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Da bambina recitava con il padre regista, e sognava un futuro da attrice. Astrid Casali ha realizzato il suo desiderio ma deve fare i conti con il caos che ogni tanto torna a farle visita. E che lei combatte a colpi di boxe.
di Cristiana Allievi
Si materializza come dal nulla nel lounge bar all’ultimo piano di un hotel di Milano con vista Stazione Centrale. Si scusa per essere arrivata con quindici minuti di anticipo al nostro appuntamento, ma lo fa con accento romano. «Lo dice anche la mia maestra di canto, è colpa delle mie frequentazioni in centro Italia», racconta con occhi verdi tranquilli. 29 anni, milanese ma nata a Ponte dell’Olio, provincia di Piacenza, Astrid Casali è la protagonista femminile del film America Latina, dei fratelli D’Innocenzo, in Concorso all’ultima Mostra di Venezia e nelle sale dal 13 gennaio. Il bello di incontrare un “volto nuovo” come lei è scoprire in diretta certi legami importanti. Per esempio un filamento del dna che la collega a Renzo Casali, l’attore e regista che nel 1969, insieme alla moglie fondò una rivoluzionaria compagnia teatrale a Buenos Aires, la Comuna Baires. In tournée in tutto il mondo, arrivarono in Italia dopo l’esilio dall’Argentina. «Eh sì, quello era mio padre…», commenta con un pizzico di orgoglio quando nomino l’artista che portò il metodo Stanislavskij in Italia. «La storia di mio padre è lunghissima, ne conosco solo lo 0,5 per cento. È stato ispiratore di una compagnia che era anche una comune, purtroppo nel 2010 ci ha lasciati».
E come si cresce, con un padre simile? «Ho frequentato il liceo classico Berchet, ma all’ultimo anno me ne sono andata».
Dove? «Al Tito Livio».
Il motivo? «Quello superficiale è che mi ero lasciata con il mio fidanzato di allora, che era in classe con me. Ma la verità è che il Berchet era troppo duro».
E come è andata al Livio? «In tre settimane sono diventata una bulla. Ho sviluppato una doppia natura, un’alternativa a quella molto seria e “berchettiana”».
Cosa faceva, da bulla? «Appena arrivata ero disorientata. Poi ho visto cosa facevano i compagni e ho iniziato a liberare la mia goliardia. Con lo studio, invece, ho vissuto di rendita per quasi tutto l’anno».
All’Università ci è andata? «No, e ogni tanto penso di iscrivermi ad Antropologia o Filosofia. Mentre all’epoca ho frequentato una scuola serale di teatro, il Centro Studio Attori».
Quando ha deciso che voleva recitare? «A tre o quattro anni, ero in uno spettacolo teatrale con mio padre, finito poi al Fringe Festival di Edimburgo. Poi sono arrivati un corto a cui sono molto legata e un film per la tv svizzera».
Just in God è il corto. «L’ho girato al Berchet nonostante frequentassi ancora le medie. Ero una ragazzina bruttina, sfigata e bullizzata che a un certo punto del suo diario, vedendo la foto di Justin Timberlake, inizia a parlargli come fosse Dio».
Cosa le diceva il Dio Timberlake? «“Cosa stai facendo? Devi reagire!”, era un invito a manifestarsi per come si è, un invito ad esserci. Vorrei molti più ruoli così liberi, scuri e ironici, ma per noi donne sono una rarità».
A nove anni però lei era già protagonista in La diga di Fulvio Bernasconi. «Mia madre era andata a fare un casting per il ruolo della madre ma era troppo grande. Hanno voluto me come figlia, e quello di Giorgia era un doppio ruolo: una bambina vera e un fantasma, che si dovevano anche incontrare».
A Venezia si è parlato di lei come della nuova scoperta del cinema italiano. «I fratelli D’Innocenzomi avevano vista in Strategie Teatrali, al teatro India di Roma, almeno quattro anni prima di girare America Latina».
(continua…)
Intervista integrale su Vanity Fair n. 1 del 5 gennaio 2022
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