All’epoca ero molto appassionata di lingue straniere. Quando ho iniziato a scrivere questa passione è svanita, e ho capito che la mia passione per le lingue era in realtà passione per “la” lingua».
Quando ha incontrato suo padre per la prima volta, si ricorda in che stato era? «Di grande ammirazione, avevo molte domande da fargli, sulle lingue, sugli accenti, su come avrebbe pronunciato questa e quell’altra parola… Credo che attraverso quel punto, la mia folle ammirazione per le lingue, lui ha potuto approfittare di me».
Prima di girare A family ha fatto terapia o ha usato il film come cura? «Nessuno può essere guarito girando un film, non credo. E credo più nella psicanalisi che nella terapia, l’ho iniziata quando la mia vita è diventata impossibile».
Quando? «A 23 anni non ero più in grado di vivere. Non potevo studiare, non riuscivo a mangiare né ad andare a fare la spesa, si è fermato tutto. Dopo aver provato tutto, persino l’agopuntura, ho deciso di rivolgermi a uno psicanalista».
Parlare con sua madre era impensabile? «Con quali parole? Avrei voluto farlo, ma non ho trovato né le parole giuste né il momento giusto. Non si formavano le frasi nella mia bocca».
Il film mostra momenti di violenza verbale negli incontri con i media di anni fa. Oggi il contesto del #metoo ha cambiato l’atmosfera? «C’è una diversa situazione globale, certo. Ma ho scritto Un voyage dans l’Est perché ho capito che quando vivi un’esperienza come l’incesto, l’umiliazione è il modo di trattarti, anno dopo anno. E quando scrivi romanzi, ogni volta che potranno ti umilieranno».
Ridicolizzare è un’altra strategia sociale? « C’è la società, è vero, ma c’è anche un crimine. Non ne avevo mai parlato, non volevo, l’ho rifiutato, volevo parlare della vergogna del primo giorno in cui incontri tuo padre e lui ti bacia sulla bocca. E il giorno dopo, quando non puoi raccontarlo a tua madre, e ti vergogni, come ti vergogni quando torni e dici alla tua migliore amica che tuo padre è così speciale e parla così tante lingue…».
Quella vergogna la abita tutt’oggi? «Quando ho iniziato a scrivere il libro, e poi ho chiesto a Caroline di prendere una videocamera e venire con me, la vergogna non c’era più. Dopo otto libri, ho usato un titolo come L’incesto, ma non c’era ancora quello che era davvero successo: è stato con Un voyage dans l’Est che è uscito veramente tutto».
In Francia quando si parla di abuso di donne sembra esserci una sorta di negazionismo, penso alla lettera di Carla Bruni, Carol Bouquet e altre donne in difesa di Gerard Depardieu, e a quella di Catherine Deneuve e di Catherine Breillat che cercavano di reagire allo stile radicale con cui l’America ha impostato il #metoo. «Abbiamo una brutta tradizione nel firmare lettere, noi francesi».
Jean-Paul Sartre negli anni Settanta ne firmò una con cui si schierava a favore dei rapporti consenzienti fra adulti e minori di 15 anni… «Sembra una tradizione, forse in Francia c’è questa idea di dover dire quello che si pensa, di dover spiegare… E forse temi come amore e sesso beneficerebbero di una certa extraterritorialità, per trovare una visione lucida».
Quando dice “mi dispiace per quello che ti è successo”, sua figlia diventa la chiave di volta del film. Erano le parole che aspettava da tempo? «Quando Lenore ha detto quella frase eravamo a Nizza. Subito dopo sono tornata a Parigi per il montaggio, e per me è stato ovvio che sarebbe stata quella fine del film. Lei ha gettato una luce su tutto, un evento in cui non speravo più».
È stata come una guarigione attraverso le parole, a lei così care? «Non avevo aspettative sul fatto che qualcuno potesse dire una frase così semplice, così diversa dal “ti compatisco…” che la potrebbe dire una gran dama e che denota un senso di superiorità. “Mi spiace per te” denota il fatto di aver capito che fare un’esperienza come quella che ho fatto io è davvero molto triste. E questo è il cuore della faccenda».
E se da domani facessimo una cosa nuova al giorno, anche solo per pochissimo tempo? Parte da qui l’ultimo film della regista, che parla di donne in cammino, pesi di cui alleggerirsi. E (un po’) della sua famiglia
di Cristiana Allievi
Intervista pubblicata su Donna Moderna dell’1 Febbraio
IL SUO METRO E OTTANTA l’HA PENALIZZATA FINCHE’ RIDLEY SCOTT NON L’hA RESA L’EROINA DI ALIEN. MA l’HA ANCHE AIUTATA A TENERE LONTANI I MOLESTATORI. ORA, A 74 ANNI, INTERPRETA UNA RICCA ARISTOCRATICA CATTIVA E DOMINATRICE. MA LEI È TUTTO IL CONTRARIO, COME SVELA IN QUESTA INTERVISTA
di Cristiana Allievi
Con Sigourney Weaver non puoi non parlare di statura. Perché il metro e ottanta di altezza che la contraddistingue è lo spartiacque della sua vita. Americana, studi a Standford, ha capito presto che il suo destino era altrove. Passata a Yale a frequentare un corso di recitazione, i professori la guardavano male per la sua stazza, lasciandole parti da prostituta o da ragazzo. Finché Ridley Scott l’ha immaginata diversamente, e con la Ellen Ripley della saga di Alien ha cambiato la storia del cinema: ha fatto di lei una nuova eroina, una traslazione dell’eroe maschile che aveva dominato fino a lì. Il personaggio fu così iconico che Sigourney conquistò una candidatura agli Oscar come miglior attrice, e da lì in poi Sigourney- all’anagrafe Susan Alexandra- ci ha regalato solo donne forti, dirette, piene di carisma. Nel crime thriller di Paul Schrader in uscita il 14 dicembre, Il maestro giardiniere, è Norma, una signora ricca e rigida dell’America razzista (e contemporanea) del Sud. Potrebbe definirsi una cattiva, in realtà è una proprietaria terriera che incarna il ruolo alla vecchia maniera maschile. Domina il suo giardiniere Narvel, anche sessualmente, ma quando arriva la nipote di lei, Maya, gli equilibri cambiano.
Con Norma è una dominatrice, una donna che usa il suo giardiniere come toy boy. Come si è sentita in quei panni? «Non sa quante volte mi hanno proposto di fare la ricca aristocratica cattiva e dominatrice, un ruolo rischioso da giocarsi, che evito perché carico di clichè. Ma Paul Schrader (regista, fra gli altri, di American Gigolò e lo sceneggiatore di Taxi Driver e Toro scatenato, ndr) ha creato una persona reale».
Come la descriverebbe? «Una donna con grandi sentimenti, difficili da controllare. Ho creduto nel suo desiderio di rappresentare una figura maschile per sua nipote, e di volerla salvare per amore».
La memoria è volata a Una donna in carriera, film iconico anni Ottanta in cui lei ha raccontato la competizione fra donne per un uomo. Qual è la differenza? «All’epoca la commedia vedeva due colleghe della stessa età. Catherine era old fashion e molto privilegiata, una persona scaltra e meno etica della collega, meno abbiente, che veniva da Staten Island. Il maestro giardiniere mette a confronto una giovane donna con una donna matura, è una storia di sopravvivenza in un triangolo amoroso drammatico».
E anche una storia antica, la donna più matura che perde l’uomo che si innamora di una più giovane… «Sarà anche una vecchia storia, ma è una situazione molto reale, come il modo in cui reagisce: Norma ha il cuore a pezzi e lascia uscire l’animale che ha dentro».
Una madre inglese come la sua, ha aiutato indirettamente a interpretare donne fredde? «Mia madre ci ha cresciuti facendoci credere che quello che sentivamo non era importante. È il modo inglese, e in un certo senso lo ammiro, ma sono dovuta andare oltre… Invidio voi italiani perché vi vedo più in contatto con le vostre emozioni».
(continua…)
Intervista integrale pubblicata su Oggi del 7/12/2023
L’attrice (ma non solo) in “Girasoli” racconta una storia d’amore e di follia tutta al femminile, all’interno dell’ospedale psichiatrico di Santa Teresa di Lisieux. E sulle battaglie delle donne si dice ottimista: “In questo periodo sta ridefinendosi una nuova situazione”
di Cristian Allievi
Catrinel salta gli ostacoli. Ma lo fa in modo diverso da quando, ragazzina a Iasi, Romania, è diventata un’atleta di valore seguendo le orme dei suoi genitori, entrambe ex campioni di atletica. Da adulta gli ostacoli che le vengono incontro sono più interiori, sono le ferite di una vita vissuta per strada, praticamente da sola, essendo nata da genitori diciassettenni ai tempi di Ceausescu. Grandi occhi scuri e le labbra carnose, notata da un agente durante la gita della scuola, Catrinel Marlon (Menghia all’anagrafe) diventa prima modella e poi attrice. E oggi, a 38 anni, mamma di una bambina, e incinta del secondo figlio, vince una gara importante: madrina del 41° Torino Film Festival, ha anche esordito alla regia con il suo primo lungometraggio, Girasoli, di cui è cosceneggiatrice. Il film è una storia d’amore e di follia tutta al femminile, all’interno dell’ospedale psichiatrico di Santa Teresa di Lisieux. Siamo negli anni Sessanta, fra lotte terapeutiche di psichiatre illuminate (Monica Guerritore) e bambine schizofreniche (Gaia Girace) che non meriterebbero terapie elettro convulsivanti, si fanno largo i “girasoli”, i pazienti più indipendenti che possono vivere fuori dai reparti.