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~ Interviste illuminanti

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Archivi della categoria: cinema

Maria Sole Tognazzi, «Dieci minuti per cambiare»

31 mercoledì Gen 2024

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Letteratura

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abbandono, Chiara Gamberale, Dieci minuti, donne, Fotini Peluso, Francesca Archibugi, interviste illuminanti, madri, Margherita Buy, Maria Sole tognazzi, relazioni

E se da domani facessimo una cosa nuova al giorno, anche solo per pochissimo tempo? Parte da qui l’ultimo film della regista, che parla di donne in cammino, pesi di cui alleggerirsi. E (un po’) della sua famiglia

di Cristiana Allievi

Intervista pubblicata su Donna Moderna dell’1 Febbraio

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Vincent Cassel: «Ma prima vengono le mie figlie»

19 venerdì Gen 2024

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura, giornalismo, Miti, Personaggi

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Athos, Brasile, David Cronenberg, Deva, Eva Green, interviste illuminanti, Milady, Monica Bellucci, Moschettieri, Narah Baptista, Parigi, Vincent Cassel

Attore, Sex symbol, Vincent Cassel da sempre ha accanto partner bellissime (a cominciare da Monica Bellucci). Al cinema sarà il moschettiere Athos, però il ruolo a cui tiene di più è quello di padre. E qui ci racconta perché

di Cristiana Allievi

Capelli cortissimi, è vestito di nero. Fuma una sigaretta elettronica e risponde in modo calmo.  Nella conversazione c’è una parola che ricorre spesso, è responsabilità. Fino a qualche anno fa il mantra di Vincent Cassel era “libertà”. 57 anni, l’attore e produttore francese è padre di tre figlie, e questo non è un dettaglio. Deva e Léonie, 19 e 13 anni, sono nate dal matrimonio con Monica Bellucci, durato 15 anni. La terza figlia, Amazonie, 4 anni, l’ha avuta con la seconda moglie Tina Kunakey, modella nota in Francia da cui si è separato la scorsa primavera, dopo un’unione consacrata da copertine di giornali e campagne pubblicitarie. Qualche mese dopo, con un post sul profilo Instagram è stata ufficializzata la nuova compagna, la modella Narah Baptista: due i segni distintivi, la spiccata somiglianza con Tina e gli stessi 30 anni di meno rispetto a Vincent. Ma si sbaglia, chi vede Cassel semplicemente come un uomo di mezza età che cede all’amore giovane. L’attore francese è appassionato di sport, è un padre molto presente e un artista con quarant’anni di esperienza ancora molto ricercato.  I suoi hanno divorziato quando aveva 14 anni, la madre è la giornalista Sabine Litique, il padre Jean Pierre, attore, è mancato qualche anno fa. «Oggi mi fa sorridere vedere che gli assomiglio ancora più di anni fa. Se ho temuto il confronto? Sì e no. La famiglia è una cosa complicata, non la scegli tu ed è qualcosa da cui non puoi scappare».

Dal 14 febbraio sarà al cinema con I tre moschettieri – Milady, colossale adattamento cinematografico del classico della letteratura francese di Alexandre Dumas. In questo sequel di Martin Bourboulon i moschettieri sono sfidati dall’amore in modi diversi. Al centro, la figura di Milady  de Winter (Eva Green) e i suoi intrighi di corte. Cassel interpreta Athos, un ex giovane romantico che si è sentito tradito ed è diventato il fantasma di se stesso.

Athos è un personaggio  scuro, cosa ci ha messo di sè? «Qualcosa di me c’è di sicuro, ma a dire  la verità la prima cosa che ho pensato è di essere troppo vecchio per interpretarlo. Invece di cercare di sembrare più giovane, però, ho cavalcato la mia natura. Ho lavorato con l’immagine di un vecchio lupo grigio, sia per i costumi sia per le acconciature».

Cosa intende dire? «Sono l’unico dei tre moschettieri ad avere i capelli lunghi, segno della nobiltà dell’epoca. E invece che metterla sul combattimento fisico, ho prediletto l’uso della strategia, questo ha cambiato anche la dinamica fra me e D’Artagnan, che proteggo come un padre perché in lui vedo l’uomo che sono stato e che non sarò più».

Lei non da l’idea di essere altrettanto tormentato, nella vita. «Lo sono eccome, ma tendo a non indulgere in quella direzione. Sono un tipo più solare, mi piace pensare di essere sempre in grado di tirarmi fuori dalle situazioni difficili, nonostante i limiti da essere umano».

Quando la vita la mette in ginocchio come si rialza? «Mi prendo cura di me, cerco di pensare positivamente. Ho la tendenza a tornare al corpo, con lo yoga, la meditazione e il surf. E poi con la maturità ho imparato un altro trucco».

(continua…)

Intervista di copertina per il settimanale Oggi del 25.1.2024

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«Non so chi sono, ma ti amo».

13 mercoledì Dic 2023

Posted by Cristiana Allievi in Berlinale, cinema, Cultura, Sundance, Zurigo Film Festival

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Augusto Gongora, Cile, interviste illuminanti, Maite Alberdi, Oggi settimanale, Paulina Urrutia, Pinochet. alzheimer, The eternal memory

UN GIORNALISTA CON L’ALZHEIMER. UNA MOGLIE CHE NON LO LASCIA AI SOLO. E UNA REGISTA, MAITE ALBERDI, CHE VIVE PER 5 ANNI CON LA COPPIA FILMANDO TUTTO. NE È NATO UN DOCUFILM STRAORDINARIO, CON UNA LEZIONE PER TUTTI: LA MEMORIA EMOTIVA E PIU’ RESISTENTE DELLE INFORMAZIONI PERDUTE. COME FANNO CAPIRE LE ULTIME PAROLE DI AUGUSTO

Di Cristiana Allievi

È notte. In un’atmosfera ovattata un uomo e una donna sono nel letto di casa. Si fa giorno, e pian piano si entra nella vita quotidiana. La donna fa molte domande. L’uomo a volte sa rispondere altre no. The eternal memory  è lo struggente docufilm della regista candidata all’Oscar Matie Alberdi con al centro la storia d’amore di due persone affatto ordinarie. Lui è Augusto Góngora, giornalista, documentarista e conduttore televisivo cileno che durante la dittatura ha raccontato ciò che i media tradizionali tacevano. Con il ritorno della democrazia è diventato responsabile di tutti i programmi culturali di Televisión Nacional de Chile, la principale emittente pubblica cilena. Lei è Paulina Urrutia, 17 anni più giovane, attrice, attivista e politica che ha ricoperto anche il ruolo di Ministro della cultura dal 2006 al 2010. Hanno vissuto 25 anni insieme. Quando ad Augusto è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer, la loro vita è stata stravolta. Hanno deciso di farsi riprendere e ne è nata un’opera molto commuovente: dopo aver vinto il Gran Premio della Giuria al Sundance, è passata dalla Berlinale al Zurigo Film Festival, dove abbiamo incontrato la sua autrice (e produttrice, insieme a Pablo Larrain). The eternal memory sarà nelle sale dal 7 dicembre.

(continua…)

Intervista pubblicata su Oggi del 14.12.2023

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Sigourney Weaver: «Perchè con me non ci provano proprio»

02 sabato Dic 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura, giornalismo, Miti, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Alien, Attrici, Avatar, Cristiana Allievi, donne, Hollywood, Il maestro giardiniere, interviste illuminanti, molestie sessuali, Oggi, Paul Schrader, Sigourney Weaver, Una donna in Carriera

IL SUO METRO E OTTANTA l’HA PENALIZZATA FINCHE’ RIDLEY SCOTT NON L’hA RESA L’EROINA DI ALIEN. MA l’HA ANCHE AIUTATA A TENERE LONTANI I MOLESTATORI. ORA, A 74 ANNI, INTERPRETA UNA RICCA ARISTOCRATICA CATTIVA E DOMINATRICE. MA LEI È TUTTO IL CONTRARIO, COME SVELA IN QUESTA INTERVISTA

di Cristiana Allievi

Con Sigourney Weaver non puoi non parlare di statura. Perché il metro e ottanta di altezza che la contraddistingue è lo spartiacque della sua vita. Americana, studi a Standford, ha capito presto che il suo destino era altrove. Passata  a Yale a frequentare un corso di recitazione, i professori la guardavano male per la sua stazza, lasciandole parti da prostituta o da ragazzo. Finché Ridley Scott l’ha immaginata diversamente, e con la Ellen Ripley della saga di Alien ha cambiato la storia del cinema: ha fatto di lei una nuova eroina, una traslazione dell’eroe maschile che aveva dominato fino a lì. Il personaggio fu così iconico che Sigourney conquistò una candidatura agli Oscar come miglior attrice, e da lì in poi Sigourney- all’anagrafe Susan Alexandra- ci ha regalato solo donne forti, dirette, piene di carisma. Nel crime thriller di Paul Schrader in uscita il 14 dicembre, Il maestro giardiniere, è Norma, una signora ricca e rigida dell’America razzista (e contemporanea) del Sud. Potrebbe definirsi una cattiva, in realtà è una proprietaria terriera che incarna il ruolo alla vecchia maniera maschile. Domina  il suo giardiniere Narvel, anche sessualmente, ma quando arriva la nipote di lei, Maya, gli equilibri cambiano.

Con Norma è una dominatrice, una donna che usa il suo giardiniere come toy boy. Come si è sentita in quei panni? «Non sa quante volte mi hanno proposto di fare la ricca  aristocratica cattiva e dominatrice, un ruolo rischioso da giocarsi, che evito perché carico di clichè. Ma Paul Schrader (regista, fra gli altri, di American Gigolò e lo sceneggiatore di Taxi Driver e Toro scatenato, ndr) ha creato una persona reale».

Come la descriverebbe? «Una donna con grandi sentimenti, difficili da controllare. Ho creduto nel suo desiderio di rappresentare una figura maschile per sua nipote, e di volerla salvare per amore».

La memoria è volata a Una donna in carriera,  film iconico anni Ottanta in cui lei ha raccontato la competizione fra donne per un uomo. Qual è la differenza? «All’epoca la commedia vedeva due colleghe della stessa età. Catherine era old fashion e molto privilegiata, una persona scaltra e meno etica della collega, meno abbiente, che veniva da Staten Island.  Il maestro giardiniere mette a confronto una giovane donna con una donna matura, è una storia di sopravvivenza in un triangolo amoroso drammatico».

E anche una storia antica, la donna più matura che perde l’uomo che si innamora di una più giovane… «Sarà anche una vecchia storia, ma è una situazione molto reale, come il modo in cui reagisce: Norma ha il cuore a pezzi e lascia uscire l’animale che ha dentro».

Una madre inglese come la sua, ha aiutato indirettamente a interpretare donne fredde? «Mia madre ci ha cresciuti facendoci credere che quello che sentivamo non era importante. È il modo inglese, e in un certo senso lo ammiro, ma sono dovuta andare oltre… Invidio voi italiani perché vi vedo più in contatto con le vostre emozioni».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Oggi del 7/12/2023

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Catrinel Marlon, intervista alla madrina del 41° Torino Film Festival

28 martedì Nov 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Torino Film Festival

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Catrinel Marlon, Catrinel Menghia, donne, Girasoli, interviste illuminanti, L'isola dei fischi, La gomera, Massimiliano di Lodovico, Romania

L’attrice (ma non solo) in “Girasoli” racconta una storia d’amore e di follia tutta al femminile, all’interno dell’ospedale psichiatrico di Santa Teresa di Lisieux. E sulle battaglie delle donne si dice ottimista: “In questo periodo sta ridefinendosi una nuova situazione”

di Cristian Allievi

Catrinel salta gli ostacoli. Ma lo fa in modo diverso da quando, ragazzina a Iasi, Romania, è diventata un’atleta di valore seguendo le orme dei suoi genitori, entrambe ex campioni di atletica. Da adulta gli ostacoli che le vengono incontro sono più interiori, sono le ferite di una vita vissuta per strada, praticamente da sola, essendo nata da genitori diciassettenni ai tempi di Ceausescu. Grandi occhi scuri e le labbra carnose, notata da un agente durante la gita della scuola, Catrinel Marlon (Menghia all’anagrafe) diventa prima modella e poi attrice. E oggi, a 38 anni, mamma di una bambina, e incinta del secondo figlio, vince una gara importante: madrina del 41° Torino Film Festival, ha anche esordito alla regia con il suo primo lungometraggio, Girasoli, di cui è cosceneggiatrice. Il film è una storia d’amore e di follia tutta al femminile, all’interno dell’ospedale psichiatrico di Santa Teresa di Lisieux. Siamo negli anni Sessanta, fra lotte terapeutiche di psichiatre illuminate (Monica Guerritore) e bambine schizofreniche (Gaia Girace) che non meriterebbero terapie elettro convulsivanti, si fanno largo i “girasoli”, i pazienti più indipendenti che possono vivere fuori dai reparti. 

(continua…)

Intervista pubblicata per il Settimanale OGGI

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Donatella Finocchiaro, «Uomini che hanno odiato me»

10 venerdì Nov 2023

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Serie tv

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Capri Revolution, cinema, Donatella Finocchiaro, donne, Film, I leoni di Sicilia, Luca BArbareschi, Svenduti, uomini, violenza

HA CONOSCIUTO LA SOFFERENZA DI RELAZIONI TOSSICHE. «LA PRIMA A 24 ANNI: MI PICCHIAVA E MI INSULTAVA. LA SECONDA A 37: HA MINATO LA MIA AUTOSTIMA. LA TERZA, L’ANNO SCORSO: DOPO TRE MESI BELLISSIMI, È DIVENTATO RABBIOSO». MA SI È PRESA LA RIVINCITA. IN TV, AL CINEMA E NON SOLO

di Cristiana Allievi

Pelle vellutata, occhi scuri, fascino mediorientale, Donatella Finocchiaro appare proprio bella quando la incontriamo a pochi giorni dagli inizi delle riprese di Svenduti, la commedia in stile francese con il collega d’Oltralpe Bruno Todeschini che Luca Barbareschi sta girando a Filicudi.

Qualche settimana prima, racconta, era in coda per prendere un gelato davanti al Palazzo del Casino al Lido di Venezia. Sua figlia ha pestato inavvertitamente il piede a un uomo, che si è voltato e ha rovesciato il caffè avanzato nella tazzina addosso alla bambina, andandosene. Quando si è girata, ha visto Nina, nove anni, vestita di bianco, macchiata e in lacrime. Lei ha gridato all’uomo che, scappando e di spalle, le ha risposto “mi ha fatto sporcare la camicia…”. «Mi ha stupita il fatto che, pur assistendo a una violenza su una bambina, nessuno abbia alzato un dito», dice Donatella Finocchiaro. L’aneddoto, come si scoprirà leggendo, non capita a caso. Ma l’intervista non può che partire dalla prima parte della serie I leoni di Sicilia, diretta da Paolo Genovese, sulla sagra dei Florio, la famiglia calabrese che arriva in Sicilia e crea un impero nel sud Italia del primo Novecento, visibile sulla piattaforma Disney +.

Una siciliana è normale che giri storie siciliane, e in Sicilia,  corretto?  «La sicilianità è un valore aggiunto, nel Sud c’è tanta bellezza, e di noi si dice che abbiamo una teatralità naturale».

Ma? «In Italia la sicilianità è anche un limite. Spesso finiscono per chiamarti solo per i film del sud, e non solo: se non sei napoletana non giri film napoletani, così come non hai accesso a pellicole romana se non sei nata nella capitale.  Il neorealismo ci ha un po’ segnati, questa settorialità è troppo forte. Come Germano, Favino e Lo Cascio dimostrano, noi attori sappiamo essere personaggi diversi, fateci almeno fare i provini per dimostrarlo».

In I leoni di Sicilia lei è Giuseppina, moglie di Paolo Florio, patriarca della dinastia.  «Una donna ingabbiata in un matrimonio senza amore, che ha vissuto nel rimpianto del passato e della sua Calabria e non ha mai lottato per nulla. Morirà a 85 anni, quindi ogni giorno affrontavo quattro ore di trucco, come tutti gli altri attori».

Donne e cinema, come siamo messi? «Male, nonostante presenze forti come quella di Emma Dante. A Venezia non c’era una regista donna in concorso, e a parte nel film di Saverio Costanzo, non c’era nemmeno una donna protagonista. Il maschilismo è imperante, e risponde alla tesi “io sono io, voi non siete niente…”».

Il maschilismo domina nonostante i nuovi movimenti di emancipazione, quindi? «È diventato più subdolo. La violenza che le donne subiscono fra le mura di casa è ancora importante, facciamo tanto rumore per quelle che muoiono, e per carità ci mancherebbe, ma ci sono anche molti uomini che distruggono l’autostima delle donne, e non è un fatto meno grave».

Lei è stata vittima di violenza? «È successo almeno tre volte nella mia vita. La prima avevo 24 anni, e non ho capito subito, finché la violenza verbale è diventata fisica. Mi viene in mente La conduzione delle colpe di Antonio Ciraolo, psicanalista siciliano Big little liese scrittore. Racconta molto bene come la donna viva in un senso di colpa costante».

Da dove nasce questo senso di colpa? «L’uomo ti ingabbia, ti aggancia dicendoti che ti ama. Per un anno ho preso calci e pedate, era geloso anche del mio sguardo, mi insultava a parole poi mi diceva “scusa, io ti amo”, proprio come si vede nella serie tv con la Kidman, Big Little Lies. Io ci cascavo, ma era solo mania di possesso. Al terzo episodio me ne sono andata».

La seconda? «Avevo 37 anni, e per due anni ho subito una violenza che ha minato la mia autostima, fino alla depressione. Non so cosa mi sia scattato dentro, facevo solo un po’ di bioenergetica ma ho avuto un pensiero, “mi sta distruggendo…”».

Ha capito perché? «Di fronte alla donna capace, che guadagna più di lui ed era affermata, per reggere l’insicurezza mi insultava dicendomi  “non sei intelligente, non leggi abbastanza, sei una cretina, fai l’attrice…”. E mi ha convinta, nonostante mi facessi un mazzo tanto per lavorare sulla mia autostima. Finchè mi sono detta “devo sparire dalla mia vita”».

L’ultima relazione violenta? «L’ho avutal’anno scorso. Mi innamoro di un ragazzo più giovane di me, passiamo tre mesi bellissimi, a quel punto inizia la violenza verbale, diventa sgarbato, rabbioso».

Ha lavorato su se stessa per capire cosa la porta in queste relazioni? «Si e ho capito che ad agganciarmi è uno schema interiore, il modello di uomo che è stato mio padre. Era fumentino, faceva saltare le cose in aria. Non ha mai toccato mia madre ma era violento verbalmente. Ricordo che quando si arrabbiava per strada, con esplosioni di ira, mi vergognavo molto».

Fino a una certa età, la violenza verbale ha lo stesso impatto sulla nostra psiche di quella fisica. «Infatti il semplice “stai zitta”, ti schiaccia, come raccontava la Murgia nel suo God save the Queer. Il problema è la gestione delle emozioni, della rabbia». 

Vuole dire la repressione? «Copriamo le emozioni con i coperchi, fino a esplodere. Gli uomini si giustificano, accumulano fino ad arrivare a sfogarti la loro rabbia addosso, invece di imparare a gestirla, e ci sono mille modi per farlo che non sono l’alcol, il Lexotan o la cocaina».

Il suo stato attuale? «Sono single da cinque mesi, e sono aperta ad innamorarmi di nuovo. Per fortuna dopo un anno con questo giovane ci siamo separati, nonostante abbia sempre avuto partner più giovani di me, forse 15 anni di differenza sono troppi». 

È impegnata in teatro, gira film d’autore e lavora su set internazionali come quello di Trust di Danny Boyle (HBO). Dove la vedremo nei prossimi mesi? «Ho appena finito di girare una serie Netflix diretta da Michele Alhaique che non è ancora stata annunciata. È un poliziesco in cui sono la moglie di un poliziotto e l’amante di Marco Giallini. A breve dovrebbe uscire anche Greta e le favole vere,  storia in cui ho una figlia che vuole salvare il mondo. È la nostra Greta Thunberg e vuole riportare l’orso polare nei ghiacciai. A interpretarla è la bravissima Sara Ciocca, ci sono anche Sabina Impacciatore e Raul Bova che fa mio marito. Spero che lo vedremo a Natale».

Intervista pubblicata sul settimanale Oggi del 16 Novembre

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Caleb Landry Jones, «Sono io l’uomo impossibile».

27 mercoledì Set 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Musica

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Caleb Landry Jones, cinema, interviste illuminanti, Jim Jarmush, Luc Besson, Musica, Vanity Fair

Per il suo ultimo film, Luc Besson temeva di non trovare l’attore giusto, ma a CALEB LANDRY JONES perconquistarloè bastato uno sguardo. In Dogman interpreta un ruolo complicato, come del resto è stata la sua vita da bambino. Difficile? Affatto, perché, dice, «è il dolore che ci accomuna»

di Cristiana Allievi

L’attore e musicista americano Caleb Landry Jones (foto courtesy PHILIPPE QUAISSE per Vanity Fair)

Ha occhi incredibilmente tranquilli. I capelli sono arruffati, li porta spesso indietro con la mano, il gesto di un ex bambino affetto da un disturbo ossessivo compulsivo che da adulto cerca (ancora) di fare ordine. Cresciuto in Texas in una fattoria, i suoi genitori – un imprenditore edile e un’insegnante – lo hanno incoraggiato a trovare una via espressiva per quelle emozioni che tendevano a restare incastrate dentro, producendo un senso di allarme che era il motore dei suoi incubi. Così Caleb Landry Jones disegnava su tutti i pavimenti di casa e poi si rifugiava in Barney, una serie tv per l’infanzia molto nota negli Usa. Il protagonista era un tirannosauro viola che sorrideva e cantava spesso. «Avrei fatto di tutto per andare a vivere nel suo mondo in cui il dolore sembrava non esistere davvero», ricorda. La madre, discendente di una dinastia di violinisti, lo aveva iscritto a danza classica e tip tap, poi lo aveva portato alla prima audizione. A 16 anni è apparso nella penultima scena di Non è un paese per vecchi. Da allora ha preso parte a 30 film per cui ha meritato premi importante come quello di miglior attore all’ultimo Cannes, per Nitram di Justin Kurzel. All’ottantesima Mostra di Venezia ha sfiorato la Coppa Volpi con Dogman di Luc Besson.

È lì che incontro Caleb, in un bellissimo hotel liberty. Ha una sigaretta arrotolata fra le dita e a differenza del suo Douglas non indossa guanti di velluto che si arrampicano lungo le braccia costellate di lentiggini.

Ispirata a un articolo di giornale che raccontava di un bambino di cinque anni tenuto chiuso in gabbia dal padre, la storia nera di Dogman è servita al regista francese per esplorare che cosa succede nella mente di chi cresce in quel modo, e scoprire come gestisce il dolore.

Dogman inizia con la frase di Alphonse de Lamartine “quando un uomo è in pericolo, Dio gli manda un cane”. A Douglas ne manda un centinaio. «Quello che interpreto è un ragazzo diverso, che viene accettato e accolto solo dai diversi, da coloro che soffrono. Le persone “normali” o lo respingono o lo usano».

Ha quasi sempre interpretato disperati e situazioni folli, le predilige? «Non le percepisco come folli, l’unica follia che avverto è la fatica di trovare un modo per rappresentarle (ride, ndr). Non sapendo da dove cominciare, osservo che le cose che a molti paiono strane a me non sembrano tali. Douglas non è affatto folle, lo è tutto ciò che lo circonda».

Ha travasato in lui tutto il dolore che conosce? «Quando creo qualcosa quello che emerge non è facilmente identificabile e non lo analizzo, lascio che sia il subconscio a lavorare l’amalgama di avvenimenti ed emozioni anche molto distanti nel tempo. Ma tutti conosciamo la perdita, sappiamo cos’è un cuore spezzato da un lutto, il dolore è qualcosa che condividiamo e di cui parliamo molto più di quanto non menzioniamo la gioia. Douglas cristallizza il dolore di tutti ed è completamente innocente, non ha fatto male a nessuno».

Ricorda cosa vi siete detti lei e Luc Besson al primo incontro?

«La sua più grande paura era quella di non incontrare l’attore giusto, caso in cui mi ha detto che avrebbe rinunciato al film».

(continua…)

L’intervista integrale è su Vanity Fair del 4 Ottobre 2023

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Ecco come sono i film di Venezia 80

03 domenica Set 2023

Posted by Cristiana Allievi in Academy Awards, arte, Attulità, cinema, Cultura, giornalismo, Miti, Moda & cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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Bastarden, Bradley Cooper, Comandante, DAvid Fincher, Dogman, donne, Ferrari, interviste illuminanti, Maestro, The Killer, Venezia 80

Superato il giro di boa è il momento di raccontare il meglio visto fino a qui sui film in Concorso, mentre mancano ancora film importanti

di Cristiana Allievi

COMANDANTE  di Edoardo De Angelis racconta l’impresa del Comandante della Marina militare Salvatore Todero (Favino), un uomo dall’intelligenza umana, prima ancora che strategica. È un racconto poetico che non rinuncia a intuizioni “zen” e a sottigliezze psicologiche. Nonostante siamo in guerra, nel 1943, e si spari alle persone, queste non smettono mai di essere viste e trattate come tali. Todero ha un modo estremamente creativo di  tenere alto l’umore e la fiducia dei suoi soldati, e lo fa con personalissimi stratagemmi come le patatine fritte (con lo strutto) e la recita dei nomi dei piatti di tutta Italia come fossero un mantra, quando il cibo finisce e nelle ciotole della truppa viene versata solo acqua. Raccontare un uomo che ha salvato in modo geniale un intero equipaggio belga mettendo comunque a rischio la propria vita e quella dei suoi uomini porta una gran bella luce sul nostro paese (va anche detto che il comandante, di quello che pensavano i fascisti delle sue decisioni, se ne infischiava). Certo, potevano risparmiarci il mandolino, clichè che molti italiani vorrebbero scrollarsi di dosso quando viaggiano nel mondo,  e questa è una scelta di sceneggiatura che resta un mistero. Però come altri film italiani di questa edizione veneziana, Comandante è caratterizzato da uno sforzo produttivo notevole e visibile, per cui si esce dalla sala con la sensazione di aver visto un film più competitivo a livello internazionale (Le Monde gli ha dato tre stelle e mezzo, per dire).

DOGMAN di Luc Besson racconta una storia familiare molto dolorosa con toni a metà tra la favola nera e l’horror. Il film apre con il motto “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”, e qui ce ne sono ben 100, dettaglio da cui si evince che la storia del personaggio principale è piuttosto dolorosa. A interpretarla un Caleb Laundry Jones in stato di grazia, e forse anche di Coppa Volpi. Però per quanto Besson sia chiaramente tornato ad alti livelli e gestisca la regia in modo perfetto, questo film dal cuore tenero a mio parere è carico di un eccesso emotivo dall’effetto boomerang.

FERRARI di Michael Mann è un ritratto senza sconti del commendatore  Enzo Ferrari (Adam Driver) e intreccia le vicende personali del manager a quelle delle corse della rossa fiammante. Siamo negli anni Cinquanta, a Modena, e la sceneggiatura si ispira al romanzo Enzo Ferrari: The Man and The Machine di Brock Yates, raccontando un uomo diviso fra la moglie Laura (l’ottima Penelope Cruz) e l’amante Lina Lardi (Shailene Woodley), con cui il commendatore ha un figlio non riconosciuto. Non è sereno nelle scelte aziendali, ma tira comunque dritto per la sua strada, nonostante dentro di lui lavori anche il dolore per il figlio morto, Dino. Riesce ad attirare l’attenzione della Fiat e a far rifluire denaro nelle casse vuote di Maranello, mette in riga i suoi piloti, batte la Maserati ed esce (vivo) dalle accuse per la morte di dodici persone a bordo strada durante la corsa Mille Miglia. Tutto accade nell’estate del 1957, un breve lasso di tempo che basta a farci innamorare dell’Emilia Romagna e dell’Italia intera.

BASTARDEN di Nikolaj Arcel è una storia tratta dal romanzo Kaptajnen og Ann Barbara di Ida Jessen che ruota intorno alla Danimarca e a un cocciuto capitano ostinato a coltivare la terra a patate  nonostante il terreno sia sterile e da bonificare e i nobili della zona lo vogliano lontano dalle loro proprietà, o morto, in alternativa.  Il re danese Nicola V, ubriaco e distratto, ha lo stesso desiderio spinto dal voler incassare tasse. Il film di Nikolaj Arcel ci trasporta nel Settecento con una fotografia e costumi magnifici. Ottima l’interpretazione di Mads Mikkelsen, ostinato nel voler ottenere anche un titolo nobiliare, idea che sarà messa a dura prova dalla presenza dalla ex cameriera di un perfido proprietario terriero.

Maestro. (L to R) Carey Mulligan as Felicia Montealegre and Bradley Cooper as Leonard Bernstein (Director/Writer) in Maestro. Cr. Jason McDonald/Netflix © 2023.

MAESTRO di Bradley Cooper è il film che ci racconta il genio di Leonard Bernstein con un taglio molto preciso, ovvero la relazione fra il compositore, musicista e direttore d’orchestra con la moglie Montealegre, interpretata da Carey Mulligan. Uno sforzo immenso, quello di Cooper nel doppio ruolo davanti e dietro la macchina da presa, con tanto di scrittura della sceneggiatura a quattro mani con Josh Singer. Stupenda è la ricostruzione degli ambienti dell’epoca, che contribuisce alla realizzazione dell’intento principale: rendere omaggio al grande cuore di questo artista di origini ebraiche, di cui contattiamo la complessa personalità. Cooper è uno a cui stare attenti perché ama schiacciare il piede sull’acceleratore delle emozioni e lasciare lo spettatore stordito (vedi alla voce A star is born), ma in questo film alza talmente l’asticella da riuscire a portarci con lui nel suo entusiasmo. E si capisce ancora di più questo lavoro mastodontico quando alla fine del film, insieme ai nomi dei produttori Spielberg e Scorsese, scorrono straordinarie immagini di repertorio del vero Bernstein: nel confronto diretto con il suo protagonista in carne ed ossa si comprende ancora di più la bravura dell’attore e regista. Bernstein è presente soprattutto grazie alla sua musica, ma il film vuole raccontarci altro, di lui, e riesce a dilaniare chi lo guarda, così diviso fra i sentimenti per una famiglia con tre figli, da una parte,  e gli uomini che ama dall’altra.  Cooper e Mulligan ci regalano due interpretazioni febbrili e da applausi, altro che protesi eccessive al naso (di lui).

The Killer. Michael Fassbender as an assassin in The Killer. Cr. Netflix ©2023.

THE KILLER di David Fincher, segna il grande ritorno di Michael Fassbender in una forma strepitosa. Si vede che ha fatto molto yoga e questo lo aiuta ad essere distaccato e glaciale come il sicario in cui sparisce. Un monologo fuori campo ci spiega tutto su cosa fa un professionista in attesa che arrivi la sua vittima, come tiene la mente allerta, come deve anticipare le mosse e non fidarsi di nessuno, come non debba nè esitare né improvvisare, e soprattutto mai empatizzare con la sua vittima. Ma la prima volta che un incidente lo fa fallire gli costa cara, la fidanzata a Santo Domingo finisce in terapia intensiva e lui inizia un cammino di silenziosa risalita che lo porterà fino al suo collega traditore. Affascinante l’archivio di passaporti imbustati, targhe false impilate, cartelli stradali per inscenare ogni professione che può essere necessaria (anche lo spazzino) per avvicinare la preda: sono tutti arnesi del perfetto killer contemporaneo. Affascinante anche l’occhio vitreo di Michael, che si ispira al fumetto originario. Sembra dare segni di cedimento solo alla fine, davanti a un’indimenticabile scambio con Tilda Swinton. Ma è solo una manovra diversiva.

LA BETE di Bertrand Bonello ci racconta un mondo del futuro dominato dall’Intelligenza Artificiale in cui, se le emozioni non sono in perfetto equilibrio, non è consentito trovare un impiego interessante. C’è una via per liberarsi da questo pericolo emotivo, si chiama purificazione, e consiste nell’indossare una tuta e immergersi in un liquido che ripulisce il dna dai traumi accumulati in diverse vite. Così vediamo una splendida Lea Seydoux attraversate tre epoche, spesso immortalata da primi piani, e mentre cambiano costumi e situazioni accanto a lei resta l’uomo che ama e che rappresenta l’amore, l’altrettanto bravo George MacKay (avrebbe dovuto esserci Gaspard Ulliel al suo posto, morto lo scorso anno).

Un’altra sfaccettatura della ricerca al femminile, così come accade nel film che descrivo sotto.

Kathryn Hunter and Emma Stone in POOR THINGS. Photo by Yorgos Lanthimos. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 20th Century Studios All Rights Reserved.

POVERE CREATURE di Yogor Lanthimos, film candidato alla vittoria del Leone d’Oro, ha una trama tratta dal libro omonimo secondo cui Bella Baxter (Emma Stone) è una donna che vive segregata in casa con un pezzo di corpo che le è stato “installato”. Si scoprirà presto che è il cervello del neonato di cui era incinta quando è morta, e che a trapiantarlo nel suo corpo è stato un dottore che ricorda Frankenstein (Willem Dafoe). Bella scappa di casa, si ribella, scopre il sesso e i suoi piaceri (con Mark Ruffalo), e in questa nuova versione di se stessa rende chi incontra dipendente da lei. Una sofisticata e nuova apertura sul mondo femminile, una sorprendente e accelerata evoluzione di Barbie, per citare il film che ha fatto resuscitare i botteghini di questa strana estate di grandi incassi e clamorose mancanze al Lido, giustificate dallo sciopero a Hollywood.

@Riproduzione riservata

Matthias Schoenaerts: «La forza non conta, a muovermi è il cuore»

27 giovedì Lug 2023

Posted by Cristiana Allievi in arte, Attulità, cinema, Cultura

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A time to die, attori, interviste illuminanti, Kursk, Kusrk, Matthias Schoenaerts, Movies Ispired, nuovi uomini, registi, Thomas Vintenberg, Un sapore di ruggine e ossa, uomini

DA BAMBINO ADORAVA MIKE TYSON, DA ADULTO DIETRO AL FISICO POSSENTE NASCONDE UN ANIMO SENSIBILE. COSI’ L’ATTORE BELGA HA CONQUISTATO I REGISTI PIU’ IMPORTANTI. E UNA SCHIERA DI ATTRICI (GRAZIE A SUA MADRE)

di Cristiana Allievi

È entrato in scena anticipando il futuro. Quando ancora non erano iniziate le rivendicazioni di genere, Matthias Schoenaerts rappresentava già un nuovo prototipo d’uomo: forte fisicamente e sensibile nell’animo. Alto, occhi chiarissimi, durante la nostra conversazione si beve un centrifugato. Penso che nonostante la prestanza notevole, ha basato la riuscita dei suoi personaggi sull’empatia. E per imparare lo standard hollywoodiano non ha nemmeno  dovuto volare Oltreoceano: ad Anversa, la sua città, aveva per mentore il padre Julien  Schoenaerts, attore di grande talento misto ad eccentricità (e a disagi psichici). Degli esseri umani, dentro e fuori dallo schermo, lo ha sempre attratto la fatica di stare al mondo, a partire da quella del suo idolo di bambino Mike Tyson. C’è un solo argomento su cui ammutolisce (a differenza di quanto faceva in passato) e sono le sue relazioni sentimentali. È stato fidanzato per cinque anni con l’avvocatessa Alexandra Schouteden, ha avuto una relazione con Pia Miller, modella, ma del presente non parla. Però nel nuovo film di  Thomas Vintenberg, con cui aveva già girato Via dalla pazza folla, sarà un uomo sposato e in attesa di un figlio che non incontrerà mai. La storia tratta dal romanzo A time to die di Robert Moore e che vedremo al cinema dal 27 luglio è basata sul reale incidente di K-141 Kursk, il  sottomarino russo affondato nel mare di Barents il 12 agosto 2000. Lui è  il comandante del Compartimento 7 del Kursk e lotta per salvare i suoi marinai mentre le ventitre famiglie a terra combattono contro l’orgoglio russo e le lentezze burocratiche.

È vero che è stato lei a suggerire a Thomas Vinterberg questo film? «Ho letto la sceneggiatura e ho pensato che fosse il regista giusto. Poco dopo lui ha pensato a me per il ruolo del personaggio principale (ci sono anche la Palma d’Oro Lea Seydoux, nei panni di sua moglie, e il premio Oscar Colin Firth in quelli della marina britannica ndr). Mi ha colpito questa lotta contro il tempo, un tema universale con cui tutti facciamo i conti».

Come si entra nello stato mentale di chi sa di avere ancora poco da vivere? «Il desiderio di farcela è più grande dell’accettazione della morte. Se ti arrendi è la fine, e vuoi sopravvivere per le persone che ami, per la tua famiglia. Questa storia dimostra che per amore puoi tirare fuori una forza che nemmeno immagini di avere».

Una storia girata in spazi ristretti come gli interni di un sottomarino è più difficile da sopportare? «Stare in uno spazio angusto con 25 attori, più altrettante persone della troupe, per sei settimane, è un’esperienza molto forte. Se non diventi matto ne esci trasformato, comprendi molti aspetti incomprensibili in altre circostanze».

Ad esempio? «Ho scoperto la mia grande forza d’animo, o forse è meglio dire che l’ho riscoperta. Anche al cinema, mi ha sempre interessato più il coraggio della brutalità».

Eppure lei è diventato famoso mostrando una forza fisica sexy e brutale.  Ha avuto paura che la trasformassero in un cliché, anche grazie al suo fisico imponente? «Sono fenomeni incontrollabili. Io mi muovo dal cuore, se una storia mi tocca la scelgo, altrimenti no. E a dirla tutta, odio quando vogliono farmi sembrare il bello di turno, preferisco essere brutto quando interpreto un ruolo».

A otto anni lei era già sul palco con suo padre, l’attore di teatro Julien Schoenaerts. «C’è chi sa di voler fare un lavoro da quando è bambino, io non sono così. Da adolescente suonavo, dipingevo, se ce n’era una cosa che non volevo fare a nessun costo era recitare. Certo, per non paragonarmi a mio padre, un uomo da cui sono stato molto distante. Poi, quando è mancato, le cose sono cambiate».

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su Donna Moderna del 20 Luglio 2023

@Riproduzione riservata

Denti da squalo, perché vedere questo film

05 lunedì Giu 2023

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura

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Tag

attualità, cinema, Claudio Santamaria, davidegentile, Denti da squalo, interviste illuminanti, Regia, registi, Squalo, Wired

di Cristiana Allievi

È UN BUON ESORDIO ALLA REGIA, QUELLO DI DAVIDE GENTILE. IN QUESTO ARTICOLO PER WIRED SPIEGO IL PERCHÉ

.

Se uno dei protagonisti della storia che racconterai è uno squalo, hai più di un problema da affrontare in partenza. Per esempio, come farlo incontrare con il suo coprotagonista, un bambino di 13 anni di nome Walter, senza che quest’ultimo diventi prelibato cibo per predatori. Ma anche come far muovere agevolmente il grosso pesce in un habitat naturale mentre funge da coscienza per il suo coprotagonista, e che quindi deve avere lo spazio e il tempo per osservarlo. Questa ricerca ha segnato l’esordio alla regia di Davide Gentile, classe 1985, che fino a qui si era misurato con cortometraggi e pochissimi attori, non potenzialmente voraci come quello che incontriamo in Denti da squalo.

Walter è un bambino introverso che ha perso suo padre da poco e vive con la madre, con cui cerca di riappacificarsi mentre tenta di guarire anche il trauma della perdita.

La prima inquadratura del film lo vede sulla spiaggia (con un veloce passaggio sul vero padre del protagonista, Tiziano Menichelli, e poco dopo sul vero padre del regista, Enzo Gentile, intento a leggere il giornale). Poi si vedono la casa di Walter, lui che si cambia e che sfreccia con la sua bicicletta nella macchia del litorale romano. Arriva davanti a un cancello chiuso, passa attraverso un buco della recinzione e si ritrova in una villa. C’è una bella piscina sulla cui superficie galleggiano molte foglie, Walter si tuffa e quando si volta vede arrivare verso di sé la pinna di uno squalo.

Una lavorazione complessa

«La domanda che ci siamo fatti era come realizzarlo, abbiamo pensato di utilizzare un vero esemplare erbivoro, ma non me la sono sentita. Se ci fosse stato un incidente con il bambino sarebbe stato terribile, uno squalo vero non è controllabile, e forse non ci avrebbero nemmeno assicurati», racconta il regista. «Siamo passati all’idea di costruirlo con l’animatronica, ma non avrebbe funzionato. La soluzione vincente è stata mescolare le tecniche, lavorare in animatronics con la computer grafica. In Italia gli effetti speciali non sono mai stati fatti a quei livelli, e noi dovevamo lavorare come a Hollywood ma senza i loro mezzi.  Mi hanno proposto una casa di produzione molto piccola ed ero in apprensione, invece hanno lavorato molto bene, sapendo che il risultato avrebbe cambiato la loro carriera, oltre che la mia».

(continua…)

Puoi leggere l’integrale a questo link Wired.it

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