Pedro Pascal: «La pandemia poteva unirci ma ci ha divisi: ne sono uscito scardinato».
20 lunedì Ott 2025
20 lunedì Ott 2025
28 domenica Mag 2017
Posted in Cultura, Festival di Cannes, Personaggi
Tag
bilanci cannes, Cannes 2017, cinema, Diane Kruger, Joaquin Phoenix, Loveless, polemiche, premiati, The square
È quasi metaforico che la Palma d’Oro per il 70° del festival di Cannes sia stata assegnata allo svedese The square, di Ruben Ostlund, un film sulla decadenza del mondo dell’arte (e non solo quello).
Pochi secondi prima di annunciare il titolo, il presidente di giuria Pedro Almodovar ha dichiarato “tutto dipende dalla luce”, un’altra frase variamente interpretabile, in questa annata che verrà ricordata come la più povera di film davvero degni del festival di cinema più importante del mondo.
E proprio quest’anno è stato assegnato un premio eccezionale per il 70° anno: lo ha vinto Nicole Kidman, che con un video messaggio ha ringraziato Sofia Coppola e il festival, «grazie di esistere». Un premio meritato, se si pensa che l’attrice e produttrice australiana era presente sulla Croisette con ben quattro film, di cui due in concorso, L’inganno, proprio della Coppola, e The Killing of a sacred deer di Yorgos Lanthimos.
Il gran premio della giuria è andato a 120 Battements par minute di Robin Campillo, che in molti avrebbero voluto Palma d’oro, così come non ha convinto la miglior regia attribuita a Sofia Coppola, che con un video messaggio ha ringraziato sua madre, per aver sostenuto l’arte nella sua vita, e Jane Champion, per essere un modello artistico.
I due premi che hanno messo d’accordo tutti, o quasi, sono stati quelli alla miglior attrice, Diane Kruger, e al miglior attore, Joaquin Phoenix. La prima era sensibilmente toccata, «dedico la mia vittoria alle vittime della strage di Manchester, e a chi ha perso parte della propria vita», ha dichiarato con la voce spezzata. Mentre Phoenix ci ha messo un bel po’ ad alzarsi dalla poltrona per andare sul palco, visibilmente sorpreso. La spiegazione possibile è che avendo visto il suo You were never really here vincere il premio per la miglior sceneggiatura, pensava i giochi fossero chiusi. Invece proprio la sceneggiatura, che quest’anno è stata premiata a pari merito in due film, è la scelta più contestabile del festival.
Sono stati premiati infatti i questa categoria The killing of a sacred deer di Lanthimos e il film già citato di Lynne Ramsay, e soprattutto questo secondo non trova affatto la sua forza nella storia, ma nella regia e nella recitazione di Phoenix.
Anche il Premio della giuria, andato a Loveless, ha suscitato perplessità: il film del russo Andrey Zvyaginstev meritava di vincere un premio più importante.
Ma premi a parte, questa edizione sarà ricordata come l’edizione delle polemiche.Prima fra tutte quella che ha coinvolto Netflix, scoppiata per i titoli di Noah Baumbach e Bong Joon Ho, The Meyerowitz Stories con Dustin Hoffman e Adam Sandler e Okja con Tilda Swinton. Polemiche necessarie, che hanno fatto chiarezza sul dna del festival: dal 2018, ha dichiarato Thierry Fremaux, Cannes accetterà in concorso per la Palma d’Oro solo film pensati per uscire sul grande schermo.
Hanno fatto molto discutere anche i ritardi e le lungaggini delle procedure di sicurezza per entrare al Palais des Festival, con apertura delle borse una a una. Si ringrazia per aver scoraggiato atti di terrorismo, ma bisogna trovare un modo per snellire le code.
E per chiudere in bellezza, anche vista l’estate alle porte, vale la pena spendere una parola sulla Grecia, una specie di protagonista silenziosa. Almeno di tre film. In Sea Sorrow, proiettato fuori concorso, la regia esordiente Vanessa Redgrave la osanna come la terra capace di insegnare al resto del mondo come vanno trattati i rifugiati. In The killing of a sacred deerviene invece citata mitologicamente. Il cuore della storia è un parallelismo con il sacrificio di Ifigenia, figlia minore di Agamennone, che il padre sacrifica solo per andare a Troia, quindi per il potere. In ultimo la si vede in Aus Dem Nichts di Fatih Akin, come la terra che accoglie l’ultimo atto della sua protagonista, proprio Diane Kruger. Un gesto che diremo solo sembrare incomprensibile, per non svelare il finale del film, e che a detta della stessa attrice «ognuno dovrà spiegarsi a modo proprio». Un po’ come questa edizione del festival.
Articolo pubblicato su GQItalia.it
© Riproduzione riservata
28 sabato Gen 2017
Tag
Asghar Farhadi, Belfort, Cristiana Allievi, Il profeta, Joaquin Phoenix, Katell Quillévéré, Kevin Mcdonald, Mary Magdalene, Riparare i viventi, Tahar Rahim

Tahar Rahim, attore francese, 35 anni (courtesy of Esquire).
«Da ragazzo guardavo un film dopo l’altro e avevo in mente solo una cosa: diventare attore. Ho capito crescendo che il motivo è legato alla mia infanzia. I miei genitori mi hanno cresciuto con la visione che le cose te le devi guadagnare, il loro motto era “lavora e avrai quello che vuoi”, e da bambino l’unico compito che avevo era ottenere buoni risultati a scuola. Oggi quando giro un film è la stessa cosa: devo dare il meglio di me in quel momento, tutto il mio lavoro è lì».
L’attore più richiesto e versatile di Francia indossa occhiali da sole, jeans e maglietta, ed è di ottimo umore. Figlio di immigrati algerini, a Belfort vedeva tanti film anche perché si annoiava a morte. Dopo aver girato una serie tv di culto ha scoperto da un giornale che Jacques Audiard cercava un volto per un criminale. Si è sottoposto a tre mesi di casting estenuanti e ha fatto centro due volte: Il profeta gli ha regalato la fama mondiale e l’incontro con l’attuale moglie, l’attrice Leila Bekhti. E questo è un dettaglio importante, che si aggiunge al fatto di essere l’ultimo di dieci figli. Perché Tahar Rahim, 35 anni, non è il tipo d’uomo che ha in mente solo la carriera, anzi. Ribattezzato l’Al Pacino di Francia, ha lavorato con registi importanti come Fatih Akin, Ashgar Farhadi, Kevin Macdonald e Lou Ye, e la sua bravura lo ha portato fino a Hollywood, dove ha terminato da poco le riprese di Mary Magdalene, il colossal con Joaquin Phoenix e Rooney Mara che vedremo nel 2107. Ma ha anche altro per la testa, e quel bilanciamento che lascia spazio anche alla sua parte femminile lo rende estremamanete gradevole nella conversazione. «Voglio sapere cosa significa essere padre e prendersi cura di un’altra vita, e non temo di perdere occasioni di lavoro: se qualcuno mi vorrà nei suoi film aspetterà che sia di nuovo disponibile». Non una frase a caso, se si pensa al film in cui lo vedremo dal 26 gennaio, uno tra i più interessanti dell’ultima Mostra di Venezia. Riparare i viventi, diretto da Katell Quillévéré e tratto dall’omonimo bestseller di Malye de Kerangal, racconta di un grave incidente di un ragazzino e del trapianto di cuore che nell’arco di 24 ore sposterà la vita da lui a un’altra persona. In questo film che non si sofferma tanto sulla drammaticità dell’evento ma punta a trasformarlo, sollevando interrogativi su cosa sia la morte e dove vada a finire la vita quando esce dal nostro corpo, Tahar ha il delicatissimo compito di parlare con i parenti di chi è in coma per convincerli a donare gli organi dei propri cari, seguendone l’assegnazione. «Il mio personaggio, Thomas, è una specie di angelo sulla terra, è qui con un compito preciso. Il film racconta cosa significa donare agli altri, non solo i propri organi ma anche attraverso l’aiuto nella vita di tutti i giorni. Non credo nella reincarnazione, per me questa è l’unica vita che viviamo. Non so se con un trapianto passi qualcosa di te a un altro ma ho visto molte interviste, c’è chi dice “mi sento lo stesso” e chi invece dichiara di percepire “qualcosa di diverso in me…”. Forse se dai il tuo cuore a qualcun altro gli cedi anche una parte della tua anima, ma potrei dirlo solo dopo averlo provato». Racconta che deve a sua madre e alle sue sorelle l’aver coltivato la sua parte più sensibile. «Sono l’ultimo della famiglia, e in quella posizione osservi più di quanto parli. Per prepararmi a questo film ho guardato tantissimo la coordinatrice delle infermiere: non potevo starle vicino mentre era davvero all’opera con le famiglie, sarebbe stato poco rispettoso, ma l’ho osservata per fare tonnellate di domande, insieme a molte simulazioni».
Ha provato a fare surf da onda andando nel sud est della Francia, a Biarritz, ma ha scoperto che è uno sport troppo duro per lui. «Più cresco e più sento il bisogno di stare nella natura. La mia passione è il cielo, l’astromonia. Se vuoi veramente conoscerlo devi andare alle Hawaii, o in certi paesi in montagna, ci vuole tempo per spostarsi e non è facile con il lavoro che faccio. Ma con questa passione così forte ci devo fare qualcosa, vorrei tornare a studiare: ogni volta che sollevo la testa e guardo le stelle mi viene un capogiro. Da bambino guardavo ore e ore di documentari, sono sicuro che lassù ci sia qualcosa». Tahar sa che non dovrebbe dirlo, ma ama ascoltare la musica girando per le strade di Parigi con il suo scooter. «Vengo dai sobborghi e adoro l’hip hop, specie quello degli anni Ottanta e Novanta, dagli N.W.A. a Grandmaster Flash al più recente Jay –Z. Ma sono di larghe vedute, mi piacciono anche Marvin Gaye, Otis Redding e la classica. Gli unici due generi off limits sono il metal e la trance, troppo rumorosi per i miei gusti».
Al cinema invece non ha generi proibiti, basta vedere quanto è stato bravo nelle commedie, da Samba a Un amico molto speciale, venute dopo una serie di drammoni impegnativi. «Non sono solo un depresso, o un omicida, amo la vita e mi piace andare a ballare (ride, ndr). A pensarci bene è lo spettatore che è dentro di me a scegliere quale sarà il prossimo progetto». Nel 2017 lo vedremo in Le secret de la chambre noir, di Kiyoshi Kurosawa, e in Un vrai Batard, che «racconta in realtà di come ti liberi dai tuoi condizionamenti, di come cresci e ti emancipi e dei problemi che incontri crescendo». E soprattutto sarà in quel Mary Magdalene diretto da Garth Davis, kolossal hollywoodiano in cui lui, che è musulmano, reciterà la parte di un cristiano. «Lavorare con un attore come Phoenix per me è impagabile, anche se non sono il protagonista. Lui recita Gesù, io sono Giuda e la storia è quella di Maria Maddalena (interpretata da Rooney Mara, ndr), testimone della crocifissione e della resurrezione di Cristo. Abbiamo girato molto in Italia, prima in Sicilia, in provincia di Trapani, poi nella zona dei Sassi di Matera, all’interno di alcune chiese rupestri, ma anche nei Calanchi di Pisticci. E credo che le riprese fatte a Napoli, nella Galleria Borbonica, saranno spettacolari». Cosa pensa di terrorismo ed estremismi religiosi, vivendo a Parigi? «La mia filosofia non è avere paura, se pensi in quei termini non vivi più. E poi mi creda, ci sono posti peggiori di Parigi, in cui vivere».
Articolo pubblicato su D La Repubblica del 28 gennaio 2017
© RIPRODUZIONE RISERVATA