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Cristiana Allievi

~ Interviste illuminanti

Cristiana Allievi

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Elton John: The cut, le hit storiche si fanno corti d’autore. E spunta Spike Lee

24 mercoledì Mag 2017

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Festival di Cannes, Miti, Musica, Personaggi

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Cannes 2017, Elton John, Elton John: The cut, Spike Lee, video

Con un concorso assieme a Youtube Elton John premia tre giovani talenti imbattibili nel tradurre in videoclip alcuni dei suoi classici, poi, intervistato da un regista cult si lascia andare a una riflessione utilissima su arte visiva e musica

«Volevamo che la nostra musica fosse disponibile per altre generazioni. E poi l’adrenalina dei nuovi talenti è meravigliosa, ci piace molto sostenere i giovani».

Con queste parole Elton John, artista pop rock con 400 milioni di dischi venduti all’attivo, racconta l’idea di Elton John: The cut, una competizione globale voluta per creare i video ufficiali di tre famossissimi brani del baronetto che ne erano ancora sprovvisti.

Al richiamo hanno risposto talenti creativi ancora sconosciuti da 50 paesi, e ad avere la meglio sono stati Majid Adin e l’animazione che ha proposto per Rocket Man, Jack Whiteley e Laura Broownhill che hanno creato le coregrafie per Bennie and the Jets, infine Max Weiland con una sorta di live action pensato per Tiny dancer.

Il cantautore e musicista britannico è approdato a Cannes insieme a Bernie Taupin, e i due hanno festeggiato 50 anni esatti di collaborazione artistica assistendo all’anteprima mondiale dei tre corti.

Subito dopo la proiezione è salito sul palco del cinema Olympia nientemeno che Spike Lee, due volte nominato all’Oscar (prima di vincere quello alla carriera), che ha intervistato personalmente Elton e Bernie. Ecco i passaggi migliori di questo inco

SL. Ho avuto la fortuna di frequentare grandi musicisti come Michael Jackson, Prince, Miles Davies, Stevie Wonder, e di chiedere loro qualcosa sulla canzone particolare che tutti hanno. Lo chiedo anche a voi, come arriva quella canzone?

EJ. «Da cinquant’anni tutti i miei pezzi arrivano prima a Bernie, che scrive le parole, poi io vado in un’altra stanza e scrivo la musica. L’unica eccezione in cui è arrivata prima la melodia è stata Sorry seems to be the hardest word».

BT. «Sono andato a trovare Elton nella sua casa di Los Angeles e mi ha detto “mi è venuta quest’idea”. Me l’ha fatta sentire e ho pensato subito al titolo. Don’t break my heart è stata l’altra eccezione, ci siamo sentiti al telefono e dopo che mi ha fatto ascoltare la melodia gli ho detto “dammi cinque minuti, ti richiamo con le parole…”».

SL. Decidete insieme che storia raccontare?
EJ. «Dalla prima canzone fatta fino a oggi, non ho mai saputo che tipo di storia verrà fuori. Quando leggo le parole di Bernie cerco di immaginare la musica, un po’ come hanno lavorato i tre artisti che hanno fatto i nostri video, hanno ascoltato le nostre canzoni cercando di visualizzare delle immagini. È come se avessero fatto il botox ai pezzi!».

SL. Come vi siete conosciuti, 50 anni fa?
EJ. «Bernie aveva 17 anni e io 20, suonavo in una soul band. Grazie a Long John Baldry, che aveva un certo successo commerciale, siamo finiti in quei club in cui la gente cena mentre ascolta la musica, una cosa che ho sempre odiato. Mi sono detto che quello non era il motivo per cui volevo fare il musicista».

SL: E allora cosa hai fatto?
EJ. «Ho scritto un paio di canzoni e le ho registrate con la mia band, poi ho risposto a un annuncio su un giornale musicale, era della Liberty records che aveva aperto un ufficio a Londra. Negli uffici ho incontrato un uomo, Ray Williams, che mi ha chiesto cosa sapevo fare. Ho risposto “so cantare e scrivere, ma non le parole”. Mi ha dato una busta dicendo “questo signore le sa scrivere…”. Era un testo di Bernie, e come dico spesso anche ai miei figli, da 50 anni a questa parte non abbiamo mai avuto una discussione».

SL: Non avere video è stata una scelta vostra o della casa discografica?
E. «Non esisteva questo processo, siamo preistorici (grandi risate, ndr)».
B. «Quando abbiamo visto il lavoro di questi tre ragazzi eravamo così eccitati che la prima cosa che ci siamo detti è “quali sono i prossimi?”. Le immagini danno cuore, mostrano come si può far parlare la musica ancora di più,danno un ulteriore twist».

SL: Non avere un video è come vivere in un’altra epoca.
E. «Noi siamo la generazione precedente a Mtv, e siamo fortunati, perché quell’emittente ha fatto esplodere anche un sacco di gente che semplicemente fa video, mentre gli artisti devono avere la musica. Ma è vero che se ce l’hai, un video, un disegno o uno stralcio di film la migliorano, ti fanno affondare dentro la melodia».

C’è un caso particolare, nei lavori che abbiamo appena visto, ed è quello di Majid Adin: era incredulo per il fatto di essere a Cannes a presentare un suo corto, quando solo un anno fa era un rifugiato. «Majid è riuscito a raggiungere Londra dall’Iran nel 2015, dopo essere passato dall’infame “jungle camp” di Calais. Laureato in Belle arti all’università, si sta ricostruendo una vita artistica in Inghilterra», spiega Elton John. «Con una simile esperienza personale, ha dato la prospettiva migliore ai temi chiave di Rocket Men, che sono la solitudine e il viaggio».

Articolo pubblicato da GQItalia.it 
© Riproduzione riservata 

Sting on the rock

27 giovedì Ott 2016

Posted by Cristiana Allievi in Musica, Personaggi

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Tag

57th&9th, Alan Rickman, Coco Sumner, Cristiana Allievi, David Bowie, Dlarepubblica, Gordon Matthew Sumner, If you can't love me, Joe Sumner, Message in a bottle, Prince, Rock and roll Hall of fame, Sting, The last ship, The police, Trudie Tyler

Più sexy, ruvido: il re della musica inglese riparte dalle origini. E alza il volume con un album eclettico e sorprendente. Gordon Matthew Sumner parla di carriera, amore, figli. Di amici persi: Prince e David Bowie. E di sé. «Sono un agnostico curioso di sapere perché siamo qui».

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Sting, all’anagrafe Gordon Matthew Sumner, 65 anni, inglese, ha venduto 100 milioni di dischi. Il suo nuovo album si intitola 57th & 9th.

Sono le 10 del mattino e Sting ha appena finito di nuotare e scrivere una mail alla figlia Coco, che ieri sera aveva un concerto a New York. «Volevo sapere com’è andata, le ho chiesto di chiamarmi, ma non mi ha ancora risposto. In fondo sono sempre suo padre». Ride, mentre gli diciamo che dei dieci brani molto rock del suo nuovo album, 57th&9th, è una super ballad quella che lascia di più il segno. Forse perché If you can’t love me è quella che rallenta il ritmo vorticoso del disco. «La canzone non parla di me, ma di un amico molto vicino che attraversa la fine del suo matrimonio. Gliel’ho suonata e mi ha detto “stai raccontando la mia situazione!”, è così. È un pezzo triste. Scuro». Indossa un maglione di cotone e jeans super skinny, look total black e sne- akers senza lacci coloratissime. Quello che colpisce della nuova ventata rock di Sting, a decenni di distanza dall’ultima volta che ha affrontato il genere, è il fatto che non si tratta di quello dei Police, tra le rock band più di successo di tutti i tempi. Si trat- ta di una specie di eclettico incontro tra vecchio e nuovo. «C’è tutto il mio Dna in questo disco. Normalmente lavoro senza scadenze, aspettando l’ispirazione, ma stavolta è stato diverso. Il mio manager mi ha sventolato davanti agli occhi un foglio dicendomi: “Questa è la tabella di marcia. Inizi questo giorno e finisci quest’altro”. Gli ho risposto ok, ci provo. Non avevo idee, né preparazione, ho chiamato Dominic Miller e Vinnie Colaiuta, con cui lavoro da trent’anni, siamo andati in studio e abbiamo iniziato un gioco di ping pong a tre: uno lanciava un’idea e l’altro rispondeva. Poi tornavo a casa e iniziava il lavoro difficile: tradurre la storia astratta della musica. Per stare in quei tempi ho dovuto usare dei trucchi con me stesso. Mi chiudevo sul terrazzo della casa a New York, al freddo, con il cappotto e una tazza di caffè e mi dicevo che non potevo rientrare fin- ché non avevo finito la canzone. Così facendo in un weekend ho prodotto quattro brani! Per ognuno mi sono inventato un nuovo trucco». Nel nuovo album la voce è in primo piano, ed è giocata su tonalità basse e molto sexy. «Recito un personaggio, come fossi un attore, in nove pezzi su dieci. Solo in una canzone sono davvero io, Heading South On The Great North Road. Si ispira a una strada fuori Newcastle, la Great North Road, e parla del mio viaggio di giovane uomo, della promessa di una vita diversa. Già a sette anni ero distaccato, solitario e determinato. Da lì in avanti sono cambiato pochissimo».

A quell’età Gordon Matthew Sumner accompagnava il padre lattaio nelle sue consegne e intanto fantasticava di diventare un musicista. Negli anni ha sbarcato il lunario in vari modi, lavorato all’ufficio delle imposte, insegnato alle elementari di una città mineraria vicino a casa. Di sera suonava nei locali jazz, dove un musicista lo ribattezzò Sting, “pungiglione”, dopo averlo visto con un maglione a strisce gialle e nere. La svolta arriva a fine anni Settanta, quando si traferisce a Londra con la prima moglie, Frances Tomelty, e conosce quel Copeland con cui fonda i Police. Da lì in avanti la realtà supera tutti i sogni di bambino: escludendo 15 film girati e tre nomination agli Oscar, Sting ha vinto 10 Grammy Awards e un golden Globe, venduto qualcosa come 100 milioni di dischi e scritto alcuni tra i pezzi più memorabili degli ultimi trent’anni, vedi alla voce Roxanne, Message in a bottle, Every Breath You Take o Englishman in New York. Non soprende che un uomo così debba fare i conti con la fama, e dalla canzone Rise and Fall del 2002 alla nuova 50.000, l’analisi su cosa significhi essere una rockstar è un appuntamento fisso. «Per il mio completanno ero in Australia e ho suonato davanti a 500mila persone. La fama è un’esposizione intossicante, ti fa sentire forte e speciale. Ma è anche molto pericolosa: rischi di credere di essere davvero im- portante. E non lo sei, è solo un’illusione. Oggi quando salgo sul palco me la godo, è divertente, ma quando scendo sono solo. E felice di esserlo». 50.000 è una riflessione sulla mortali- tà, la disparità tra la natura divina di una star e la realtà riflessa dello stesso uomo. «Ho perso molti amici quest’anno, Prince, David Bowie e Alan Rickman. Erano tutte icone culturali e il bambino che è in noi rimane scioccato dal vedere che anche loro sono mortali. Come me». La riflessione è una delle due ali dell’arte di Sting. L’altra è la vastità degli spazi che attraversa. Dai tour come quello di quest’estate con Peter Gabriel ai dischi di canzoni di Natale; dai musical sulla propria adolescenza The Last Ship (che ha scrit- to e recitato per tre mesi a Broadway nel 2014), alla reunion dei Police anni fa, con tanto di tour mondia- le che ha fruttato qualcosa come 110 milioni di euro. Poi ci sono le aperture etni- che, testimoniate da brani come Desert Rose, e quelle più spirituali, come l’in- cisione del mantra Hare Krishna con Krishna Das, in cui Sting fa un passo in- dietro e usa la propria come seconda voce. «Conosco molto bene Krishna Das, abbiamo viaggiato insieme in India. Mi ha chiesto di cantare con lui e l’ho fatto. Non so come definire la mia spiritualità, sono un agnostico curioso di sapere perché siamo qui. Credo che siamo noi a creare dio: non credo che lui, o lei, esista fuori dall’immagi- nazione. Se sei arrabbiato, amareggiato e vendicativo, quello è il tuo dio. Se sei gentile, delicato e bilanciato, il tuo dio è questo. Bisogna stare attenti al dio che ci creiamo, perché diventa reale».

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10 sono i brani del nuovo disco in uscita l’11 novembre (courtesy DRepubblica)

Parole che rimandano alla Inshallah del nuovo disco, che in arabo suo- na più o meno “se è volere divino, accadrà”. È il titolo scelto da Sting per il brano dedicato alla crisi dei rifugiati. «È una parola bellissima, un’espressione di coraggio e speranza che si dovrebbe sentire di più. Io non offro una soluzione politi- ca al problema, ma credo che se una soluzione c’è, dev’essere radicata nell’empatia. Abbiamo idea di cosa significhi essere un rifugiato, trovarsi su una barca e sperare di arrivare a Lampedusa? O di come ci si senta a scappare da una guerra, dalla povertà o, tra poco, dagli effetti del cambiamento clima- tico?». Da vent’anni Sting lotta contro la deforestazione con la seconda moglie, l’attrice e produttrice Trudie Styler. L’ha spo- sata 24 anni fa con una cerimonia sfarzosa, in cui lei è arrivata all’altare sul cavallo bianco. In uno dei due libri che ha scritto, Broken Music, la «risposta pop al Dalai Lama», com’è stato ri- battezzato Sting dalla stampa Uk, racconta della prima volta che l’ha incontrata. «Mi è sembrata un angelo danneggiato», e poi: «Siamo insieme per guarire le reciproche ferite». I due viaggiano tra varie proprietà sparse per il mondo. C’è il castello nello Wiltshire (Sting lo chiama «la casa al lago»), in cui registra i suoi dischi. Ci sono le case di Londra e di New York, quella sulla spiaggia di Malibù e la Villa fiorentina Palagio, a Figline Valdarno. La coppia ha quattro figli, gli altri due vengono dal primo matrimonio di Sting con Frances Tomelty. «Ho sei figli e a gennaio raggiungerò quota sei nipoti, una cosa da non cre- dere. Ho completamente perso il controllo sul tema! Faccio un lavoro stagionale, c’è il momento in cui scrivo, registro e sono in tour, e poi arriva la stagione in cui posso dedicarmi alla famiglia». Un bilancio sul suo essere genitore? «Forse non sono stato un padre perfetto, ma ho dimostrato loro di avere un lavoro che amo e che farei anche gratis. Sono cresciuti in- dipendenti, compassionevoli, quindi non ho fallito, anche se è stato difficile. La loro madre è stata molto di supporto, i ragazzi si vogliono bene e io ne sono orgoglioso». Due sono musicisti, Coco e Joe. «Sono bravi. Per Joe è stato più difficile, ha vissuto nella mia ombra da quando era piccolo, mentre Coco è una donna, trova sempre la via d’uscita. Pratica la boxe, fa la deejay e lavora nella cucina di un ristorante di Londra. È curiosa come me. L’altro giorno camminavo per Park Avenue e me la ritrovo su un manifesto gigante, accanto alla cattedrale. È al numero 19 della classifica Usa, io al numero 5, manca poco e mi rag- giunge!». Ci pensa un attimo, poi: «Quando osservo i miei figli suonare, vedo in loro il 50% del mio Dna. Ma ad intrigarmi è il restante 50%, fatto di altri ingredienti. Ora che ci penso, sa che sto diventando molto emotivo?».

Articolo pubblicato su D La Repubblica il 24 ottobre 2016 

© Riproduzione riservata

«Gimme Danger», parola di Iggy Pop

24 martedì Mag 2016

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Festival di Cannes, Musica

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Bob Dilley, Cristiana Allievi, David Bowie, Gimme danger, Iggy pop, Jim Jarmusch, Jim Osterberg, MC5, The Stooges, Velvet Underground

 

È SBARCATO SULLA CROISETTE PER IL 69° FESTIVAL DI CANNES E, COME È GIUSTO CHE SIA, HA PORTATO UN PO’ DI SCOMPIGLIO. L’IGUANA DEL ROCK CHE HA FIRMATO LA COLONNA SONORA DI TRAINSPOTTING HA PRESENTATO IL DOCU FILM SULLA SUA VITA E QUELLA DEGLI STOOGES, GIMME DANGER, GIRATO DALL’AMICO JIM JARMUSCH. CON CUI AVEVA RECITATO IN COFFEE AND CIGARETTES

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«Gli Stooges, nell’essenza, sono stati una specie di ameba che ti entrava in casa senza che te accorgessi». Parola del suo frontman, Iggy Pop. Giacca di pelle e skinny pants neri, indossati con una t-shirt bianca, la rockstar di Detroit ha gli occhi blu che brillano. Ancora di più, mentre racconta il lavoro fatto con l’amico Jim Jarmusch per Gimme Danger, passato fuori concorso al Festival di Cannes. «Ho contributo con i miei ricordi» racconta commuovendosi da sopravvissuto quale è- e parlando della band nata ad Ann Arbor nel 1967, e dissolta nel 1974- «perché avevo buttato via tutte le foto. Ho suggerito a Jim di andare dai mie fans e dai nostri spacciatori, a cercare materiale inedito per il film». In 100 minuti di lavoro, rigorosamente cronologico, si alternano immagini di repertorio, concerti, racconti di sconfitte e risalite (con Iggy che parla in prima persona) ma anche momenti di show televisivi, cartoni animati e film degli anni Cinquanta. È un lavoro che illustra bene due anime che abitano nello stesso corpo: quella che all’anagrafe fa Jim Osterberg, e che racconta con voce placida delle droghe, dell’assoluta inconsapevolezza della sua band rispetto a idee come mercato discografico, diritti e royalties, e quella dell’animale a petto nudo che si butta spesso e volentieri dal palcoscenico, e che di nome fa Iggy Pop. Il regista di Down by Law e di Coffee and Cigarettes, che pochi giorni fa ha presentato in concorso sulla Croisette anche l’applauditissimo Paterson, ha scritto una lettera d’amore a una delle più grandi band della storia del rock, inserita anche nella Rock and Roll Hall of Fame, che nel 2003 si è riformata anche se i fratelli Asheton, Steve MacKay e Dave Alexander sono scomparsi. «Anch’io sono del Midwest», racconta, «e da ragazzo gli Stooges mi hanno aperto la mente. Loro, con gli MC5 e i Velvet Underground, erano tutto quello che ci interessava». Jim voleva che il suo omaggio fosse qualcosa di selvaggio, incasinato, emotivo, primitivo ma sofisticato. Le immagini che scorrono sono molto forti (Tom Krueger è direttore della fotografia), a sottolineare l’impatto di un gruppo apparso sulla scena alla fine degli anni Sessanta che ha letteralmente assalito il pubblico con il suo misto di rock, blues, R&B e free jazz, piantando il seme di quello che sarebbe stato il punk nel periodo successivo. «Nessuno ha avuto un frontman che incarnava allo stesso tempo Nijinsky, Bruce Lee, Harpo Marx, e Arthur Rimbaud», sottolinea il regista. «Usavamo molto LSD e lasciavamo che le cose accadessero in modo naturale», lo incalza Iggy. «Ricordo che un minuto ero la persona più aggressiva del mondo, e quello dopo scoppiavo a ridere… Oggi sono d’accordo con chi consiglia di evitare le droghe, perchè inizi dando loro un dito e finiscono col prendersi il braccio. Oggi bevo solo vino rosso e… No, non posso dire di limitare anche il sesso perché non è vero! Ma quando non faccio questo lavoro vado a letto presto». Cosa farebbe nella vita di diverso, se potesse? «Ho avuto grandi genitori che non ho ascoltato. Le cose sono cambiate solo con mia madre, a cui ho prestato più attenzione da un certo punto della mia vita in avanti». La storia si chiude con la rivelazione di quali sono stati i sui, di miti, oltre al fatto di aver avuto Dawid Bowie come nume tutelare. «Direi Bob Dilley e Chuck Berry su tutti. Ma anche Frank Zappa, specie quello Freak Out!, gli MC5 e i Velvet Underground».

articolo uscito su GQ Italia il  20/5/16

© Riproduzione riservata  

Alison Balsom, la trombettista più bella del mondo

08 martedì Dic 2015

Posted by Cristiana Allievi in Musica

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Tag

Alison Balsom, Classic BRIT Awards, Cristiana Allievi, Dizzy Gillespie, Edward Gardner, Grazia, Haydn, Musica

Il tipo di viso e il biondo miele della chioma farebbero pensare a una svedese. Ma sono nel salotto di casa dell’inglesissima Alison Balsom, luminosa e stracolma di libri alle pareti. Lei, che viene da Cambridge, mi racconta di appartenere a una famiglia inglese da centinaia di anni. Fin qui tutto normale. Ma il resto è mitico, se si pensa che la Balsom è la trombettista più famosa del mondo, per almeno tre motivi. Primo, suona uno strumento poco familiare tra le donne. Secondo, è stupenda, e terzo, è molto molto brava (e fino a pochissimo tempo fa era in coppia con Edward Gardner, il quotatissimo giovane direttore d’orchestra inglese con la faccia da eterno ragazzino: la cosa non guastava affatto). Alison ha una predilezione per Haydn, a sette anni aveva già “la fortuna di suonare”, e la sua è una carriera straordinaria, che dal Conservatorio di Parigi l’ha piazzata subito nell’olimpo dei migliori trombettisti del mondo. Il 12 maggio prossimo, c’è da scommetterci, sarà incoronata artista dell’anno ai Classic BRIT Awards 2011, alla Royal Albert Hall di Londra, e sarebbe la seconda volta che succede. L’abito che indosserà? È di uno stilista italiano, e non è un caso…

Alison Balsom

 

Partiamo dallo strumento che suona, scelta inusuale per una donna. «È stato amore a prima vista, mi sono innamorata del suono della tromba a sette anni, e anche del suo silenzio. Mi è sembrato da subito uno strumento molto naturale da suonare».

 Ma come lo ha scoperto? «Mia madre aveva in casa una videocassetta di , una folgorazione. Ma ci sono altri fattori credo, per esempio il fatto che alle scuole elementari sia stata fortunatissima, suonavo già suonare vari strumenti, tra cui la tromba».

 Il 12 maggio molto probabilmente riceverà un premio come miglior artista classica dell’anno, sarebbe la seconda volta. «Sarebbe come se fosse la prima, però! E poi questa volta c’è un ingrediente speciale: suonerò in diretta sul canale più popolare del Regno Unito, Itv. Credo che anche gli spettatori meno attenti potranno capire molte cose sul mio strumento, quella sera, e l’idea mi rende felice».

 Guardando le cover dei suoi cd si capisce molto bene una cosa: il suo amore per la moda. Come lo coniuga  al “severo” look dei musicisti classici? «Sono entrambe mie passioni, la moda e la musica classica. Per quanto riguarda la musica, io non suono tutto ma solo quello che amo, e cerco di dare il meglio, di stare sempre a un livello altissimo. Dall’altra parte c’è il mio lato glamour, l’amore per i vestiti, e non mischio le sue cose, in genere. Ma quando si tratta di una cover è difficile separare…».

 Ho visto delle sue foto alla sfilata di Armani di qualche mese fa, e so che lui era a un suo concerto: come vi siete incontrati?«Avevo un concetto a Milano, durante la settimana della moda, la stampa da voi ne ha parlato molto. Credo che il suo staff abbia scoperto che ero in città, e mi hanno invitata a scegliere un abito».

 Quindi? «Ci siamo incontrati pochi minuti prima della sfilata, c’era tensione! Le modelle erano agli ultimi ritocchi, Armani mi ha detto “vai ad accomodarti, stiamo per iniziare…”. Ero in prima fila, e mi sentivo molto a disagio…».

 Per le star che aveva intorno? «No, perché avevo un abito cortissimo (ride, ndr)! La prima fila è molto in mostra, per fortuna ero seduta accanto a un bellissimo attore inglese, Luke Evans (uno dei protagonisti di Tamara Drewe, di Stephen Frears, ndr), ci siamo molto divertiti e dopo la sfilata sono andata dritta al mio concerto. Credo che Armani sarà presente anche alla serata dei Brit’s Awards a Londra».

 Ho visto una foto, in rete, in cui indossava skinny jeans e pullover, in total black: il look da rockstar è uno strappo alla regola, in una concert hall… «Sicuramente si trattava delle prove (ride divertita, ndr). Ma mi fa piacere l’idea, portare un po’ di rock nel mondo classico, credo sia necessario. Se non suoni bene è meglio che lasci perdere, ma se suoni bene, perché non aggiungere bollicine frizzanti?».

 A proposito di frizzante, come si allena per suonare uno strumento così fisico? «Direi che il mio lavoro è più simile a quello di una danzatrice che a quello di una sportiva. Ha molto a che fare con il comprendere il respiro, è quello l’elemento che fa andare tutto al posto giusto. Poi si tratta di fare molte scale…».

 A quali scale si riferisce? «A quelle musicali! Ma faccio anche yoga, una volta nuotavo e correvo, mi faceva molto bene farlo il giorno del concerto. Ma ora ho un figlio, che oggi ha un anno, e visto che lavoro da quando aveva 10 giorni, le cose sono un po’ cambiate! Quello che mi tiene in forma è lavorare moltissimo, viaggiare e suonare tre soli a sera, non è uno scherzo, mi creda».

 Quanti concerti fa, all’anno? «Un centinaio, e se aggiunge i viaggi, le prove e le incisioni di dischi, ho molto poco tempo libero».

Pochi giorni fa sui tabloid inglesi si è parlato della sua separazione dal direttore d’orchestra Edward Gardner. Facevate una coppia bellissima e super glamour… «Ci siamo separati a Capodanno, ma la notizia è uscita adesso. Oggi sono una madre lavoratrice single e sono serena. Mi piace suonare, sento di poter continuare a farlo bene. Non ho nuovo compagno, ma al momento mi sento proprio bene così come sono…».

 

Allison balsom concerto

Articolo pubblicato su Grazia del 2011

© Riproduzione riservata

 

 

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