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~ Interviste illuminanti

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Archivi tag: Teatro

Valeria Bruni Tedeschi, «La mia Duse»

29 venerdì Ago 2025

Posted by Cristiana Allievi in Attulità, cinema, Cultura, Personaggi

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cinema, cover story, Cristiana Allievi, Donna Moderna, donne, Duse, Duse The Greatest, Eleonora duse, femminismo, interviste illuminanti, L'attachement, Les Amandiers, Storia di Copertina, Teatro, VAleria Bruni Tedeschi

di Cristiana Allievi

Storia di copertina del 28 Agosto 2025 adesso in edicola

Siamo a Parigi. Indossa jeans e una maglia blu con la scritta rock and roll. Si volta verso il publicist che è nella stanza con noi e, gesto raro, gli chiede di avere più tempo per raccontarsi. Le faccio notare che è più rilassata dell’ultima volta che ci siamo incontrate. Lei scherza: «oggi non ho i miei figli a cui badare!». Valeria Bruni Tedeschi ride, come farà spesso in questa intervista. Nei prossimi giorni porta in Concorso alla Mostra del Cinema Di Venezia Duse, di Pietro Marcello (nelle sale dal 18 settembre con PiperFilm) in cui interpreta Eleonora Duse negli ultimi anni della sua vita. E chi, meglio dell’attrice e regista torinese naturalizzata francese, avrebbe potuto incarnare gli ultimi anni di una donna nata nel 1858, capace ancora oggi di essere un’icona nonostante di lei siano rimasti solo un film muto e le riprese del suo funerale a New York? Nessuna. Dal 2 ottobre la vedremo anche in L’attachement – La tenerezza, di Carine Tardieu (No.Mad Entertainment), tratto dal romanzo L’Intimité di Alice Ferney: qui è una bibliotecaria cinquantenne single per scelta che si trova ad instaurare un legame speciale  con il suo vicino di casa e i suoi bambini.

(continua…)

L’intervista di copertina completa è su Donna Moderna del 28 Agosto 2025

© Riproduzione riservata

Emma Thompson: «Odiarci è una perdita di tempo».

13 venerdì Set 2019

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Miti, Personaggi

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attrice, Cabaret, Casa Howard, cinema, Emma Thompson, Kenneth Branagh, Last nigh, Oscar, Quel che resta del giorno, Teatro

SULLA BATTAGLIA FRA I SESSI HA LE IDEE CHIARE: «I MASCHI VIAGGIANO SU UN’AUTOSTRADA, NOI DONNE ABBIAMO ANCORA MONTAGNE E FIUMI DA ATTRAVERSARE». LA THOMPSON È PROTAGONISTA DI UN FILM IN CUI DA’ FILO DA TORCERE A TUTTE LE SUE COLLEGHE. E NE PARLA CON L’INTELLIGENZA TAGLIENTE CHE LA CONTRADDISTINGUE

di Cristiana Allievi

L’attrice Emma Thompson, 60 anni. Nel film E poi c’è Katherine interpreta la leggendaria conduttrice tv Katherine Newbury.

«La famiglia è il centro di tutto per me. E con famiglia intendo le connessioni, non necessariamente i legami di sangue ma un gruppo più ampio, accogliente e nutriente di persone che mettono radici insieme». Ascoltarla parlare di legami, e capire come la coinvolgono, fa capire quanto la due volte premio Oscar sia un vero asso della recitazione. No, non nella realtà: sullo schermo. Perché la Thompson, che vive ancora nel quartiere londinese di Paddington, nella stessa strada in cui è cresciuta da ragazza, con vicino altri membri della sua famiglia, è al cinema con un ruolo che è l’esatto apposto del calore e dell’accoglienza con cui parla del suo nido. Ed è bravissima. E poi c’è Katherine, diretto da Nisha Ganatra e scritto dalla coprotagonista Mindy Kaling, è una delle migliori interpretazioni degli ultimi anni. Emma è Katherine Newbury ed è la leggendaria conduttrice tv di uno show vecchio stile che soffre di un costante calo di ascolti. I motivi? È poco empatica, ha uno staff di soli uomini, di cui non conosce nemmeno il nome, e ha la fama di odiare le donne. In pratica, le manca quel collante amorevole che serve a portare avanti uno staff di successo. Nella vita vera, invece, Emma ha lottato per farsi una famiglia insieme al marito Greg Wise (il secondo, dopo Kenneth Branagh). Sua figlia Gaia, 19 anni, è nata che aveva quasi 40 anni ed è stata concepita tramite la fecondazione artificiale. «È il mio miracolo, ancora oggi mi capita di tornare al ricordo della sua nascita, è come un pozzo da cui attingo forza». Avrebbe voluto altri figli ma non poteva averne, però Tindy è arrivato lo stesso nella sua vita. Ex soldato bambino in Rwanda, lo hanno accolto in famiglia con un’adozione informale quando aveva 16 anni. Era un adolescente traumatizzato, che veniva da un altro mondo, non si è trattato propriamente di un’adozione che conquista i titoli dei giornali. Anche nei panni di Katherine, la Thompson farà “un’adozione”: quando il capo della rete le annuncia che questa sarà la sua ultima stagione, fa assumere una donna giovane e inesperta fra i suoi autori, Molly, allo scopo di mettere a tacere le malelingue che la accusano di misoginia. Sarà l’inizio di una revisione totale e dagli esiti sorprendenti.

(continua…)

Intervista pubblicata su Grazia del 12/9/2019

© Riproduzione riservata

La Macchina di Amleto di Bob Wilson festeggia i 60 anni di Spoleto

24 giovedì Ago 2017

Posted by Cristiana Allievi in Cultura, Miti, Personaggi, Teatro

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Accademia Silvio d'Amico, calcio brasiliano, Cultura, Festival dei Due Mondi, Garrincha, Hamletmachine, l'Italia migliore, La macchina di Amleto, Robert Wilson, Shakespeare, Teatro

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Il registra e drammaturgo Robert Wilson, anche scultore, pittore, video artista e designer di suono e luci  (courtesy of Slamp)

«Nel 1973 ho fatto la mia prima performance a Spoleto. All’epoca ero un artista completamente sconosciuto e Gian Carlo Menotti ha avuto il coraggio di presentare Una lettera per la regina Vittoria, un lavoro in cui ho avvicinato un testo “nonsense” di Christopher Knowles  a un nuovo tipo di musica, un quartetto d’archi con musiche di Loyd. Per questo motivo tenevo a celebrare in molto speciale l’anniversario dei 60 anni del festival da lui creato». A parlare è uno dei più importanti artisti contemporanei viventi, il regista texano Robert Wilson, che il 14 luglio al Festival dei Due Mondi porterà l’Hamletmachine di Heiner Müller, un testo con cui aveva debuttato 31 anni fa a New York, e che da allora non aveva più affrontato. «I tempi sono cambiati, io stesso lo sono, e le persone che andranno in scena. Ricordo che già tra la prima rappresentazione con gli studenti della New York University e quella successiva, con gli allievi di Amburgo, c’era stato uno scarto notevole. I tedeschi conoscevano Müller ed erano più vicini ai fatti della rivoluzione di Budapest, su cui è blandamente basata l’opera. Gli americani, invece, erano lontani da quello che Heiner pensava di quel periodo». 75 anni, cresciuto in una piccola cittadina del Texas dove non c’erano teatri, gallerie d’arte o musei, Wilson è noto per una concezione di teatro che include il movimento e la danza, la pittura e il design, ma anche scultura, musica e parole. Un eclettismo che lo ha visto creare sodalizi con artisti di ogni provenienza, da Philip Glass a Tom Waits, da Lou Reed a Susan Sontag. E da anni il suo cuore batte in modo speciale per Shakespeare. «Quando studiavo in Texas lo trovavo difficile da leggere, e quando mi sono trasferito a New York, a vent’anni, lo percepivo come noioso. Ma quando ho sentito John Gielgud a un reading, per la prima volta, all’improvviso, qualcosa è risuonato dentro di me». Tanto che a un certo punto della carriera, negli anni Novanta, ha voluto cimentarsi lui stesso con il drammaturgo inglese. «La più grande sfida è stata proprio Amleto, ho passato quattro anni e mezzo per memorizzare le parti di tutti i personaggi, da Gertrude a Ofelia, e per sette anni l’ho portato in giro come un monologo». Il suo Hamletmachine è diversissimo, qui Amleto è una specie di macchinae il regista lo spiega per connessioni. «Andy Warhol ha detto “dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina”, e Heinrich von Kleist ha scritto Il teatro delle marionette, un testo straordinario in cui ha dichiarato “un bravo attore è come un orso, non si muove mai per primo, aspetta che sia tu a farlo…”». Fatto particolarmente degno di nota è che allo spettacolo del 14 luglio Wilson dirigerà il debutto di 15 attori ancora non diplomati dell’Accademia d’Arte drammatica Silvio d’Amico. «Di questi ragazzi mi ha molto colpito il fatto che guardassero al testo di Hamletmachine dal punto di vista filosofico e non storico. E come me all’epoca, si ritroveranno davanti a un’audience e a critici provenienti da tutto il mondo, sarà un’occasione unica per la loro carriera». Prima ancora del maestro, però, gli allievi della Silvio d’Amico devono ringraziare Salvatore Nastasi, vice segretario generale della Presidenza del Consiglio. 44 anni, laureato in Legge, ex direttore generale dello Spettacolo dal vivo e da quest’anno Presidente della Silvio D’Amico, l’idea di creare una compagnia di attori remunerati che poi porterà lo spettacolo per i teatri nazionali è stata sua. «Volevo che gli studenti avessero l’opportunità di mettere in pratica da subito e ad altissimo livello ciò che apprendono. Al Festival dei Due Mondi debutteranno anche due giovanissimi registi, Lorenzo Collalti, autore di Un ricordo d’inverno, e Mario Scandale, che dirigerà Arturo Cirillo in Notturno di donna con ospiti, di Annibale Ruccello». Il legame di Nastasi col teatro affonda le radici indietro nel tempo. «Direi che viene dai miei nonni, che si sono conosciuti al San Carlo di Napoli e di quel teatro mi hanno sempre parlato con gioia. Il destino ha voluto che conoscessi lì anche mia moglie Giulia (figlia di Giovanni Minoli, ndr), una coincidenza che trovo molto particolare».

Intanto a Spoleto si parlerà di nuovo di Wilson, che negli ultimi dieci anni è stato un appuntamento fisso. È già al lavoro con uno spettacolo (molto costoso) sul grande giocatore di calcio brasiliano Garrincha. «Con un folto gruppo di attori e una nutrita band di musicisti abbiamo letteralmente scritto le parole insieme. Improvvisiamo su tutto il fronte, dalla musica al lavoro di scena, un modo di procedere che sarebbe impensabile con i tedeschi con cui sto lavorando adesso». Perché ha scelto questo mito del dribbling? «Ero in Brasile ho scoperto lì questo eroe così noto di cui non sapevo nulla. Ho iniziato a conoscere la sua vita, tutto è inziato da lì».

Articolo pubblicato su D La repubblica del 15 luglio 2017

© Riproduzione riservata

Filippo Timi, un inferno di rose

21 venerdì Nov 2014

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Teatro

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cinema, Cristiana Allievi, Don Giovanni, Fabio Zambernardi, Filippo Timi, Flair, L'uomo tigre, Panorama, Pinocchio, Teatro

“Un vibratore del lusso infiammato di paillette, come una superstar pronta a morire sul Sunset Boulevard”: secondo Filippo Timi che porta in scena un fantasmagorico “Don Giovanni” l’anima sta nel costume. Filippo Timi è uno dei protagonisti del nuovo numero di Flair in edicola con Panorama questa settimana

Filippo Timi interpreta il Don Giovanni

Filippo Timi interpreta il “suo” Don Giovanni

«Cercavo qualcosa di assoluto, non di storicamente corretto. Stavo guardando 2001: Odissea nello spazio, in particolare l’ultima sequenza, quella casa-stanza dal pavimento abbagliante mi è sembrata perfetta per esprimere un non-luogo, astratto ma in apparenza reale, concreto. Quindi ho utilizzato il colore bianco e il plexiglass, accanto a quinte dorate, per restituire la mia idea – filosofia e personaggi compresi – tra Barocco e Rococò».

Con questa scena “anti-sobria” si presenta Il Don Giovanni secondo Filippo Timi, il personaggio libertino di Molière e Mozart, che l’attore e regista perugino senza facili reverenze ha venato di humor nero, trasformandolo in un virus che contamina il pianeta. In una girandola di pelli color carne e nero, di tessuti carichi al limite dell’indossabilità, di cimeli e luci caravaggesche, i costumi firmati dal design director di Prada Fabio Zambernardi con lo stilista Lawrence Steele diventano gabbie esistenziali, mentre i dialoghi si spingono oltre la morale. Non solo: video da YouTube, con ginnaste olimpioniche e improbabili ballerine cinesi, servono a cambi di scena, quanto alla colonna sonora che passa da L’Uomo Tigre, indimenticato eroe nipponico dei cartoon, alla liberatoria Bohemian Rhapsody dei Queen.

Dopo il successo al teatro Franco Parenti di Milano che ha coprodotto lo spettacolo con lo Stabile dell’Umbria, presto Timi giocherà in casa. Dal 10 al 14 aprile sarà infatti a Perugia, al Teatro Morlacchi. Un incontro delicato. «È un passaggio cruciale, perché apro lo spettacolo con un video che ho girato a mia madre. Indossa una parrucca, è truccata, percorre il “Viale del Tramonto” proprio a casa mia… Non vedo l’ora di vedere la sua faccia quando si riconoscerà al Morlacchi, in formato 9 x10 metri! E poi c’è il fatto che nessuno è profeta in patria, anche se nel mio caso sia Amleto sia la versione di Giulietta e Romeo che ho proposto in umbro sono piaciute. Diciamo che le premesse sono buone».

Don Giovanni è una scelta estetica. Ma poi, centrifugando pop, Stanley Kubrick, You Tube, anni ’80 e la Sirenetta, la visione che ne risulta è eccentrica.

Guardi, è Don Giovanni che ha scelto me. Stavo preparando un lavoro sul male, su Satana e il Grand Guignol, e sono capitato su questa figura vampirizzante, fagocitante. È un mito attuale talmente forte da aver scalzato tutti gli altri, anche dentro in me.

“Un vibratore del lusso infiammato da un inferno di paillette, come una Superstar pronta a morire sul Sunset Boulevard”. Parole di Fabio Zambernardi che ha creato i fantasmagorici costumi. È una definizione impegnativa.

Un critico ha scritto che l’anima di Don Giovanni è il suo costume. Quando ho letto queste parole ho tralasciato le scenografie e mi sono focalizzato sugli abiti. Con Fabio non ci siamo dati limiti, anche perché l’anima della questione è andare oltre tutto, anche la morale, in un Settecento in cui c’è il trionfo dell’apparenza. Quindi l’estetica eccessiva proposta in scena si è fatta da sé: ha una precisa funzione, ogni elemento è importante perché esprime qualcosa che va oltre.

Dunque l’anima del personaggio vive nei suoi costumi. Un principio che vale anche nella vita reale?

La persona è qualcos’altro, di meglio e di peggio del personaggio, che resta comunque uno specchio dell’individuo, in un gioco di rimandi continuo. Nel mio caso ho scoperto che più sono specifico e concreto nell’interpretazione, più riesco a parlare a tutti.

Di solito con il Settecento viene in mente Maria Antonietta, l’oro, i minuetti. Il suo Don Giovanni preferisce invece L’Uomo Tigre.

Contaminare per me è un dovere. E poi avevo bisogno di stacchi netti nello spettacolo. Così ho ricavato dei video da quella miniera straordinaria che è You Tube: i video rompono con il tutto, quindi lo affermano. La scelta dell’Uomo Tigre come sigla? Nella mia immaginazione era scontato che Don Giovanni lo ascoltasse. Sarà preoccupante, ma è la verità.

Quali altre tessere vanno a formare il puzzle della sua estetica?

Jean Cocteau ma anche il film Che cosa sono le nuvole di Pasolini, un colpo al cuore. Come per me lo sono stati Otto e mezzo e La dolce vita di Fellini. Stanislavskij insegna che l’immagine è basilare, basta pensare allo Sean Penn di This Must Be the Place. È un concetto ampio, ma per essere veri a volte ci vuole una maschera, una sovrapposizione che ti rende più spudorato: solo travestendoti puoi spogliarti.

In scena lei indossa tacchi dorati e improbabili pellicce ricavate con le parrucche delle femmine sedotte.

Nel Settecento il machismo era diverso da quello di oggi, il Casanovadi Fellini è un attore pieno di pizzi rosa, trovo un salto interessante usare qualcosa per affermare il suo contrario. Per questo indosso quel meraviglioso cappotto fatto con 1500 rose, di una pesantezza che non si può immaginare. L’impossibilità dei materiali e la scomodità dei costumi corrispondono alla ricerca di un linguaggio del corpo più affascinante.

A parte portare in scena un Satana in uniforme delle SS rosa shocking, cos’è l’inferno per lei?

Direi che è la vita (pausa, ndr). Ma io non do agli inferi un’accezione negativa. Per me è fatto di attriti, anche vitali. Mentre il paradiso è fatto di momenti in cui tutto sembra andare a posto. E avere un senso.

“Vivere è un abuso, mai un diritto”, si afferma nello spettacolo.

È la citazione dal filosofo nichilista francese Albert Caraco. Io non concordo: sono un gioioso della vita.

Sul piano estetico, qual è la conseguenza di essere se stessi?

L’originalità, nel bene e nel male. Questo significa non essere uguali a nessun altro. Io non ho uno stile, fuori dalla scena, diciamo che sto comodo, vario. La fortuna è che non mi viene richiesto di mettermi una divisa sociale. E quando vado sul set la prima cosa che fanno è cambiarmi, quindi non conta ciò che indosso: nella vita mi vesto, per spogliarmi sul lavoro.

Succederà anche nel suo prossimo film, Come il vento di Marco Simon Puccioni?

Lì sarò un uomo che insegna teatro in carcere e devo dire che portare sul set i jeans anni ’80 è stata una vera svolta: indossandoli mi sono sentito subito mio padre.

L’apparenza, che torna a toccare corde profonde. Insegnamenti avuti dalla figura paterna?

L’uso dei cerotti. Faceva il cementista, tornava spesso a casa con le dita delle mani massacrate e per farci più attenzione ci metteva sopra lo scotch da elettricista. Io uso lo stesso procedimento.

Sempre a proposito di “mise” originali: è vero che porterà in teatro anche Pinocchio?

Sì, e tutto sarà di legno, e la fatina, al posto della bacchetta magica, avrà la sega elettrica. È un atto necessario, per trasformare un burattino in bambino bisogna farlo a pezzi.

Scenografia e costumi spettacolari per il Don Giovanni di Filippo Timi

Scenografia e costumi spettacolari per il Don Giovanni di Filippo Timi

Qui il mio articolo su Flair

© Riproduzione Riservata

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