Storia di copertina del 28 Agosto 2025 adesso in edicola
Siamo a Parigi. Indossa jeans e una maglia blu con la scritta rock and roll. Si volta verso il publicist che è nella stanza con noi e, gesto raro, gli chiede di avere più tempo per raccontarsi. Le faccio notare che è più rilassata dell’ultima volta che ci siamo incontrate. Lei scherza: «oggi non ho i miei figli a cui badare!». Valeria Bruni Tedeschi ride, come farà spesso in questa intervista. Nei prossimi giorni porta in Concorso alla Mostra del Cinema Di Venezia Duse, di Pietro Marcello (nelle sale dal 18 settembre con PiperFilm) in cui interpreta Eleonora Duse negli ultimi anni della sua vita. E chi, meglio dell’attrice e regista torinese naturalizzata francese, avrebbe potuto incarnare gli ultimi anni di una donna nata nel 1858, capace ancora oggi di essere un’icona nonostante di lei siano rimasti solo un film muto e le riprese del suo funerale a New York? Nessuna. Dal 2 ottobre la vedremo anche in L’attachement – La tenerezza, di Carine Tardieu (No.Mad Entertainment), tratto dal romanzo L’Intimité di Alice Ferney: qui è una bibliotecaria cinquantenne single per scelta che si trova ad instaurare un legame speciale con il suo vicino di casa e i suoi bambini.
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L’intervista di copertina completa è su Donna Moderna del 28 Agosto 2025
IN LA MISURA DEL DUBBIO È PROTAGONISTA, REGISTA E PER LA PRIMA VOLTA, SCENEGGIATORE. UNA SFIDA CHE HA PARECCHIO A CHE FARE DON LA SUA FAMIGLIA E CON UNA NUOVA CARRIERA NELLA MUSICA
di Cristiana Allievi
Intervista pubblicata su Donna Modera del 12 Settembre 2024
VIVONO NEL QUARTIERE DI TARANTO PIU’ VICINO ALL’EX ILVA. OGNI GIORNO LOTTANO CONTRO I VELENI DELl’ACCIAIERIA CHE FANNO AMMALARE I LORO FIGLI. CAPARBIE E RESILIENTI, SONO ORA AL CENTRO DI UN POTENTE PROGETTO FOTOGRAFICO ESPOSTO PER LE STRADE DELLA CITTA’
di Cristiana Allievi
Se è vero che è nella natura di tutte le madri lottare per i propri figli, ce ne sono alcune che sono costrette a farlo più delle altre. Sono le madri di Tamburi, il quartiere di Taranto più vicino al polo siderurgico dell’ex Ilva. È una delle più grandi fabbriche d’acciaio d’Europa – e dal 1965 emette fumi nocivi che si ritiene abbiano causato migliaia di morti per cancro. Ha contaminato terra, aria e acque con diversi cancerogeni e polveri di amianto, causando uno dei più seri disastri ambientali del nostro paese. Sono quello con cui convivono tutti i giorni queste donne, i veleni che fanno ammalare i loro figli. Eppure, nonostante l’ansia, il dolore e la rabbia non si arrendono.
Resilienti e caparbie, come appaiono nel potentissimo progetto fotografico di cui sono protagoniste: a loro è dedicata la mostra fotografica di ArtLab Eyland, organizzata da Phest e dal Comune di Taranto, che fino al 30 giugno, nella parte vecchia della città, racconta la maternità.
Gli scatti sono stati commissionati a Lisa Sorgini, 43 anni, fotografa australiana di padre abruzzese che ha trascorso un mese nella città dei due mari fotografando situazioni che arrivano dritte al cuore. «Tutte le donne che ho incontrato a Tamburi hanno almeno un membro della famiglia morto di cancro», racconta. «Maria ha perso sua sorella un anno fa. Vive in un piccolissimo buco, dorme nello stesso letto con suo figlio e sua madre. Deve chiudere le finestre quando c’è vento per non far entrare in casa aria tossica. Non ha un lavoro perché tutto si ferma, se il vento va nelle direzione delle case, i ritmi sono governati dal lavoro sull’acciaio. Quando le ho chiesto “andresti via di qui?”, mi ha risposto che la sua vita è tutta lì, cosa che mi ha spaccato il cuore».
Articolo integrale pubblicato su Donna Modernadel 13 Giugno 2024
La fotografia è arrivata nella sua vita quando aveva 20 anni. Dopo aver studiato al liceo lo sviluppo e la camera oscura, la maggior parte dei segreti del mestiere li ha imparati da autodidatta. Nel 2015 è diventata madre di Ari, il primo dei suoi due figli, e per lei è stato l’inizio di un nuovo modo di essere donna e di lavorare. «Mio figlio è nato poco prima della morte di mia madre, un fatto che ha portato l’esperienza della mia maternità a un altro livello». La sua attenzione si è spostata. «Invece di fotografare quello che credevo gli altri volessero vedere, ho usato la macchina come un modo per processare quello che sentivo, e mi sono orientata sui ritratti».
Lisa ha iniziato a dare una forma artistica allo choc causato dalle trasformazioni psicofisiche che la maternità comporta, inclusa la scoperta delle politiche sull’argomento e del sistema di supporto medico. «Prima di diventare mamma non avevo mai visto la realtà di quella esperienza, la cultura pop non la descrive nel suo quotidiano, non l’ha mai rappresentata in immagini». Così ha iniziato a farlo lei, ritraendo madri in giro per l’Australia in scatti di suprema bellezza.
La chiamata da Taranto è arrivata quando si trovava in Australia. «Mi hanno coinvolta in un festival a Monopoli, e da lì, grazie al mio progetto sulla maternità, mi hanno chiesto di creare un laboratorio sulle madri di Tamburi».
Quando è arrivata a Taranto con la sua famiglia ha avuto una reazione di sconforto. «Era tutto troppo duro e non essendo una fotoreporter temevo di non poter fare il lavoro giusto. Non ho voluto mostrare l’acciaieria, non era quello il focus: il mio modo di raccontare queste donne è stato attraverso la maternità e la protezione dei loro figli».
CRESCERE LA BAMBINA CHE IL TUO COMPAGNO HA AVUTO CON LA EX. LO FA LA PROTAGONISTA DI I FIGLI DEGLI ALTRI, DI REBECCA ZLOTOWSKI. E LO HA FATTO ANCHE L’ATTRICE FRANCESE, «ESISTONO TANTI MODI DI ESSERE MADRE»
dI Cristiana Allievi
L’attrice Virginie Efira, 45 anni, alla Mostra di Venezia con il film I figli degli altri.
Ha un’aria complice, nel suo micro abito in velluto nero dalla scollatura profonda. Quando si siede davanti a me non posso fare a meno di notare gli slip in tinta che sbucano mentre accavalla le gambe. E di ricordare la celebre scena di Sharon Stone in Basic Instinct (in cui, però, gli slip non li indossava). Con quel film il regista Paul Verhoeven trent’anni rese l’attrice americana un’icona sexy. E siccome il caso non esiste, è stato lo stesso Verhoeven a trasformare Efira da mattatrice della televisione belga in una delle attrici piu’ quotate d’Oltralpe. In Elle era la moglie dell’uomo che veniva sessualmente soddisfatto dalla Huppert (premio Cesar e miglior film straniero ai Golden Globes del 2017). Poi, con Benedetta, nel 2021, ci ha fatto conoscere le fantasie erotiche della Carlini, suora italiana lesbica vissuta nel diciassettesimo secolo e accusata di blasfemia. Ora Virginie Efira cambia completamente registro. In I figli degli altri, di Rebecca Zlotowski, in Concorso all’ultima Mostra di Venezia, è una quarantenne che suona la chitarra, insegna al liceo, è bella e in ottimi rapporti con il suo ex. Quando pero’ si innamora di Ali (Roschdy Zem), vorrebbe diventare madre e non ci riesce, e si lega visceralmente a Leila, la bambina di 4 anni che lui ha avuto con la ex (Chiara Mastroianni).
Come definirebbe la Rachel che interpreta nel film? «È un misto fra me, la regista Rebecca Slotowski e il personaggio della sceneggiatura. Mi fa venire in mente una frase di Flaubert, “ogni cosa, se osservata per abbastanza tempo, diventa interessante”. Ed è cosi che accade con Rachel, la amiamo sempre piu’ mentre la vediamo attraverso molti prismi, nonostante sia una donna tutto sommato semplice.
Recitare con una bambina di quattro anni è difficile? «Ho fatto molti film accanto ai bambini, fino a oggi. Puo’ succedere che siano capaci di memorizzare le frasi e di restituirtele senza problemi, oppure non sanno le battute, e puoi indirizzarli in modo spontaneo nel dialogo. Nel caso della bambina del film io e Rebecca le parlavamo come se fosse una vera attrice. È speciale, non aveva i genitori alle spalle a spingerla, voleva davvero fare quello che ha fatto».
Quando si separa dal padre di Leila, spiega alla bambina che non farete più le vacanze insieme e non vi vedrete più cosi spesso. Quando finiscono le riprese è facile separarsi da un’attrice bambina? «Non puoi staccarti troppo brutalmente, come invece puoi permetterti di fare con un adulto. Sul set i piccoli a volte mi chiamano “mamma” e io rispondo “no, non sono tua madre, anche se sono qui con te…”. Pochi giorni fa una piccola mi ha detto “ci vediamo ancora, vero?”, le ho risposto “certo, mandami le tue foto…”. Poi non è che andiamo a prendere il gelato tutti i sabati, lei ha sua madre… Comunque dovrebbe vedere il mio cellulare, e’ pieno di messaggi di bambini non miei, e non solo di quelli conosciuti sui set».
Mi sta dicendo che e’ stata matrigna anche nella vita vera? «Molte volte. Ho 45 anni, chissà perché a 23 anni mi sono sposata con un uomo che ha tre figli (Patrick Ridremont, ndr). Ricorderò sempre la madre, per lei non è stato facile ma mi ha aiutata ad avere una buona relazione con le sue bambine, che non hanno mai fatto fatica a prendermi per mano, anche davanti a lei. Adesso sono madre, ma prima ho sempre avuto relazioni con uomini che avevano figli, evidentemente mi piaceva».
Le ex sono mai tornate indietro per riconquistare il compagno, come vediamo nel film? «Beh, conosco anche questa esperienza, con quel senso di sentirsi escluse che ne segue. Ma vede, io so anche quanto sia forte il legame, quanto sia delicata la posizione in cui ti metti scegliendo un uomo che ha gia’ avuto figli con un’altra donna. In qualche modo metti già in conto il fatto che se deludi qualcuno è naturale, perché dietro di te c’è sempre una “grande donna” che ti ha preceduta, e tu non sei la madre dei suoi figli. Questo solletica un certo senso di solitudine, infatti quando ho letto la sceneggiatura sono scoppiata a piangere».
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Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 22 settembre 2022
Il protagonista di Secret Love colleziona ceramiche, adora il giardinaggio, si spoglia senza problemi. E qui fa un invito a se stesso e agli altri uomini: “Dobbiamo capire perché abbiamo avuto così a lungo tanti privilegi. Ed essere più gentili».
di Cristiana Allievi
L’attore inglese Josh O’Connor, 31 anni (courtesy TMDB)
Fa molto caldo nella stanza in cui ci troviamo. Josh O’Connor indossa una camicia bianca di seta con disegni neri ed è seduto su una poltrona. Con un accento molto british mi racconta la sua visione del maschio contemporaneo, mentre scivola in avanti con le gambe, per poi ritirarsi su. Da giovane voleva fare l’attore, ma pensando di non avere la stoffa si è dato al rugby. Gli torna in mente mentre parliamo di Secret Love di Eva Husson, finalmente al cinema dal 20 luglio. Quella che è forse la sua miglior interpretazione di sempre: ambientata nel 1924, lo vede nei panni di Paul, il figlio di una famiglia di nobili che porta sulle spalle vari pesi: i fratelli morti in guerra, un matrimonio imminente che non vorrebbe e soprattutto l’amore segreto per Jane (Odessa Young), domestica dei vicini di casa (Colin Firth e Olivia Colman). Lui è nudo per i tre quarti del film, in quello che è un incontro sublime fra sesso, cinema e scrittura (la storia è tratta dal romanzo Mothering Sunday di Graham Swift). 31 anni, figlio di un insegnante e di un’ostetrica, come principe Carlo d’Inghilterra in The crown ha vinto Emmy e Golden Globe, e molti altri riconoscimenti sono arrivati per La Terra di Dio. A New York, dove vive, fa teatro e film indipendenti e ha un’altra passione insospettabile a cui dedicarsi.
Vado dritta al punto: prima Carlo d’Inghilterra, ora Paul, un altro uomo costretto dall’etichetta. Perché sceglie questi maschi che non conoscono la libertà? «Non è mai stata una decisione cosciente, piuttosto una sorta di gioco. Ho incontrato molti uomini che si misurano con la loro mascolinità e le lotte di potere che questa comporta. Qualcuno mi ha detto di vedere una connessione fra il principe Carlo e il Johnny Saxby che ho interpretato in La terra di Dio. La mia prima reazione è stata “stai scherzando?”, ma riflettendoci l’idea è convincente: il principe Carlo era incapace di esprimere le proprie emozioni a causa del suo status sociale, esattamente come Johnny, che appartiene a una classe sociale molto inferiore. Chi come me viene dalla classe di mezzo, riesce molto bene a parlare di chi sta più in alto e di chi sta più in basso».
Il comune denominatore è l’essere “trattenuti”. «È un aspetto che mi affascina molto, ma mi interessa più quel senso di colpa che ha chi sopravvive. Paul è un uomo che eredita uno status in una certa società, e si deve portare sulle spalle il peso e la pressione dei suoi due fratelli morti in guerra, incluso il matrimonio con una donna che non ama ma che tutti intorno a lui amano, è la ricetta per un disastro perfetto!».
Cos’ha a che fare con lei, questo disastro? «Sto esplorando qualcosa che mi sembra interessante, ma non so perché continui a tornare. Sembra che non le stia rispondendo, la verità è che non conosco la risposta».
Come vede questa fase di confronto fra i sessi? «Credo che non sia un caso se vediamo spesso ruoli come quello che interpreto in Secret love. Gli uomini devono comprendere il loro posto nel mondo, e capire perché hanno avuto così tanti privilegi per così tanto tempo. In altre parole, dobbiamo capire come essere più gentili».
Il fatto che la regista sia una donna è un caso? «Neanche un po’. Finalmente abbiamo registe e sceneggiatrici che scrivono personaggi maschili per un pubblico di uomini e di donne. Diciamo che stiamo rivalutando le cose, ci stiamo lavorando su».
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Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 21 luglio 2022
È stato appena eletto, per il secondo anno consecutivo, attore più sexy del mondo. Dirige e interpreta un kolossal ambientato nello spazio. Ma con noi ha rievocato gli anni in cui doveva lottare per un ruolo. E i fiaschi che si sono alternati ai successi. Come quella volta in cui gli dissero di cantare…
THE MIDNIGHT SKY (2020)
George Clooney as Augustine and Caoilinn Springall as Iris.
Philippe Antonello/NETFLIX
È sorridente, abbronzato. E come spesso accade, in vena di scherzare. «Questa conversazione è la mia prima uscita dal lockdown, una specie», esordisce dalla sua casa di Los Angeles. Subito dopo aggiunge «sento mia suocera parlare nell’altra stanza…». Quasi una battuta a far dimenticare le voci di crisi del suo matrimonio con Amal. L’attore nato nel Kentucky 59 anni fa e diventato famoso grazie al pediatra Ross di E.R. e a una vita da single impenitente, oggi ha due gemelli, Ella e Alexander, che riposano nella stanza accanto, non lontani dalle due prestigiose statuette vinte agli Oscar. Oggi la sua è una carriera densa di film, davanti e dietro la macchina da presa, eppure il 23 dicembre riuscirà a esordire di nuovo, con una prima regia di un film nello spazio. Netflix gli ha messo a disposizione un budget stellare per The Midnight Sky, basato sul romanzodi fantascienza del 2016 di Lily Brooks-Dalton, La distanza fra le stelle, che dirigerà e interpreterà a tre anni di distanza da Suburbicon. Sarà Augustine, un brillante astronomo con barba da Babbo Natale, capelli corti e occhi spesso sgranati, che nel mezzo di un’ambigua catastrofe globale manda messaggi disperati alla terra da un remoto avamposto nel Circolo polare artico in cui vive. Crede di essere solo, finché non incontra Iris (Caoilinn Springall), una bambina di otto anni, figlia misteriosamente abbandonata da un genitore scienziato.
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L’intervista integrale è su Donna Moderna del 24 dicembre 2020
Suo papà gli ha insegnato a credere nel lavoro, nell’onestà, nella generosità. E ora l’attore, protagonista dell’emozionante Padrenostro che gli ha regalato la Coppa Volpi a Venezia, cerca di fare lo stesso con le 2 figlie: «Ogni energia è per loro»
L’attore e produttore Pierfrancesco Favino, 51 anni (courtesy The walk of fame).
Un padre negli anni di piombo. Un premio vinto per quel padre all’ultima Mostra del cinema di Venezia. E le parole pronunciate durante la cerimonia. « Un grande maestro diceva che i film sono come le stelle. Io dedico il premio a tutte le stelle che ancora nasceranno, e al brillare degli occhi nel buio». Adesso sono gli occhi di noi spettatori a brillare vedendo Pierfrancesco Favino al cinema in Padrenostro. Però se gli si fa notare che – dopo questa Coppa Volpi che va a sommarsi a tre Nastri d’argento e 4 David di Donatello (solo per citare qualche premio), a 51 anni non è più solo un bravo interprete ma rientra nella categoria degli attori cult, lui sdrammatizza: «Penso che nella vita arrivi un momento in cui quello che si fa è veramente quello che si è». Padrenostro, che lo vede anche nelle vesti di produttore, è ispirata a una vicenda accaduta alla famiglia del regista Claudio Noce. Siamo nel 1976 e Valerio (Mattia Garaci) è un bambino di 10 anni la cui vita viene sconvolta da un attentato terroristico ai danni del padre (Favino). Da lì in avanti la paura domina la sua vita, rafforzando la sua già sviluppata immaginazione. Finché non arriva Christian (Francesco Gheghi), poco più grande di lui, a fargli compagnia.
Cosa significa questo film per te? «Riguarda la mia infanzia, qualcosa che non solo mi ricordavo ma che mi coinvolgeva in prima persona. Parla di uomini che conosco. Mio padre e quello del regista appartengono alla stessa generazione, hanno atteggiamenti simili nel modo di essere maschi. A loro era complicato parlare direttamente».
Chi eri tu a 10 anni? «Un bambino che andava a letto dopo il Carosello, e che dal suo lettino sentiva parlare i propri genitori e quelli degli amici, senza che loro lo sapessero. Quel tipo di famiglia, come la mia, decideva che non dovevi avere le preoccupazioni dei grandi, ma tu sentivi che quella preoccupazione era presente. E provavi una sottile angoscia».
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Intervista pubblicata su Donna Moderna dell’8 ottobre 2020
ANCHE SE NON AMA I SELFIE, L’ATTORE RIMANE UN INDISCUSSO SEX SYMBOL. E SU NETFLIX TORNA A VESTIRE I PANNI DEL GIUSTIZIERE : IN HIGHWAYMEN-L’ULTIMA IMBOSCATA, DA’ LA CACCIA NIENTEMENO CHE A BONNIE E CLYDE. «PER LA GENTE NON ERANO CRIMINALI: ERANO MITI. CI VOLLERO 20 ANNI PER CATTURARLI».
Mi interessava capire 3 cose, andando a intervistare Kevin Costner. La prima: se è ancora un sex symbol, a 64 anni compiuti. La seconda: se è alto. E la terza: se usa il suo potere da seduttore. Attore, produttore e regista, ma anche cantante country e padre di 7 figli, lo incontro a Madrid, dove ha appena presentato The Highwaymen – L’ultima imboscata, il film di Lee Hancock in onda su Netflix. Indossa jeans beige e camicia blu, si avvicina con calma e con il sorriso sulle labbra (la risposta alle prime 2 domande che mi facevo è un sì, senza esitazioni). Mi parla del suo personaggio, Frank Hamer, l’ex Texas ranger passato alla storia per aver catturato Bonnie e Clyde, la leggendaria coppia di banditi che ha commesso decine di rapine e 13 omicidi a sangue freddo negli anni ’30. E mentre parla scopro che è sul punto di girare il suo quarto film da regista, un western ancora top secret.
Il suo è un ritorno alla grande,
da giustiziere. Un po’ come ne Gli intoccabili, del 1987, in cui
recitava al fianco di Sean Connery. Cosa l’ha attratta di questo ruolo? «Avevo nel cassetto la
sceneggiatura del film da 10 anni, ma non riuscivo mai a decidermi. Hamer era
un poliziotto che ha ucciso il triplo di persone rispetto a Bonnie e Clyde.
Però era una leggenda e questo ritratto inedito gli rende onore».
Ha qualcosa in comune con Hamer? «L’amore per la natura e la
pazienza. Nella mia vita ho passato molto tempo nei boschi: capisco il suo
essere quieto, a osservare».
Bonnie e Clyde erano criminali
eppure la gente li adorava, come mostrano le immagini del film. «Sì, c’erano 20.000 persone
al loro funerale, e molte altre lo seguirono in diretta alla radio. Erano
diventati dei miti, all’epoca ci vollero 20 anni per acciuffarli».
La loro storia insegna che la
fama può proteggere, anche in situazioni limite. «C’è un detto americano che
dice: “Se ti seguo con l’auto per mezzo chilometro probabilmente ti vedrò
passare con 2 rossi”. Vale per tutti, ma spesso a chi è famoso si concedono più
attenuanti. Non dico che sia giusto».
A proposito di fama: con più di
50 film alle spalle e 2 Oscar, lei come vive la celebrità? «Con disagio. Per esempio,
quando sono al ristorante e vedo che le persone mi fissano: si aspettano che
faccia cose strane, che risolva situazioni strane».
Fuori dalla sala dove stiamo parlando la aspettano tantissimi fan: vogliono scattare un selfie con lei. Le va bene finire ovunque, in Rete? «Non tanto, per la verità. Mi sembra di non venire bene nelle foto. A volte capita persino che un marito e una moglie litighino per mettersi in posa di fianco a me, e dopo un po’ non riesco più a stare nella posizione della foto».
(continua…)
Intervista pubblicata su Donna Moderna dell’11 Aprile 2019
DOPO QUATTRO ANNI DI LONTANANZA DAL SET, RECITA IN DUE FILM DI CARATTERE. IL CULT THE PARTY, GIRATO IN SOLI 15 GIORNI. E IL CANDIDATO ALL’OSCAR L’ORA PIU’ BUIA, IN CUI VESTE I PANNI DELLA MOGLIE DI WISTON CHURCHILL. UN RUOLO CHE ALL’INIZIO NON VOLEVA, TANTO CHE PER CONVINCERLA IL REGISTA HA RISCRITTO TUTTI I SUOI DIALOGHI
L’attrice Kristin Scott Thomas, 57 anni (courtesy of The Sidney Morning Herald):
«Odio guardarmi sullo schermo. Vedo qualcuno che finge di essere qualcun altro, e non ci credo». Fa un certo effetto sentir pronunciare una frase così dissacrante da un’icona del cinema come lei. L’unica spiegazione a tanta audacia da parte dell’interprete di Gosford Park e Il paziente inglese viene forse dal suo Dna. Kristin Scott Thomas, 57 anni, nata in Cornovaglia ma trapiantata a Parigi dall’età di 19 anni, è la pronipote del capitano Scott, l’esploratore che ha perso la vita durante la competizione per raggiungere il Polo Sud. E suo padre, mancato quando aveva solo cinque anni, era un pilota della componente aerea della Marina Militare del Regno Unito. Non stupisce, quindi, che qualche tempo fa abbia dichiarato che non avrebbe mai più accettato ruoli da spalla: per convincerla a calarsi nei panni della moglie di Churchill, Joe Wright ha dovuto riscrivere tutti i suoi dialoghi. Non stupisce nemmeno la proverbiale riservatezza, se si pensa che dal divorzio dal marito François Olivennes nel 2008, un famoso medico francese con cui ha a vuto tre figli, non ha mai parlato di nuove relazioni sentimentali. E ad ascoltare cosa racconta di The party, film accettato dopo quattro anni di assenza dai set, risulta chiaro che le sfide sono l’unica cosa a cui non sa resistere. Questa è una pirotecnica girandola di incontri con un cast stellare, scritta e diretta da Sally Potter e nelle sale dall’8 febbraio.
In The party è una politica in carriera che organizza una cena fra amici. In pochi minuti la festa si trasformerà in un disastro, a causa delle dinamiche profonde che si scatenano fra i partecipanti. «Ero terrorizzata sapendo che avevamo solo una settimana di prove e due per girare, temevo che non mi sarei ricordata i dialoghi. È stata un’esperienza intensissima, in cui noi attori siamo costantemente esposti. Avevo deciso di smettere di recitare per il cinema e fare solo teatro, ma è stata l’esperienza più piacevole avuta su un set».
Merito della regista di Lezioni di tango? «È una delle poche donne a dirigire su questo pianeta, sa scrivere sceneggiature che sembrano scolpite e ti costringe a diventare il personaggio che crea per te».
Nel suo caso, una politica spudoratamente diretta. «Nella vita vera sono molto più idealista di Janet: sono nata e cresciuta a Redruth, lì anche se si pensano certe cose, non si dicono! È stato liberatorio calarmi in una donna piena di brutale verità, viviamo un momento storico di disintegrazione, è arrivata l’ora di fare qualcosa, di diventare più politici».
Cosa intende dire? «Mia madre Deborah (Hurlbatt, ndr) era una politica, conosco bene quella vita, è brutale, non perdona. Per me è triste vedere che abbiamo perso fede e rispetto per le persone che cercano di combattere per il bene comune, e credo sia successo da quando abbiamo perso Hilary Clinton».
Sua madre ha cambiato la sua attitudine verso la politica? «Lei agiva a livello locale, ma mentre era a New Orleans ha attraversato la tragedia Katrina. Io sono arrivata lì quattro giorni dopo, ho visto quanto bene può fare una persona in una città distrutta. Sono onorata di avere una madre che ha combattuto per cambiare, non a livello nazionale ma nei piccoli centri, quelli in cui si può ottenere o distruggere di più. E comunque spero ancora di vedere una donna alla Casa Bianca».
(…continua)
Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 5 febbraio