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Archivi tag: Steve Jobs

Il battito animale di Fassbender

10 martedì Gen 2017

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Mostra d'arte cinematografica di Venezia, Personaggi

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12 anni schiavo, Alicia Vikander, Assassin's Creed, Cristiana Allievi, DannyBoyle, GQitalia, Jameson, La luce sugli Oceani, Macbeth, Michael Collins, Michael Fassbender, Steve Jobs, Steve McQueen

IL TALENTO NATURALE? «QUANDO NON SAI MAI COSA ASPETTARTI, COME CON MARLON BRANDO». LA FAME? «ALL’INIZIO L’AVEVO, È NECESSARIA E POTENTE». MICHAEL FASSBENDER È IN ASSOLUTO IL PIU’ FISICO DEGLI ATTORI DEL MOMENTO. UNO CHE SI SPINGE OLTRE, SEMPRE. PER SOPRAVVIVERE A SE STESSO.

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L’attore Michael Fassbender, 39 anni, uno dei maggiori talenti in circolazione (courtesy of GQ.it)

«Hai una fame feroce, quando sei agli inizi e cerchi di fare quello che davvero desideri nella vita. Io almeno l’avevo. E’ necessaria ed è potente. Oggi sono ancora molto appassionato, amo quello che faccio, ma in modo più rilassato». Mi chiedo se non abbia il potere di leggere il pensiero, Michael Fassbender. Perché appena me lo trovo davanti ho la sensazione che sia più rilassato di una manciata di anni fa. E pensare che prima del 2007, a 30 anni compiuti, il ruolo per cui era più famoso era uno spot della Guinness. Poi, partendo da Hunger, che guarda caso significa fame, ha regalato ogni possibile declinazione del disagio fisico e psicologico – dalla brutalità agli scioperi della fame, dalle dipendenze dal sesso alle seduzioni pericolose – in un crescendo di estremi cinematografici per due dei quali è stato candidato agli Oscar: nei panni dell’algido e geniale creatore di Apple, in Steve Jobs, il cui motto era “stay hungry, stay foolish”, e in quelli dello spietato schiavista Edwin Epps in 12 anni schiavo. Fino al giardino di un faro di fronte alle coste dell’Australia che in La luce sugli oceani (accanto ad Alicia Vikander, sua compagna anche nella vita) cresce un bambino che ha salvato da una barca a remi alla deriva, passando per il difensore dell’umanità di Assassin’s Creed, in questi giorni al cinema.

È una mattina di sole sfavillante e Michael Fassbender indossa camicia bianca con jeans e giacca blu. Mi racconta una parte importante della sua identità che ormai ci si dimentica, offuscati dalla bravura delle sue performance, ma che forse ne sta proprio alla base. «Mio padre è tedesco e mia madre un’irlandese del nord, di Antrim, era la nipote di Michael Collins. Io mi sono sempre sentito il diverso del gruppo». Non ha un fascino aggressivo;  i suoi modi sono gentili,  i suoi sono accoglienti, per niente disperati.

Lei è la prova inconfutabile del fatto che recitare fa risparmiare un sacco di soldi dall’analista. «Serve a capire meglio se stessi e gli altri. E oggi so per certo che tutti sono capaci di fare cose terribili. Meglio non averle a portata di mano, me l’ha insegnato Macbeth».

Ha dichiarato “la sopravvivenza è sopravvivenza”: cosa significa questa parola per lei? «Essere capaci di adattarsi, il potere dell’adattamento è la più grande qualità in un uomo».

La possiede? «In un certo senso è qualcosa che ho ereditato da una parte della mia famiglia. Gli irlandesi sono stati colonizzati, sono emigrati, hanno subito la carestia, in milioni si sono ritrovati sulle navi, credendo di andare a Liverpool e ritrovandosi invece in Australia… Diciamo che la capacità di adattarsi è qualcosa che hanno dovuto sviluppare».

È stato come una meteora, in una manciata di anni è arrivato al top: la velocità le piace? «Ho guidato la prima auto che avevo 12 anni, e da allora non ho mai smesso di correre sui kart. Fuori Londra ci sono un paio di circuiti, entrambi abbastanza veloci, quando scendo in pista mi diverto ancora, in un certo senso mi rilasso. È qualcosa che sento facile».

So che ha provato anche il brivido della Ferrari. «A ottobre sono stato a Maranello per la prima volta, un sogno per me. Sul circuito di Fiorano ho guidato una 488 GTB e una F12 berlinetta. Nei primi giri ero piuttosto stressato, ma una volta imparato a convivere con la velocità e assorbite tutte le informazioni che mi sono state date le cose sono cambiate. Guidare su una pista, il più veloce possibile, è una specie di meditazione».

Se penso alle parole di Danny Boyle, che l’ha diretta in Steve Jobs e ha detto “mi ha impressionato la qualità di assoluto fascino che applica ferocemente per raggiungere la perfezione in quello che fa”, mi viene in mente un altro Michael: Schumacher. «È sempre stato un mio idolo, e la vittoria di cinque campionati del mondo consecutivi una grande fonte di ispirazione».

Anche a lui hanno dato del maniaco e dell’egoico. «È vero, faccio molti compiti a casa, anche perchè sono lento nel memorizzare. Leggo una sceneggiatura almeno 200 volte, la ripercorro in lungo e in largo guardando le cose da ogni angolazione. Poi però al primo ciak in un certo senso butto tutto dalla finestra: è da lì in avanti che inizio a godermi davvero il mio lavoro».

Le sue performance sono molto fisiche, del resto. «Ho iniziato col teatro pop e la pantomima, sono entrambi molto fisici nel modo di raccontare una storia. Quando ho frequentato il Drama centre di Londra ho approfondito anche la danza e il lavoro sul movimento in genere: tutt’oggi quando mi avvicino a qualcosa penso quasi esclusivamente in termini di fisicità».

Faccia un esempio. «Se devo interpretare un contadino mi focalizzo sul peso che porta, su come trasporta gli oggetti: quello che voglio arrivare a mostrare è la forza che lo connette alla terra e che non ottieni andando in palestra».

E dire che Fassbender, quando aveva 19 anni, fu rifiutato da ben due scuole di recitazione. Il direttore di una delle due  quasi lo annientò, dicendogli: “Riconosco un vero attore da come entra in questa stanza, e lei non lo è”. Non l’unica svista, se si pensa che Steve McQueen, il regista con cui ha girato tre capolavori, lo aveva mandato via al primo provino. Fu il suo casting director a dargli una seconda chance.

In un corto diretto da Bruce Weber, sul set di un servizio fotografico lei accenna al “corpo dell’animale istintivo”. «Lo vedo solo in due attori, Marlon Brando e Mickey Rourke. Il fatto di non sapere mai cosa uscirà da quei corpi li rende così interessanti da guardare, è quello che definisco avere un talento naturale».

Come si sente a spingersi oltre, come fa sempre? «Male, ma per fortuna dura poco. Se penso ai miei film con McQueen sono trenta giorni di riprese ciascuno. Ho un mio modo di ribilanciarmi: lavoro molto duramente quando è il momento di farlo, e non appena si spengono i riflettori mi lascio tutto alle spalle».

Ci riesce davvero? «Ci riesco. A essere sincero una parte del mio cervello è sempre impegnata, ma se esco con gli amici non voglio essere quello che si porta dietro il lavoro, non mi diverto. Soprattutto, non voglio correre il rischio più pericoloso, che è essere ossessionati da se stessi».

Chi sono i suoi amici? «Non ne ho (scoppia a ridere, ndr). Scherzo, sono ancora quelli di una volta e per me è fondamentale passar del tempo insieme  a loro».

E a berci sopra? «Alla fine della giornata non disdegno un whiskey, meglio se irlandese come il Jameson. Ma non posso eccedere perché mi disturba lo stomaco, e dev’essere il drink di un fine serata».

Adesso, invece, che è mezzogiorno? «(ride, ndr) Non ho paletti troppo rigidi, ma per quest’ora direi che è più indicata una coppa di champagne».

A giugno tornerà nella sua Irlanda e per non smentirsi sarà di nuovo un amorale, in Codice criminale. Ma prima, a marzo, interpreterà un veterano della Grande guerra in La luce sugli Oceani diretto da Cinfrance e tratto dal bestseller di M.L. Stedman. «In superficie Tom è un uomo molto contenuto, all’apparenza sembra svuotato, ma sotto sotto c’è una tempesta. È come una pentola d’acqua bollente con un coperchio sopra».

Guarda il caso… «Vuol sapere la verità? Secondo me si sono messi tutti in testa che sono un dannato e non vogliono darmi parti che fanno ridere».

Non solo, stavolta la isolano a Janus Rock, dove c’è solo un faro circondato dall’oceano. Come si sente negli spazi incontaminati? «A casa. Sono cresciuto in una campagna meravigliosa, a County Kerry, i miei si sono traferiti lì da Heidelberg quando avevo due anni. Se mi allontano per troppo tempo dalla natura ne sento il richiamo, sta diventando una parte sempre più essenziale nella mia vita. Mi piace come il ritmo del mio corpo risponde a quell’ambiente. Più invecchio, più mi sento diverso in città».

Cover story di GQ Italia gennaio 2017 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Kate Winslet, «L’altra parte di me»

26 martedì Gen 2016

Posted by Cristiana Allievi in cinema, Senza categoria

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Apple, Cristiana Allievi, Joanna Hoffmann, Kate Winslet, Leonardo DiCaprio, Michael Fassbender, Mildred Pierce, Ned Rocknroll, Steve Jobs, The Dressmaker, The reader, Titanic

I PREMI VINTI E LE PRIME RUGHE. I FIGLI AVUTI DA TRE UOMINI DIVERSI E L’ULTIMO FILM ACCANTO AL SEX SYMBOL MICHAEL FASSBENDER. L’ATTRICE INGLESE PARLA A GRAZIA DELLA DONNA CHE È IN PUBBLICO E DI QUELLA CHE VUOLE TENERE PRIVATA. «PERCHÈ», DICE, « LONTANO DA TUTTO CHE HO TROVATO LA MIA FELICITA’».

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L’attrice Kate Winslet, 40 anni. Ha vinto un Oscar, tre Golden Globes, un Emmy e un Grammy, gli Oscar Usa per la musica (courtesy of Femina.cz)

«Quando mi guardo allo specchio noto rughe diverse. Non sono più quelle che avevo la mattina e che sparivano in due ore, adesso rimangono…». È il suo modo di raccontarmi che ha appena compiuto 40 anni, e che la cosa non la impensierisce. La metafora scelta da Esquire per definirla, “un pezzo di bacon inglese di qualità in un mare di scemenza hollywoodiana al silicone”, non sarà particolarmente chich, ma rende bene l’idea. Kate Winslet è uno dei più grandi talenti in circolazione. Un’attrice di sostanza che ha girato più di trenta film e ha vinto un Oscar, due Golden Globes, un Emmy e persino un Grammy (gli Oscar americani della musica). Ma è anche una donna con una vita reale altrettanto vissuta: si è sposata tre volte, con i registi Jim Threapleton e Sam Mendes, e con Ned Rocknroll, suo attuale marito, nipote del magnate della Virgin Records Richard Branson. Sono gli uomini da cui ha avuto i suoi tre figli, Mia, 14, Joe, 11, e Bear, poco più di un anno. Chi la conosce da vicino dice che Kate si sveglia tutte le mattine alle sei, nella casa in campagna fuori Londra, prepara la colazione per la famiglia e veste i bambini per andare a scuola. Ma il fatto che non affidi i suoi ragazzi a uno stuolo di babysitter è meno strabiliante di sentirla dire «il ruolo di Joanna Hoffman non mi è arrivato, sono andata a prendermelo». Stiamo parlando di Steve Jobs, candidato a 4 Golden Globs (uno è per la sua performance come attrice non protagonista) e nelle sale dal 21 gennaio prossimo: un film che Kate che ha voluto fortemente. Era in Australia a girare Dressmaker, in uscita il prossimo aprile, quando ha sentito da una make up designer che Danny Boyle stava per dirigere Fassbender in un film su Steve Jobs, il leggendario fondatore della Apple e papà dell’iPhone. Dopo vari tentativi di ottenere il copione, tutti falliti, scopre che c’è un ruolo femminile da interpretare, quello della ex direttrice del marketing della Macintosh. Chiede a suo marito di andare a comprarle una parrucca bruna, si toglie il trucco, indossa un paio di occhiali, si pettina nel modo più simile a Joanna e si fa una foto che spedisce via mail a Scott Rudin (il produttore del film), senza un oggetto. Rudin rimane colpito e la gira a Boyle, che non riconosce l’attrice: pochi giorni dopo Kate riceve il copione.

Che sensazione ha provato, con quella sceneggiatura finalmente in mano? «Riuscire a riceverla è stata un’esperienza disastrosa! Sono tecnofobica e assolutamente incapace di usare qualsiasi dispositivo tecnologico, ho avuto problemi a scaricarla sul computer! Ho dovuto mettere in caricare l’Ipad, che non uso mai, e poi scaricare un’applicazione apposita. A quel punto mi hanno aiutata tre tecnici sul set di Dressmaker, hanno avviato tutto e ho finalmente letto quelle benedette 185 pagine».

Perché teneva così tanto a questo film? «Per la sceneggiatura di Aaron Sorkin, per Michael Fassbender e per Danny Boyle. È stata senza dubbio una delle esperienze creative più gratificante che mi siano mai capitate».

Per quale ragione? «Per come Boyle ci ha fatti lavorare. La storia si concentra su tre presentazioni clou dell’attività di Jobs: il Macintosh, nel 1984, il NeXT Cube, nel 1988 e l’iMac nel 1998. E c’è un doppio filone, da una parte il pubblico, che attende Jobs come fosse una rockstar, dall’altra il backstage degli eventi, che rivela un uomo attraverso le sue relazioni con gli altri».

Ho letto che l’idea di lavorare con Fassbender, che interpreta Jobs, è stata la vera molla per lei. «Lo ammiro moltissimo per i rischi che si prende, abbiamo la stessa attitudine verso la recitazione. Non ho mai visto un attore che si comporta in modo così professionale, era così preparato, sul pezzo al 100 per 100, ha alzato l’asticella per tutti noi».

Ha incontrato di persona Joanna Hoffman, l’unica donna che Jobs ascoltasse? «Ci siamo viste e ho cercato di catturare i suoi aspetti più peculiari, ma poi mi hanno lasciata libera di recitare un personaggio. Joanna è una ragazza polacco armena che si trasferisce negli Usa da teenager, diventa un’archeologa esperta e si ritrova a lavorare per la Apple. Steve fa di lei il capo del marketing di Macintosh, per 14 anni diventa la sua “moglie lavorativa”, la confidente, li lega un’amicizia molto profonda».

Joanna vede un lato di Jobs che non ci si aspetta… «Io sono il canale attraverso cui gli spettatori possono captare la sua parte più morbida e umana, mi sono sentita molto responsabile per questo. Ho capito che Jobs aveva degli estremi, era una sfida totale ma aveva anche la capacità di ascoltare, almeno Joanna, e di riflettere sul proprio modo di fare».

Ricorda il giorno in cui ha acquistato il suo primo computer? «Non ne ho ancora comprato uno. Ho ricevuto il mio Ipad in regalo dai produttori di Mildred Pierce (la serie della HBO per cui ha vinto un Emmy, ndr). In compenso ricordo tutto sull’evoluzione dei cellulari (ride, ndr)».

In quel campo è più preparata? «Da due anni ho un Iphone, e prima possedevo un Blackberry. Ma ricordo ancora il mio mitico cellulare di quando avevo vent’anni. Era giallo e nero, grande più o meno come un mattone: faceva simpatia».

Sullo schermo le tocca la parte di una workaholic, lo è anche nella vita? «Non potrei mai lavorare come i ragazzi di Macintosh, che vivevano in ufficio, si riposavano su un divano e bevevano caffè per ricominciare! Non potrei nemmeno lavorare quanto lavora Fassbender (ride, ndr), sono meravigliata che stia ancora in piedi e che sorrida! Posso reggere in questo modo solo facendo un film all’anno, che occupa al massimo cinque mesi del mio tempo, anche se ammetto che ultimamente il ritmo è aumentato».

È vero che in questi anni si è allontanata a lungo dai suoi figli solo due volte? «Ho sempre viaggiato con la famiglia dietro, e pianificato i miei lavori in base alla scuola dei ragazzi. Sono speciali, sono creature felici di essere come sono, e questo è il massimo che una madre può sperare per suo figlio. Non so dirle perché, ma nella mia vita personale non sono mai stata così felice».

Quello con Ned Rocknroll è il suo terzo matrimonio. «Nessuno in realtà lo conosce, cosa che mi va a genio, come il fatto che non sia uscita una riga sui giornali sul motivo per cui sono finiti i miei matrimoni precedenti. Alla gente piace giudicare solo perché sente un nome, ma nessuno in realtà sa niente».

Dicevamo di Ned, che marito è? «Mi supporta moltissimo. Sono andata a incontrare Boyle dall’altra parte dell’Australia, mentre ero sul set di Dressmaker. Dopo il colloquio mi ha detto “Ci vediamo il 9 gennaio a San Francisco per le prove”. Era il 16 dicembre e avevo tutt’altri piani per Natale. Sono tornata da mio marito, gli ho raccontato tutto incluso che non sapevo come fare. “Semplice”, mi ha risposto lui, “il 9 sarai su quel set”, ed è il motivo per cui è mio marito».

Oggi come vede Titanic, film del 1997 che per più di un decennio è stato ineguagliabile a livello di incassi e che la ha dato una nomination all’OScar? «È stato il lavoro che ha avuto il maggior impatto sulla direzione della mia carriera, mi ha aperto moltissime strade. Ma non mi ha reso ricca, come credono in molti: avevo 19 anni, nessuno sapeva chi fossi».

 Si sente diversa oggi? «Non credo di essere cambiata molto come persona, mentre lo sono molto come attrice. Il bello del mio lavoro è che a ogni film non sai cosa ti succederà, per Steve Jobs mi svegliavo alle 3 del mattino, camminavo nella notte per andare a girare all’Opera House di San Francisco, e stavo benissimo».

Potrebbe vivere senza lavorare? «Sì ma non per molto, perché amo quello che faccio e più invecchio più scopro che mi piace. Compiendo 40 anni mi sono accorta all’improvviso di essere una di quelle persone che è in giro da tanto tempo. Sono passati 23 anni da Heavenly Creatures, recito da più di metà della mia vita e ne sono orgogliosa. Ho una carriera davvero solida, e so che è inusuale».

 Vincere l’Oscar per The reader è stata la sua gioia più grande? «È stato il momento più glorioso, trionfante, intenso della mia vita. È il premio più importante che ci sia, l’ho vinto e mi sono sentita come mai mi era capitato prima».

Eppure chi la conosce bene giura che lei non corrisponde allo stereotipo della star del cinema. «Semplicemente non vivo così, e la mia vita reale è davvero reale, continuo a ripeterlo perché è vero. Non sono famosa fino a quando non mi ritrovo su un red carpet, o a fare una pubblicità: lì divento una star, all’improvviso».

Tiene molto a che la sua vita privata resti tale, ma davanti alla macchina da presa è disinibita, si è spogliata in ben 12 film. Ha un rapporto sereno con il suo corpo? «Non ho mai usato controfigure, ma non penso che potrò andare avanti così a lungo, dopo tre figli. A 20 anni guardavo il mio corpo in modo poco sano, come tutte le adolescenti. Poi è cresciuta la consapevolezza di doverlo mantenere in forma, e oggi lo vedo come uno strumento che devo preservare in buono stato, perché ho tre ragazzi che hanno bisogno di me».

Cover story di Grazia, n. 4 del 20/1/2016

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