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Spike Lee: «Lassù qualcuno mi ama».

10 mercoledì Ott 2018

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Cultura, Festival di Cannes

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Adam Driver, Agent Orange, BlacKkKlansman, Charlottesville, Cristiana Allievi, interview, interviste, interviste illuminanti, John David Washington, Prince, Spike Lee

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Il regista, attore, produttore e sceneggiatore Spike Lee, 61 anni (photo courtesy Vibe.com).

«Cosa è successo da quando BlaKkKlansmen è stato presentato all’ultimo festival di Cannes, lo scorso maggio? Il film ha avuto una grande risposta, e la cosa mi rende particolarmente felice: sta portando luce sulle elezioni di metà mandato del prossimo novembre. Giorno dopo giorno le notizie si stringono  intorno al collo dell’Agente arancio. Non fatemi pronunciare il suo nome, io lo chiamo così». Considerate che Agent Orange si riferisce ovviamente al colore della chioma  di Donald Trump, ma è anche il nome tristemente noto di un defoliante utilizzato durante la guerra in Vietnam e accusato di aver causato tumori e disabilità a centinaia di migliaia di civili. Vi sarete fatti un’idea  di quanto Spike Lee ami il suo presidente. Spike, 61 anni, di Brooklyn, è una palla di fuoco. Ha appena ritirato a Venezia il premio Filming Italy, nato per promuovere l’Italia come set cinematografico nel mondo. Gli nomino Charlottesville, da cui sono tornata da poco, mi chiede se il motivo della mia visita è stato l’anniversario di Unite the Right. Comprensibile, visto che dopo lo scontro mortale tra suprematisti bianchi dell’estrema destra e i contro manifestanti, il 12 agosto dello scorso anno, la cittadina che per lungo tempo era stata affascinante sede della University of Virginia e del suo fondatore, Thomas Jefferson, è ormai sinonimo di lotta razziale. Per questo motivo il regista di Fa’ la cosa giusta ha inserito gli avvenimenti di Charlottesville a chiusura del film che aveva appena terminato, e che ha poi vinto il Premio della giuria al festival di Cannes: un finale che inchioda alla sedia, in un silenzioso sgomento.Il film è un adattamento cinematografico del libro Black Klansman, scritto dall’ex agente di polizia Ron Stallworth, e racconta la vera storia di questo poliziotto nero che nel 1979 si è infiltrato nel Ku Klux Klan, vicenda mantenuta segreta fino al 2014. Stallworth avrebbe voluto che a interpretarlo fosse Denzel Washington, ma considerato che all’epoca degli eventi narrati aveva 25 anni, la strategia di Spike Lee è stata di fidarsi del sangue e puntare sul figlio di Denzel, John David. Scommessa che il pubblico – il 10 agosto scorso BlaKkKlansmen è uscito negli Usa, e a ruota un po’ in tutto il mondo, fino ad arrivare nelle nostre sale il 27 settembre –ha giudicato riuscitissima.Siamo in una suite di uno degli alberghi più belli del Lido di Venezia, Lee ha un piatto di frutta fresca davanti, ma non la toccherà per tutta la conversazione. Racconta di aver appena terminato le riprese della seconda stagione  della serie tv She’s gotta have it, ma torna sul rabbiosissimo BlacKkKlansman, che per molti versi, come vedremo, fa anche rima con amicizia. Anche se è una parola che  lui riserva a pochi eletti.

È stato Jordan Peele, uno dei produttori, a chiamarla per proporle la sceneggiatura di BlaKkKlansmen. Si può dire sia un successo nato da un’amicizia? «Non eravamo proprio amici. È andata così: mia moglie Tonya  Lewis era nel consiglio del Sarah Lawrence College, e un giorno mi ha detto “devi andare a parlare agli studenti di cinema della scuola”, e visto che volevo farla felice, ho seguito il suggerimento. Lì uno degli studenti mi ha detto “ciao, io ti conosco”, era Jordan Peele. Anni dopo mi ha proposto la sceneggiatura perché dice che so creare la tensione giusta e poi tirare un pugno allo stomaco. A me invece era piaciuto Scappa-Get Out, che Jordan ha scritto, diretto e interpretato».

Il cuore del film è la relazione fra due poliziotti, interpretati da Adam Driver e John David: come l’ha costruita sul set? «L’amicizia è uno dei tanti livelli del film, ci sono anche  il thriller, il poliziesco, il film d’epoca, tutto va insieme.  L’alchimia a cui allude è un fatto chimico, e glielo dimostro. Prendiamo due bicchieri, quello sulla destra del tavolo è Adam Driver, quello a sinistra è John David. L’attore A è bravo, l’attore B anche. Ma insieme non sai cosa succederà. Quindi proviamo ad avvicinare i bicchieri: sul set la chimica c’era dall’inizio, ma Adam e John David hanno dovuto lavorarci giorno per giorno. I personaggi non sono amici dal primo momento: l’avvicinamento è progressivo e avviene grazie a un goal comune, il Ku Klux Klan».

Ho sentito John David dire “non so cosa abbia visto in me Spike Lee”. «Lo conosco da prima che nascesse, glielo ripeto spesso. Sapevo che sarebbe stato perfetto, l’ho visto nella serie tv Borders e in alcuni film indipendenti. Non gli ho fatto audizioni, non ci siamo nemmeno incontrati prima, mi ha semplicemente risposto “Ok, ci sto”».

L’aveva già ingaggiato insieme al padre Denzel nel suo Malcom X, quando aveva solo 9 anni. «Io e Denzel siamo vicini, abbiamo lavorato insieme, anche se non siamo migliori amici».

Come ha scelto Adam Driver? «Per il lavoro che ha fatto. È un tipo di attore che non si ripete mai e questo mi piace molto».

Lei e John David siete neri, Adam è bianco… «Sul set c’erano molti altri attori bianchi, la linea di separazione che s’immagina non c’era. Thoper Grace, per dire, mi ha parlato di quanto sia stato duro per lui interpretare David  Duke, il capo del Klan. Per quanto mi riguarda, nel cuore ho amore per tutti, non odio. Inoltre quando le persone si incontrano su un set, sesso e differenze sociali spariscono. Di Jaspar Paakkonen non sapevo nemmeno che fosse finlandese, per me era uno dell’Alabama o del Mississippi. Mi ha invitato a un festival a Helsinki, a fine settembre, e lì ho scoperto che ha una delle 10 top Spa nel mondo».

 

(continua…)

Intervista integrale pubblicata su GQ n. Ottobre 2018 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Adam Driver: «Nel cuore resto un soldato».

21 venerdì Set 2018

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Festival di Cannes, Letteratura, Miti, Personaggi

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Adam Driver, attori, cinema, Cristiana Allievi, Don Chisciotte, Julliard, Spike Lee, Star Wars, Terry Gilliam

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L’attore Usa Adam Driver, 34 anni, attualmente nelle sale con due film. 

DA UNA PARTE AFFRONTA I RAZZISTI DEL KU KLUX KLAN, DALL’ALTRA I MULINI A VENTO, COME DON CHISCIOTTE. A NOI PERO’ RACCONTA LA SUA CARRIERA E LA SCELTA DI ARRUOLARSI NEI MARINES. PERCHÈ AVEVA CAPITO CHE NEL CINEMA VINCE CHI SA RESISTERE SOTTO PRESSIONE

«Sento la pressione di ogni lavoro. Temo che non funzionerà, che fallirà o che non sarò abbastanza bravo. Anche per questo mi rende più entusiasta lavorare con persone che hanno cercato di portare a termine un progetto per vent’anni, la loro tenacia nel resistere mi assicura che salterà fuori qualcosa di interessante». Adam Driver è altissimo. Come nelle altre occasioni in cui l’ho incontrato,  indossa jeans, t shirt e camicia aperta. A differenza del solito, invece, la nostra conversazione sarà più intensa.

31 anni, californiano cresciuto nell’Indiana, Driver era un ragazzino quando ha tentato di entrare alla prestigiosa Julliard di New York, senza riuscirci. Disorientato, dopo l’11 settembre si è arruolato nei Marines, e trascorsi due anni in Afganistan lo hanno congedato perché si è rotto lo sterno in un incidente in mountain bike. Depresso, è tornato all’attacco alla Julliard, e ce l’ha fatta. Poi, con Girls, serie tv dell’HBO, è diventato un volto a Hollywood, e da lì in avanti non si è più fermato.  All’ultimo Festival di Cannes è finite nel fuoco incrociato dei fotografi perché era il protagonista di due dei film di punta sulla Croisette. E anche se sei Kylo Ren, diciamolo, accusi il colpo. I due film sono entrambi nelle sale dal 27 settembre. Uno è BlaKkKlansmen di Spike Lee, in cui interpreta la spalla di John David Washington, primo poliziotto nero che nel 1979 si è (davvero) infiltrato nel Ku Klux Klan. Una vicenda mantenuta segreta fino a quando l’ex agente Ron Stallworth ha scritto il libro da cui è tratto il film. L’altro film è L’uomo che ha ucciso Don Chisciotte, ispirato al personaggio del classico della letteratura di Miguel de Cervantes. Un film che il suo regista, Terry Gilliam, ha impiegato 30 anni a portare a termine, funestato da ogni possibile disavventura produttiva. Qui Driver è Toby, cinico regista pubblicitario che si ritrova intrappolato nelle bizzarre illusioni di un vecchio calzolaio spagnolo che crede di essere Don Chisciotte. Inaspettatamente, nel film Driver è più sexy come mai, nonostante debba affrontare milioni di peripezie e confrontarsi con il proprio passato. «Don Chisciotte è un sognatore, idealista e romantico, che non vuole accettare i limiti della realtà e che continua a camminare nonostante gli ostacoli», continua.

A proposito di idealismo, cosa si impara lavorando con un regista che non cede, nonostante nove tentativi andati male? «Terry è una persona molto stimolante sul set, lo affronta come una catarsi. Non avevo mai lavorato con lui prima, quindi non so come è stato girare Il Barone di Munchausen o La leggenda del re pescatore. So che è difficile vederlo sulla sedia del regista, è sempre in piedi al monitor che recita la scena con te. E non ha nessun filtro per mascherare quello che sente».

 Se qualcosa non gli piace si vede, insomma. «È così. E considerato che i cavalli guardano sempre nel verso sbagliato, le pecore si muovono da tutte e parti e sul set si parlavano sette lingue diverse,  sul set avrebbe potuto esserci un’atmosfera dittatoriale, ma Terry non è così. Pensava a questo film da più di 25 anni, eppure ha mantenuto quell’atteggiamento possibilista che ho notato non solo in lui, ma in altri grandi registi».

Che cosa ci racconta del suo personaggio? «È un uomo che cerca disperatamente di avere il controllo della situazione. Io sono sia Sancho Panza sia Don Chisciotte, cerco  di essere radicato nella realtà e di avere il controllo ma sono anche  Chisciotte, che è tutto ispirazione ed è totalmente libero,  seduttivo. Certo, l’ispirazione può essere tossica, se non è gestita correttamente».

Lei fa un lavoro strano, sta dicendo questo? «Di sicuro recitare è uno strano modo di incontrare e conoscere le persone. Sei sotto una grossa pressione per dodici, quindici ore al giorno, per quattro mesi, a volte sei. Poi quando finisce il film sei nel vuoto, all’improvviso: non potrai mai tornare indietro ed essere la stessa persona che sei stato con quei colleghi».

(… continua)

Intervista integrale pubblicata su Grazia del 20 Settembre 2018 

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